Negli ultimi mesi le nostre vite sono cambiate drammaticamente. Molti di
noi hanno perso il lavoro. Molti hanno continuato a lavorare in condizioni
estreme. Diseguaglianza e disparità sociale sono divenute caratteristiche
sempre più visibili, elementi caratterizzanti del sistema economico e della
società in cui viviamo.
Che la pandemia abbia colpito tutti, ma non nella stessa maniera, è oramai
assodato. Come è assodato che tra i settori a non avere sofferto, ma
anzi ad avere guadagnato dalla crisi, ci sono le piattaforme di acquisto
on-line, Amazon in primis, ma anche tutte le piattaforme di
comunicazione online.
Ovvero quelle che sono divenute veicolo del trasferimento delle nostre
attività lavorative, di studio, sportive, di socialità dalla “vita reale” a
quella virtuale. In molti per fortuna si sono chiesti quali sarebbero
state le implicazioni di tutto ciò, chi erano i soggetti che le gestivano, che
cosa sarebbe successo ai dati generati dalle nostre vite on line, da chi e come
sarebbero stati trattati e con quali implicazioni.
Un dibattito che speriamo rimanga aperto, perché riguarda aspetti per
niente contingenziali rispetto alla crisi sanitaria, bensì un fattore
strutturale per la riorganizzazione di quella che noi chiamiamo “la società
estrattivista”, organizzata per permettere a poche elite di estrarre sempre più
ricchezza materiale e finanziaria dai territori e le comunità locali che li
abitano, espropriati così del potere di decidere sulle proprie vite.
Di quale riorganizzazione stiamo parlando, mentre buona parte degli opinionisti
parla di crisi sanitaria, e della recessione che ne deriva? Parliamo di
un processo iniziato prima della pandemia, in particolare di un nuovo modo
di pensare e organizzare le grandi infrastrutture secondo la logica dei
mega-corridoi, per ridurre tempo e spazio, con l’obiettivo di aumentare
continuamente i profitti a fronte di un rallentamento della crescita del
commercio mondiale e sbandierando il mantra del just in
time su scala sempre più grande.
Un processo solo in parte visibile, fortemente energivoro e radicato
nell’economia dei combustibili fossili, che riguarda la costruzione di nuove
ferrovie ad alta velocità per il trasporto di merci, di nuovi terminal
portuali, data center e nuove centrali energetiche; ma anche di centri
per la logistica di centinaia di ettari, così che la stessa logistica viene
inglobata nel processo produttivo. Il tutto implica una trasformazione
radicale e irreversibile dei territori a vantaggio dei grandi capitali privati,
in cui porti e zone di produzione identificate come “di libero scambio”, o
“Zone Economiche Speciali” (ZES), sono interconnessi.
Quali sono le manifestazioni in Italia e in Europa di questa agenda del
capitale globale? In che modo modificherà la struttura sociale, economica e
produttiva del nostro Paese e del Vecchio Continente? Quale impatto avrà sul
clima e sull’ambiente, due variabili centrali dove sono già molto visibili i
fallimenti e le contraddizioni sistemiche in atto?
La domanda è in parte retorica: difficile immaginare una “globalizzazione
2.0” che acceleri produzioni, trasporto e consumo di merci a una velocità senza
precedenti capace allo stesso tempo di ridurre l’impatto sistemico
sull’ambiente e sul clima, un impatto che va ben oltre il calcolo delle
emissioni dirette e indirette generate.
Il grande progetto dei mega-corridoi infrastrutturali verrà messo in discussione nella crisi economica post-pandemia o invece questa sarà la scusa per accelerarlo? Saranno valutate le sue ricadute complessive, finora gestite come l’ultimo dei problemi da investitori e decisori politici, abbagliati da previsioni e dati su produzione, logistica e commercio globale che ripartono? In che modo risponde ai bisogni dei milioni di persone che già stanno pagando i costi più alti di un modello orientato al profitto a ogni costo?
Il grande progetto dei mega-corridoi infrastrutturali verrà messo in discussione nella crisi economica post-pandemia o invece questa sarà la scusa per accelerarlo? Saranno valutate le sue ricadute complessive, finora gestite come l’ultimo dei problemi da investitori e decisori politici, abbagliati da previsioni e dati su produzione, logistica e commercio globale che ripartono? In che modo risponde ai bisogni dei milioni di persone che già stanno pagando i costi più alti di un modello orientato al profitto a ogni costo?
In che modo risponde ai bisogni delle comunità che
saranno allontanate dalle proprie terre per lasciare il posto a nuove
mega infrastrutture e di chi vive nelle aree più remote del Pianeta,
dove già prima della crisi sanitaria si stava avviando l’attacco
finale alle ultime risorse naturali ancora da estrarre?
In che modo questo progetto ci renderà più resilienti alle grandi siccità, ai tifoni, alle piogge sempre più forti? In che modo contrasterà la cementificazione in aumento nei territori più intensamente popolati? In che modo aiuterà tutti ad avere un tetto sopra la testa?
Noi crediamo che questo sia il momento per aprire a queste domande di così ampia portata.
In che modo questo progetto ci renderà più resilienti alle grandi siccità, ai tifoni, alle piogge sempre più forti? In che modo contrasterà la cementificazione in aumento nei territori più intensamente popolati? In che modo aiuterà tutti ad avere un tetto sopra la testa?
Noi crediamo che questo sia il momento per aprire a queste domande di così ampia portata.
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