Chiedere se gli Stati Uniti, la potenza militare mondiale dominante, sia ‘uno stato in fallimento’ dovrebbe causare un’ansia mondiale. Un tale stato, analogamente a un animale ferito, è una minaccia globale di proporzioni senza precedenti nell’era nucleare. La sua dirigenza politica esibisce una scellerata tendenza a combinare incompetenza ed estremismo. E’ anche cruciale accertare a che punto uno stato in fallimento debba essere depennato come ‘stato fallito’ per il quale non c’è più un chiaro percorso di redenzione. Le elezioni di novembre manderanno un forte segnale sull’essere gli Stati Uniti in fallimento o già falliti.
Lo stesso
porsi tali temi già suggerisce quanto gli Stati Uniti siano decaduti durante
gli anni di Trump pur essendo già in netto declino internazionalmente fin dalla
guerra in VietNam, continuando poi salvo alcune mosse di redenzione (adesso
rinunciate), durante la presidenza Obama. Le reazioni della presidenza Trump alle
due grandi crisi del 2020 sono servite a rassodare l’immagine dello stato #1
del mondo come davvero in caduta, e non solo frutti agri che assumono la forma
di un’espressione di frustrazione di parte per una leadership terrificante
– tale perché d’ affermazione delle caratteristiche più regressive del
passato americano e intanto vantando credito senza convincere,
per l’aumento dei valori di borsa e la bassa disoccupazione. La pandemia
Covid-19 e la campagna di Black Lives Matter contro il
razzismo sistematico hanno dato a Trump l’occasione di mostrare la sua
incompetenza letalmente sistemica come gestore di crisi provocando migliaia di
morti fra i suoi concittadini. Inoltre con l’occasione ha potuto mostrare al
mondo la sua solidarietà apparentemente autentica per lo spirito confederate
del sud degli USA che ha cercato di spaccare il paese e preservare la sua
cultura a sostegno della barbarica economia schiavista nella guerra
civile americana 150 anni fa, risultando da allora un dolente
perdente.
Con questi
sviluppi chiarificatori, non coglie più tutta la realtà di questa tendenza in
giù accontentarsi di richiamare l’attenzione al ‘declino imperiale’ dell’America.
Per come stanno attualmente le cose, sembra più rilevante insistere a
descrivere gli USA come uno ’stato in fallimento’ e cercare di capire che cosa
significa per il paese e per il mondo. Per la precisione è instruttivo rendersi
conto che gli Stati Uniti non sono uno stato in fallimento, bensì il primo caso
di stato globale in fallimento, tenendo debitamente conto del
suo stato egemonico multi-dimensionale in quanto concretizzato dalla proiezione
planetaria della sua possanza militare per aria, mare e terra, spazio e
cyber-spazio, nonché dalla propria influenza sull’operare dell’economia mondiale
e dal carattere di cultura popolare, espressa nella musica o nella gastronomia.
Ci sono
parecchi parametri per uno stato in fallimento che possono far luce sulla
realtà USA:
- fallimenti
funzionali: incapacità
di rispondere adeguatamente alle sfide che minacciano la sicurezza della
società e della sua popolazione da parte di attori politici ostili interni
ed esterni, come pure dalle instabilità ecologiche, dalla fame e povertà
estrema diffuse, e da un carente sistema sanitario e reattivo ai disastri;
- fallimenti
normativi: rifiuto
di ottemperare alle norme sistemiche a livello internazionale come
inserite nel diritto internazionale e nello statuto ONU, pretendendo
impunità e di agire sulla base di standard doppi per attuare le proprie
usurpazioni geopolitiche sul benessere di altri e nell’ indifferenza ai
pericoli ecologici; gli schemi di fallimenti normativi comprendono avalli
di politiche e prassi che danno luogo a genocidio ed ecocidio, costituenti
le più basilari violazioni del diritto penale internazionale e dei diritti
sovrani di paesi stranieri; i torti sono troppi per essere precisati, fra
cui comunque gravi e sistemiche negazioni di diritti umani nella governance nazionale;
strutture socio-economiche che generano inevitabilmente acute
diseguaglianze socioeconomiche secondo la classe, la razza, e il genere.
Alcune
considerazioni aggiuntive accentuano la realtà di condizione fallimentare degli
USA per le estese dimensioni extraterritoriali che accompagnano il divenire di
‘uno stato globale in fallimento’. Questo nuovo tipo di creatura politica
transnazionale dovrebbe venire classificato come primo esempio storico di
‘superpotenza geopolitica’. Un tale attore politico è né separato da né del
tutto soggetto al sistema statocentrico dell’ordine mondiale evolutosi dalla
Pace di Westfalia nel 1648, e universalizzatosi nei decenni successivi alla 2^
guerra mondiale. Benché mancando un vero antecedente, il ruolo delle ‘grandi
potenze’ europee o degli ‘imperi coloniali’ dà indicazioni per la valutazione
degli USA come stato globale o superpotenza geopolitica;
- efficacia: la perdita di efficacia
di uno stato in fallimento si svela nella sua incapacità di mantenere ed
esercitare il controllo sulle sfide alla propria supremazia. Tale analisi
è giustificata da operazioni militari fallite (interventi per cambiamenti
di regime) e dall’incapacità d’imparare da e superare errori passati, da
constatazioni sorprendenti di vulnerabilità del territorio nazionale (gli
attacchi del 11 settembre [2001]) e da reazioni eccessivamente costose e
distruttive (il varo della ‘guerra al terrore all’indomani 12 sett.);
rispetto e fiducia calanti da parte di attori politici secondari, fra cui
stretti alleati, nel contesto di arene di formazione di una linea politica
globale, fra cui l’ONU; quale ulteriore riflessione di tale dinamica di
controllo perso c’è lo schema di ritiro dai campi non più controllabili
(Consiglio sui Diritti Umani, OMS) e del rigetto di accordi che appaiono
benefici al mondo intero (Accordo sul Cambiamento Climatico di Parigi e
Accordo sul Programma Nucleare Iraniano-JCPOA);
- legittimità: la legittimità di uno
stato globale, che per sua natura compromette potenzialmente la sovranità
politica e l’indipendenza di tutti gli altri stati, riflette quant’altro
sopra, la sua utilità come fonte si autorità per la soluzione di problemi,
specialmente in questioni di guerra/pace e situazioni di recessione
economica globale; il grado di legittimità dipende anche dalle percezioni
delle élite politiche e dell’opinione pubblica che le asserzioni di leadership globale
siano in generale benefiche per il sistema nel suo insieme e come
particolarmente d’aiuto agli stati vulnerabili per sfide acute di
sicurezza e sviluppo; a questo proposito, gli USA hanno goduto di un alto
grado di legittimità dopo la fine della 2^ guerra mondiale, come fonte di
sicurezza e perfino di guida per molti governi in quasi tutte le regioni
del mondo durante tutta la Guerra Fredda, e furono anche apprezzati come
architetti di un ordine economico liberale governato dalle norme che
operava con le istituzioni di Bretton Woods incaricate di evitare
ricorrenze della Grande Depressione che aveva minato la stabilità e il
benessere economico durante gli anni 1930, sviluppi che avevano poi
contribuito al sorgere del fascismo e allo scoppio di una guerra sistemica
costata almeno 50 milioni di vite. Il ruolo della dirigenza USA fu anche
prominente nel raggiungimento di un ordine pubblico globale in settori
come la gestione degli oceani, l’evitare conflitti in Antartide e nello
Spazio Extra-terrestre, nell’istituire standard internazionali di diritti
umani, e nel promuovere un inter-nazionalismo liberale come modo per
valorizzare approcci cooperativi globali a problemi condivisi.
Come qui
suggerito, gli Stati Uniti come stato in fallimento si sono graficamente
rivelati tali nella propria reazione alla pandemia COVID-19: rifiuto di seguire
avvertimenti precoci; inaccettabili carenze di attrezzatura per il personale
sanitario e insufficiente capacità ospedaliera; premature aperture economiche
di ristoranti, bar, negozi; contraddittori standard di guida da esperti
sanitari e capi politici, comprese falsità e false notizie abbracciate dal
presidente USA nel bel mezzo di un’ emergenza sanitaria. Oltre a questo, Trump
ha adottato un inappropriato approccio nazionalista e mercificatore alla
ricerca di un vaccino capace di conferire immunità alla malattia, ma al tempo
stesso immobilizzando l’ONU, e specialmente l’OMS, come sede indispensabile per
trattare le epidemie di portata globale, ivi compreso il suo ruolo di
dispensatrice di assistenza vitale ai paesi più svantaggiati. Questi fallimenti
sono risultati in modo traumatizzante nel registrare gli USA un numero maggiore
d’infetti che qualunque altro paese al mondo, nonché nella massima incidenza di
fatalità attribuibili al morbo.
Contrastanti
sono state le risposte di vari paesi molto meno sviluppati e ricchi, che hanno
contenuto efficacemente il morbo senza gran perdita di vite o gravi danni
economici in termini di occupazioni perse e diminuita prestanza economica.
Giudicate dalla prospettiva sanitaria, tali società sono storie di successo, e
istruttivamente la loro identità ideologica attraversa l’intero spettro
politico, comprendendo il Vietnam socialista statalista e paesi mossi dal
mercato come Singapore, SudCorea, e Taiwan. Tali risultanze vanno in parallelo
a quella di Deepak Nayyar che nel suo libro di sfondamento The Asian
Resurgence (2019) riferisce che l’esperienza di notevole crescita
delle 14 società asiatiche che egli valuta empiricamente avvalora la
conclusione che l’ orientamento ideologico non sia un indicatore economicista
di successo o fallimento. Tali reperti sono rilevanti nel refutare le
asserzioni trionfalistiche dell’Occidente che il crollo sovietico dimostrasse
la superiorità del capitalismo nei confronti del socialismo. Il fattore
cruciale quando si tratti di successo economicistico è la gestione competente
dei rapporti stato/società sia in quanto all’investimento dei risparmi nel dare
precedenza a progetti di sviluppo, sia cercando d’imporre un lockdown per
ridurre la diffusione di un morbo infettivo letale.
Tuttavia,
c’è un lato normative degli schemi reattivi come sopra suggerito. La Cina
tratta la ricerca disperata di un vaccine agibile come un bene pubblico
condivisibile, mentre gli Stati Uniti con Trump mantengono il loro approccio
transazionale standard nonostante problemi di accessibilità economica per molti
paesi del Sud globale, come pure per i poveri nel Nord. Da una prospettiva da
21° secolo, l’ethos dell’essere tutti insieme in questo pantano è l’unico
fondamento per affrontare i dilemmi sempre più impegnativi dell’ordine
mondiale. E’ un segno di uno stato in fallimento, indipendentemente dalle
proprie capacità e status, utilizzare il proprio potere d’influenza per
ottenere vantaggi nazionali e geopolitici. Dello stesso segno è pure
l’ignominia normative di rifiutarsi di sospendere sanzioni unilaterali imposte
a paesi come Iran e Venezuala, già in difficoltà, almeno per la durata della
pandemia in risposta a diffuse appelli umanitari da attori della società civile
ed istituzioni internazionali.
Un’osservazione
finale sull’orientamento del vettore USA: verso un futuro di fallimento o di
redenzione. Se Trump perde l’elezione e lascia la Casa Bianca al suo avversario
le prospettive di rovesciare la tendenza fallimentare migliorano, mentre se
Trump è rieletto in novembre o riesce a cancellare il risultato elettorale gli
USA si saranno avvicinati a diventare uno stato fallito con l’avallo della
cittadinanza o con l’evidente infiacchimento dell’ordine costituzionale, non
più abbastanza resiliente da rigettare il fallimento. Anche se Trump viene
sostituito e il trumpismo recede, sarà difficile ridurre lo slancio dietro al
capitalismo predatorio e al militarismo globale senza una spinta rivoluzionaria
che rigetti il consenso bipartitico su tali temi e sfidi la sufficienza della
democrazia procedurale centrata sul ruolo dei partiti politici e delle
elezioni. Solo un movimento progressista dal basso infrangerà quel consenso,
ponendo fine ai lamenti sulla transizione USA incerta fra fallimento rischiato
e avvenuto. Se la dirigenza di Black Lives Matter a
un’alternativa movimentista sia robusta e rappresentativa delle varie istanze
abbastanza da por fine alla caduta libera americana si
chiarirà nei prossimi mesi.
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