Il verso
appartiene alla sezione Versi livornesi del libro
poetico Il seme del piangere (1950-1958), che si apre con la
dedica a mia madre, Anna Picchi. E la madre abita tutti i
versi, il loro movimento da canzone provenzale e stilnovista, la loro luce, il
loro tempo insieme irreale e pulsante di forte, visiva presenza. Una madre
fidanzata, Annina, che il figlio, da una lontananza di anni e di epoca, grazie
all’incantamento delle rime e dell’“anima leggera”, che è messaggera d’amore,
può seguire nelle sue apparizioni livornesi: da passante, nelle uscite
mattutine, al ricamo, in bicicletta, tra le amiche, nella sua stanza, nel
giorno del fidanzamento, alla stazione in attesa della partenza, nel giorno
delle nozze, nel tempo infine della sua sparizione. Forse il più bel canzoniere
d’amore del Novecento italiano, che porta i modi stilnovisti verso una levità
musicale unita a una grazia tutta corporea: figurazione affettiva di una
lontananza che appartiene profondamente pur nella sua assenza,
che sorride da una prossimità fatta d’aria, che guarda di là dal velo della
sparizione. Presenza che solleva nel suo passo d’ombra il profumo di un’epoca,
e sta nel verso, nel suo suono, nelle sue cadenze, come nella casa propriamente
sua. La madre per il poeta vive nella lingua, che è la sua “forma vera”, il suo
respiro. Per questo i versi della poesia che comincia “Per lei voglio rime
chiare”, col titolo esplicitamente dedicatario Per lei, pur non
essendo tra i più intimi, pur non dicendo di lei, della sua figura leggera e
sorridente, se non indirettamente, sono collocati nel cuore del canzoniere, e
sono come l’esposizione di una tavolozza di colori: una sosta, per il lettore,
nella stanza del poeta, in mezzo agli strumenti della sua arte compositiva.
Ecco il testo:
Per lei
voglio rime chiare,
usuali:
in -are.
Rime magari
vietate,
ma aperte:
ventilate.
Rime coi
suoni fini
(di mare)
dei suoi orecchini.
O che
abbiano, coralline,
le tinte
delle sue collanine.
Rime che a
distanza
(Annina era
così schietta)
conservino
l’eleganza
povera, ma
altrettanto netta.
Rime non
crepuscolari,
ma verdi,
elementari.
In
questa stanza del poeta possiamo scorgere alcuni modi di una
poetica che di per sé, per via della sua energia e ricchezza, rischia di
infrangere ogni avvicinamento interpretativo. Come ricordava René Char, un
poeta amato e tradotto da Caproni, a proposito di Rimbaud : costui, diceva
Char, brise, spezza, infrange, ogni interprete. La stessa
cosa può accadere per la poesia di Caproni. E questo perché si tratta di una
poesia “per legame musaico armonizzata”: ogni poesia, certo, lo è, ma questa
definizione che Dante usa nel Convivio, per dire della tessitura
musicale del senso, del nodo suonosenso che rende azzardata
ogni trasmutazione in altra lingua, riferita alla poesia di Caproni ha una sua
quasi letterale evidenza. Perché per Caproni il suono è musica del pensiero, e
il pensiero vive nel suo risuonare. E anche – come accade
soprattutto dal Congedo del viaggiatore cerimonioso in poi,
cioè dai versi degli anni Sessanta fino ai versi postumi di Res amissa –
quando il senso si spinge fino al paradosso, all’estremo, alla propria
dissolvenza, proprio allora il suono rende quel senso trasparente, leggero, e
lo trattiene nella musica di un dire che salva dal vuoto.
Per via di
questa musica del senso la rima, per Caproni, è anima della lingua poetica. Da
una parte, la rima ha dinanzi lo specchio della tradizione poetica e davanti a
quello specchio può essere diretta, obliqua, anamorfica, sghemba, con effetti
antifrastici e ironici, in un dialogo assiduo e talvolta festoso con il
“tesoro” della nostra lingua (miracolosamente qui coincidono sapere letterario
e semplicità, ricchezza linguistica e frugalità). Dall’altra parte, la
rima opera una discesa verso l’incantamento infantile, verso la meraviglia dei
sensi, verso il baudelairiano “vert paradis des amours enfantines” (che lunga,
bella, “fantastica scherma” ha tenuto a più riprese il traduttore Caproni con
i Fiori del male!). E questa doppia disposizione dinanzi alla rima,
non solo nei Versicoli del Controcaproni, dà al dire poetico
un’onda di risonanza che apre una fuga del senso, una dissipazione per dir così
metafisica del senso. Pensiamo, tra tanti, ai suoni sui quali si posa, o
riposa, o scontra, o spegne, la parola Dio e i suoi contorni (un esempio: “Uno
dei tanti, anch’io. / Un albero fulminato dalla fuga di Dio”). L’ateologia
poetica di Caproni è anche una questione musicale.
“Per lei
voglio rime chiare”. La lingua del poeta è lingua materna, lingua, per questo,
di silenzi, o di canto, lingua soprattutto vocalica. E la rima è danza di
vocali. Ci sono passi dello Zibaldone di Leopardi molto belli
sulle vocali, su come dovevano essere sentite dagli antichi (“animavano, per
così dire, tutta la favella, e discorrevano incessantemente per tutto il corpo
di essa, come il sangue nelle vene degli animali”). Le vocali per Caproni hanno
colore, forma, peso. Ma la sua poesia ha fatto sempre un uso sobrio e
dolcemente ironico del ventaglio cromatico e visionario proprio delle
“voyelles” di Rimbaud, e di ogni loro riverbero simbolista. Le “rime chiare”
corrispondono alle “bianche vocali” dei ragazzi (“Sogna le bianche vocali / dei
gridi dei ragazzi, e l’aria/ che le dilata…”, in Träumerei ).
E non sono separabili, le vocali, quanto a effetti di suonosenso, dall’immagine
che portano con sé, incastonate come sono in una parola. Ecco, in una
poesia del 1955, riportata come appendice nel Passaggio di Enea,
alcuni versi : “Ma io ero da me via, / e di passaggio a Bari, / piangevo in
quell’albania / di gabbiani – di ali”. La terra che è di là dal mare, di
fronte, l’Albania, suggerisce il sostantivo albania, un biancore
lampeggiante d’ali che crea un’irradiazione sonora sul senso, come accade alla
parola albatros nella famosa poesia di Baudelaire.
“Per lei
voglio rime chiare”. Le vocali, le rime : il musicale della poesia. Ecco,
in Res amissa, ancora sulla rima, questa volta in riferimento alla
moglie Rina :
Mia rima
sempre in me
battente…
Fonda e
dolce…
Quasi
– in me –
flautoclarinescente.
È con la
musica della lingua che nei Versi livornesi il figlio
“fidanzato” dà figura di presenza alla madre Annina e prega la propria anima,
come il poeta stilnovista pregava la canzone, ad andare in bicicletta a
Livorno, tra la gente, per incontrare lei, la ragazza che va in bicicletta per
le strade della città :
Ricordati
che ti dovrà apparire
prima di
giorno…
Porterà uno
scialletto
nero, e una
gonna verde.
Terrà
stretto sul petto
il
borsellino, e d’erbe
già sapendo
e di mare
rinfrescato
il mattino,
non ti
potrai sbagliare
vedendola
attraversare.
…
accòstati a
lei soltanto,
anima,
quando il mio pianto
sentirai che
di piombo
è diventato
in fondo
al mio cuore
lontano.
Nella tenue
dolcezza di questo canzoniere trema l’antica la luce dei poeti provenzali
: rivediamo la lauzeta di Bertrant de Ventadorn (“Can vei la
lauzeta mover /de joi sas alas contra· l rai…”).
Ma con
questa stessa lingua Caproni, in tutto il suo cammino, da Come
un’allegoria (1932-1935) in poi, si interroga sul vuoto che circonda
la nostra conoscenza del mondo, il nostro sapere, sulla Bestia che abita la
storia e il nostro stesso sentire, sul tragico, sull’insidia assidua del nulla,
sulla sua minaccia. Ma se quel nulla in un poeta come Paul Celan, poeta della
rima dolorosa (schmerzliche Reim), si mostra fin nel cuore della rosa,
fiorisce come rosa, è rosadinessuno, die Niemandsrose,
in Caproni quel nulla sale verso la lingua lasciando nelle sue parole come
un’orma, che è trasparenza, suono nella trasparenza.
La lingua
non cancella la ferita, la vita è vita ferita, ma alcune presenze ci
accompagnano, ci appartengono, vivono con noi in un loro “altro” respiro :
il dono riposto da qualche parte e tuttavia esistente in noi,
il tempo che, pur incenerito, agostinianamente si fa presenza nella
parola-ricordo, e crea così uno stato di nostalgia senza nostos,
senza ritorno, e tuttavia nostalgia.
Esile,
fragile, presenza, ma presenza, che la poesia accoglie nel suono della
sua musica.
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