Il bell’articolo di Bruno Gullì, «Le
radici della rivolta attuale: la triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e
capitalismo dei disastri»[1],
discute in termini molto efficaci “il disastroso presente, la vulnerabilità, il
futuro soffocato” negli Stati Uniti di oggi, soffocati appunto dalla triplice pandemia
di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri.
Apprezzo molto, fra le altre cose, la
caratterizzazione della figura e del ruolo di Obama rispetto
all’amministrazione Bush che lo aveva preceduto, “la continuazione di una
storia di disprezzo per la vita”: la cosa che immediatamente mi torna alla
mente è dopo la pretestuosa ed efferata guerra all’Iraq del 2003, quando a
fronte di mezzo milione di bambini morti (e circa tre volte vittime totali) il
suo Segretario di Stato, Madeleine Albright, per la prima volta una donna,
interrogata se riteneva che ne fosse valsa la pena rispose con un cinismo
rivoltante “we think the price is worth it”.
Proprio questo mi da l’occasione, nel
mio giudizio positivo dell’articolo, per fare un appunto critico ma
costruttivo, a mio avviso non di poco conto. Le “tre pandemie” discusse da
Gullì costituiscono, con le conclusioni che trae, una buona base per inquadrare
la situazione interna degli Stati Uniti: ma il paese si
caratterizza in modo peculiare come la maggiore potenza militare del pianeta, e
da qui trae la sua forza e la sua fisionomia, anche per molti aspetti della sua
struttura interna, politica, sociale ed economica. I Democratici, come del
resto Gullì argomenta, non hanno mai messo in discussione la politica imperiale
di Washington: per le elezioni di novembre i candidati democratici che avrebbero
potuto, pur tiepidamente, contrastare questa politica militare sono ormai fuori
gioco, ma anche i più radicali non mettevano in discussione il ricorso alla
guerra alla base della politica di dominio imperiale degli Stati Uniti.
Del resto dubito fortemente che un
candidato alla presidenza degli Stati Uniti abbia reali possibilità di venire
eletto se non viene a patti con almeno un gruppo di potere del complesso
militare-industriale! Il militarismo è radicato profondamente nella mentalità
della popolazione, soprattutto bianca[2]:
quando Trump proclama “Make America great again” tocca una corda profonda
nell’anima di molta parte degli statunitensi, ma dubito che non si radichi
anche nell’inconscio di tanti altri.
Questa a mio parere è la carenza
principale delle argomentazioni di Gullì.
In questo articolo cercherò di
analizzare esplicitamente questo aspetto, la quarta pandemia,
degli Stati Uniti e del mondo, e la sua stretta ineliminabile correlazione con
le altre tre, nonché con l’emergenza climatica ambientale.
Allo stesso tempo questo articolo ha
anche una seconda finalità. Nella mia esperienza politica mi sono formato coniugando
i temi della guerra e del disarmo con l’impegno ambientalista. Ma con la
sconfitta dei movimenti degli anni Settanta si è dissolta anche la visione
ecopacifista, e si è divisa (operando una semplificazione brutale) in un fronte
pacifista e uno ambientalista (“fronti”, purtroppo, molto frammentati al loro
interno, e a volte anche litigiosi): da molto tempo i movimenti ambientalisti
in buona sostanza non si occupano delle guerre, e quelli pacifisti non si
curano molto dell’ambiente. Con l’aggravamento sempre più incalzante della
crisi climatica sono sorti grandi movimenti globali per la difesa
dell’ambiente, ma in larga misura hanno ignorato i rischi di guerra che si
fanno sempre più gravi. Mi sembra opportuno ricordare che l’autorevole insieme
di scienziati e specialisti raccolti nel Bulletin of the Atomic
Scientists, nato nel 1945 sull’obiettivo del disarmo nucleare, si è
allargato ad altri specialisti, e nelle previsioni del Doomsday Clock concepito
dal 1947 per monitorare i rischi di una guerra nucleare ha poi incluso tutte le
altre minacce al futuro dell’umanità, fra le quali in modo crescente il
riscaldamento globale: è questa stretta sinergia di rischi ambientali e
militari che ha portato il Bulletin negli ultimi anni ad
avvicinare in modo sempre più allarmante le lancette del Doomsday Clock alla
fatidica Mezzanotte della società umana, alla prossimità da brivido di appena
100 secondi![3] La
fine della società umana quale la conosciamo non dipende solo dallo
sconsiderato saccheggio dell’Uomo sulla Natura e sui propri simili, con
l’aggravante delle incombenti pandemie, ma le guerre a la possibile Apocalisse
nucleare potrebbero essere una “scorciatoia”. Le pandemie da denunciare e a cui
porre rimedio sono appunto quattro.
Ma procediamo con ordine. Dapprima
vorrei approfondire brevemente le considerazioni di Gullì sul ruolo costitutivo
della guerra nella formazione e nella struttura del capitalismo (in
particolare, ma non solo, come fattore fondativo della formazione degli Stati
Uniti): non intendo certo fare “una lezione” a Gullì, che indubbiamente queste
cose le conosce perfettamente, ma mi rivolgo soprattutto ai giovani. In una
seconda parte discuterò i nessi fra guerre e ambiente, sul ruolo determinante
dei militari e delle loro produzioni e azioni sulle devastazioni ambientali,
che ritengo un aspetto trascurato nella cosiddetta ecologia politica.
Parte 1
Guerre, depredazioni,
stermini sono alla radice della formazione e dell’accumulazione capitalistica
Gullì porta citazioni molto appropriate
di Marx sulla violenza estrema che ha caratterizzato lo sviluppo del
capitalismo in tutte le sue fasi, “l’estrema violenza insita nell’accumulazione
e nell’espropriazione capitalistica [che] si basa sempre su una logica di
distruzione e di disastro, e in questo senso costituisce una terribile pandemia
a sé stante”: la guerra è stata e rimane sempre più lo strumento
principale del dominio e dell’espropriazione capitalistica.
Il dominio dell’Europa nel mondo è stato
imposto storicamente esercitando una violenza estrema e disumana sugli altri
popoli, depredando le loro risorse, spesso sterminandoli, e cercando di
sradicare le loro fedi e il corpo delle loro conoscenze[4].
La depredazione implica la logica del razzismo: il popolo, o il genere,
depredati sono necessariamente considerati inferiori, bestiali, incivili: come
avviene nella guerra. Il razzismo moderno è la sedimentazione dei processi
storici di spoliazione, riduzione in schiavitù, ed eliminazione fisica.
La società europea ha conquistato il
mondo imponendo con violenza inaudita i modi di pensare, agire, vivere al resto
dei popoli del mondo, cercando di eliminare fisicamente intere popolazioni (genocidio),
e di sradicare e cancellare l’identità culturale, le conoscenze, le credenze (epistemocidio)
diverse dalle proprie. Questo processo determinò l’imposizione di una visione
del mondo, i “valori” dell’«uomo
[maschio]-europeo-capitalista-militare-cristiano-patriarcale-bianco-eterosessuale»[5]:
gli studi postcoloniali hanno introdotto il termine efficace di colonialità.
Si trattò di una accumulazione per brutale espropriazione (delle
ricchezze, della cultura, dei saperi, delle sensibilità), le cui fasi cruciali,
e caratterizzanti, furono
·
la liberazione definitiva alla fine del
XV secolo della Spagna che era stata conquistata dagli Arabi, attuando un
feroce genocidio/epistemicidio dei musulmani e degli ebrei[6];
·
la successiva conquista del continente
americano, attuando il genocidio/epistemicidio nei confronti dei popoli
indigeni; e successivamente la schiavizzandone degli africani nel continente
americano;
·
il genocidio/epistemicidio delle donne,
cioè la soppressione di qualsiasi forma si autonomia, di sapere, di visione del
mondo, di attività – ed anche l’eliminazione fisica – delle donne.
Il mito della “scoperta” dell’America, poi
della conversione dei “selvaggi”, mascherò quello reale della “conquista”, e
poi della “espropriazione” e dello “sfruttamento” (questo si selvaggio).
Grosfoguel distingue la seguente progressione (pp. 48, 51, 54) molto
espressiva, basata sempre sull’imposizione e la violenza:
·
secolo XVI, conversione dei selvaggi e
barbari: cristianìzzati o ti sparo,
·
secoli XVIII-XIX, missione
civilizzatrice, colonialismo: civilìzzati o ti sparo,
·
secolo XX, progetto sviluppista: svilùppati
o ti sparo,
·
secolo XXI, interventi militari per la
“democrazia” e i “diritti umani”: democratìzzati o ti sparo.
Aggiungerei semmai che … si è sparato lo
stesso!
Per impossessarsi delle ricchezze del
continente americano fu compiuto il più efferato genocidio della storia
moderna. Si valuta che tra i 50 e i 100 milioni di nativi [su una popolazione
mondiale che nel XVI secolo si stima attorno a 500 milioni] morirono a causa
dei colonizzatori, come conseguenza di guerre di conquista, perdita del loro
ambiente, cambio dello stile di vita e soprattutto malattie contro cui i popoli
nativi non avevano difese immunitarie (il problema ritorna drammaticamente per
la pandemia del Covid-19 per il contagio delle popolazioni incontattate),
mentre molti furono oggetto di deliberato sterminio poiché considerati barbari,
addirittura “non umani”. Per secoli questa spietata conquista è stata celebrata
come una storia di successo per l’intero pianeta!
Parallelamente procedeva la
colonizzazione del corpo delle donne: l’eliminazione della cultura e
dell’autonomia delle donne europee culminò con la caccia e i roghi delle
“streghe” dei secoli XVI e XVII[7].
Il patriarcato non è stato un’eredità del passato, ma è stato rifondato per
intero dal capitalismo[8].
Ma dopo avere sterminato
indiscriminatamente nelle Americhe le popolazioni indigene, quando si trattò di
passare allo sviluppo intensivo delle piantagioni di canna da zucchero, il
nuovo “oro bianco”, la mano d’opera locale si rivelò gravemente insufficiente:
nessun problema, anzi una nuova occasione per fare lauti profitti, sviluppando
la brutale tratta degli schiavi neri deportati dall’Africa. Per più di tre
secoli, dal XVI alla fine del XIX, milioni di persone furono comprate in Africa
e deportate come schiavi. Molti afroamericani e africani chiamano questo
fenomeno black holocaust, o olocausto africano (o
si riferiscono a questo olocausto con il nome maafa, in lingua
swahili: “disastro”, o “avvenimento terribile”, “grande tragedia”, come la
nakba per il popolo palestinese).
Anche l’ambiente naturale divenne un
mero mezzo di arricchimento e di profitto: le monocolture furono installate
bruciando le foreste e le coltivazioni presenti prima dell’arrivo di Colombo.
Penso che molti rimangano colpiti se transitano dalla Corsica lussureggiante al
paesaggio arido della Sardegna: quest’unica lingua di terra aveva un paesaggio
omogeneo prima che, sotto il regno sabaudo, nell’Ottocento le foreste sarde
fossero decapitate per fornire le traversine alle ferrovie di mezza Europa[9].
E se volessimo risalire alle radici dell’ambientalismo italiano, Francesco
Casula ci ricorda in un articolo di tre anni fa che fu “Gramsci, in un articolo
sull’Avanti di 102 anni fa (23 ottobre 1918), censurato e
riscoperto 60 anni dopo, a denunciare la devastazione ambientale e climatica,
frutto della spoliazione e distruzione dei boschi”[10].
Guerra, genocidio, ecocidio,
epistemicidio, sono stati anche i metodi fondativi degli Stati Uniti d’America,
attraverso lo sterminio dei popoli indigeni, i cosiddetti “pellerossa”,
mistificato con il mito della “Frontiera”, la “conquista del West” glorificata
per decenni dall’epopea cinematografica del film western in cui venivano
rappresentati gli “indiani” cattivi! Il razzismo è costitutivo della società
statunitense (smettiamo di chiamarla “americana”, un oltraggio imperialista a
tutte le popolazioni dell’intero continente riflesso nell’ideologia del
“destino manifesto” che trovò forma nel 1823 nella “Dottrina Monroe”).
Dopo la colonizzazione delle Americhe,
il dominio coloniale fu il fondamento anche della fase successiva, la Prima
Rivoluzione Industriale (senza dimenticare il lavoro riproduttivo e domestico
come fattore dell’accumulazione primitiva). Il cotone costituì l’ossatura della
nascente industria inglese. L’India rappresentò il prototipo del nuovo
colonialismo d’insediamento, che trasformò le efferatezze e i genocidi della
conquista del Nuovo Mondo in sfruttamento brutale e inumano.
Fra le “pandemie” è il caso di ricordare
che la droga è stata un fattore importantissimo della Rivoluzione Industriale:
l’oppio, ricavato dal papavero, divenne una merce acquistabile a basso prezzo,
promuovendone l’abuso di massa. Gli inglesi disponevano delle enormi
piantagioni d’oppio dell’India, e sfruttavano la mano d’opera a costi irrisori.
In Inghilterra, dove inizialmente l’oppio era riservato ad aristocratici e
artisti, esso si diffuse tra le operaie e gli operai dei distretti industriali
e dei villaggi agricoli vicini alle fabbriche, che lo usavano per sopportare
meglio i ritmi della fabbrica. La droga dava un sostegno all’organismo
attraverso l’oblio e dissimulando uno stato mentale e fisico efficiente, ma
produceva una immediata dipendenza. Il suo spaccio non era clandestino ma era
accessibile nelle drogherie, dove era l’articolo di più facile smercio: il suo
costo era inferiore a quello dell’alcol. La disarticolazione delle famiglie
operaie e il super-sfruttamento del lavoro delle donne costringeva moltissime
operaie a non poter prendere cura dei loro neonati e a stordirli con droghe per
renderli inerti e controllabili[11].
Lo sviluppo del capitalismo vanta anche, un vero infanticidio di
massa che fece crescere la mortalità infantile a livelli altissimi.
L’oppio divenne la materia prima che
finanziò l’impero britannico in India[12]:
da solo forniva agli Inglesi tra il 17 e il 20% del totale delle entrate
indiane (senza tenere conto degli altri profitti generati dal trasporto o le
varie industrie dell’indotto). Una delle pagine nere del colonialismo
britannico fu l’operazione di colmare un forte deficit interno imponendo con le
cannoniere all’India e soprattutto all’immensa Cina di acquistare tonnellate di
oppio, falcidiando un popolo per qualche generazione! Nel 1839, quando la Cina
propose un trattato per la cessazione del traffico, scoppiò la Prima Guerra
dell’Oppio (1839-1842): una flotta di ben quaranta navi partì dall’Inghilterra
per assediare Canton, e la tecnologia degli inglesi fu determinante sulla
superiorità numerica dei soldati cinesi. Ma per l’Impero Cinese il peggio
doveva ancora venire. La Francia fiutato l’affare provocò un casus
belli che diede inizio alla Seconda Guerra dell’Oppio (1856-1860), le
forze Anglo-Francesi entrarono a Pechino, saccheggiandola. Il grande Impero del
Sol Levante era finito e con esso la filosofia, e anche il più antico sistema
medico conosciuto, ebbero quasi a scomparire: un tentato epistemicidio.
Lo status di Hong Kong, oggi al centro delle cronache, ebbe
origine allora, poiché con questa disfatta la Cina dovette cederlo al Regno
Unito. Law and order fu la parola d’ ordine della penetrazione
inglese in Cina. L’oppio fu il grimaldello di questa svolta della storia
mondiale, la “pandemia” di allora.
Lo schiavismo negli Stati Uniti venne
introiettato nella formazione di un’identità culturale genuinamente
statunitense. Nacque nella prima metà del XIX secolo la prima forma teatrale
autoctona, il «blackface», spettacoli di artisti bianchi che si esibivano
dipingendosi la faccia di nero, cioè una caricatura bianca dei neri e una
fucina di orribili stereotipi: una tradizione folklorica in gran parte rimossa
o perché ritenuta, a torto, innocua e marginale, o per la ragione opposta,
perché parte di una storia razzista e imbarazzante. Questo passato innominabile
caratterizzò le fondamenta dello spettacolo e della musica popolare
statunitensi, basati su pregiudizi etnici e sociali.
Fu uno squallido antecedente degli Zoo
Umani, che richiamarono milioni di visitatori con lo sviluppo del
colonialismo nel corso dell’Ottocento, mostrando intere comunità di “selvaggi”
deportati dalle colonie da impresari affaristi che nulla avevano da invidiare
ai “negrieri”, e costretti ad esibirsi in pubblico[13].
Fu un giro di affari colossale.
Infatti nell’Ottocento lo sfruttamento
coloniale conobbe una trasformazione epocale. La colonizzazione dell’Africa
inaugurò la fase imperialista, volta al rafforzamento della potenza
internazionale, all’estensione dei commerci, all’esportazione del surplus della
produzione in patria, all’accaparramento delle grandi miniere d’oro e di
diamanti, all’esportazione di capitali. La Gran Bretagna dominò le conquiste
coloniali, proclamando nel 1876 l’Impero Britannico (che aggiungeva ai 244.000
kmq dell’isola un territorio 100 volte superiore “conquistato” nei cinque
continenti, e sarebbe arrivato a 150 volte nel 1914). Una vera “gara” con ogni
mezzo si sviluppò fra l’Inghilterra, la Francia (che nel 2014 raggiunse quasi
un terzo dell’estensione dell’Impero Britannico), il Belgio, l’Olanda, la
Germania, le Russia, e buon ultima l’Italia.
Ricorderò solo alcune delle atrocità
commesse dal colonialismo. Il Congo (che quando io ero bambino veniva ancora
chiamato “Congo Belga”: ma quante persone sanno che nei secoli XIV-XV vi era
stato un potente Regno del Congo[14]?
Poi, da lì vennero deportati 4 milioni di schiavi verso l’America), dal
1895 possedimento personale del cattolicissimo re Leopoldo II
del Belgio (che lo chiamò eufemisticamente “Stato Libero del Congo”), fu
soggetto a un genocidio di quasi metà della popolazione, 10 milioni di vittime
in 23 anni[15].
Anche i bambini di pochi anni erano costretti a lavorare per 10-12 ore nelle
piantagioni di re Leopoldo, ma cosa è cambiato oggi quando nella Repubblica
Democratica del Congo i bambini sono costretti a lavorare in condizioni estreme
nelle miniere di coltan con cui sono fabbricati i nostri “telefonini”? (40.000
denuncia Amnesty International). La prima bomba atomica verrà
realizzata nel 1945 con uranio congolese.
L’Australia fu scoperta solo nel 1770 da
James Cook. Vi vivevano probabilmente almeno 1 milione di “Aborigeni”, ma la
dottrina giuridica della “terra nullius” (terra di nessuno) dichiarò che il
quinto continente era disabitato! Questo perché nella cultura degli Aborigeni
non era presente il concetto di proprietà terriera bensì quello di appartenenza
dell’individuo alla terra d’origine. Cominciò la caccia per lo sterminio degli
Aborigeni e la conquista delle loro terre. Nel 1930 sopravvivevano solo 80.000 aborigeni[16].
Solo nel 1992 la Suprema Corte australiana dichiarò l’invalidità della dottrina
della “terra nullius”.
Ricordo ancora il caso della Namibia,
perché per molti storici preparò gli orrori del Nazismo, e dal punto di vista
che ho assunto spiega bene i nesso fra razzismo e guerra. Nel 1884 il
Cancelliere tedesco Bismarck la dichiarò “Africa Tedesca del Sud-Ovest”. Gli occupanti
tedeschi si appropriarono con la violenza delle terre (molte ancora oggi in
mano a discendenti dei colonizzatori) e misero in schiavitù gran parte della
popolazione, nel 1904 effettuarono uno sterminio di immense proporzioni, che
però è stato dimenticato fino a poco tempo fa. In seguito alla rivolta dei
popoli Herero e Nama contro le violenze dei colonizzatori il governo di Berlino
inviò il famigerato Lothar von Trotha, la cui strategia fu l’annientamento
totale, ricorrendo anche all’avvelenamento dei pozzi d’acqua, decimando per
fame e sete la popolazione civile. Le stime degli storici parlano di almeno
100.000 morti tra Herero, Nama e altre etnie tra il 1904 e il 1908. Per lo
storico del colonialismo Jurgen Zimmerer: “La differenza della Namibia con gli
altri colonialismi è anzitutto il genocidio come guerra dello Stato, e non come
espressione di violenza privata. … una pulizia etnica sistematica e
centralizzata”[17].
Scrive Hannah Arendt ne Le Origini del Totalitarismo: «La
distruzione dei popoli coloniali fu una preparazione all’Olocausto, i campi di
raccolta e le impiccagioni di massa degli Herero, un gigantesco e infernale
addestramento ai campi di concentramento nazisti». Dietro gli atti atroci,
inoltre, erano presenti ideologie razziali e pseudoscientifiche molto simili a
quelle che informeranno lo sterminio degli ebrei, anche se era la “razza” nera
a essere considerata inutile o nociva per gli interessi della popolazione
tedesca. Alcune vittime diventarono cavie umane per gli esperimenti medici di
Eugene Fischer, uno scienziato tedesco che condusse studi sulla “razza” e
sperimentò la sterilizzazione e l’inoculazione di malattie come vaiolo, tifo e
tubercolosi su donne e bambini. Tra gli allievi di Fischer, diventato poi
rettore all’Università di Berlino, ci fu Josef Mengele, che in seguito condusse
esperimenti genetici sui bambini prigionieri nel lager di
Auschwitz.
Solo pochi anni fa sono iniziati
negoziati fra la Germania e la Namibia e sono in corso azioni legali per
ottenere “compensazioni” per le popolazioni namibiane. Le richieste di
risarcimento e riconoscimenti per l’orribile passato colonialista stanno ora fluendo
dal Pakistan, dall’India e da altri paesi che sono stati devastati dal razzismo
e dall’imperialismo europei. Il caso namibiano potrebbe mettere in moto
l’intero pianeta, poiché è quasi il mondo intero che è stato devastato dal
colonialismo europeo.
Penso sia superfluo in questa sede
soffermami sulle atrocità compiute dall’Italia nelle guerre coloniali in
Africa.
Mi soffermerò invece succintamente su
quando l’Impero Britannico creò il caos in Medio Oriente per i propri biechi (e
in prospettiva errati) calcoli, una politica che ha anticipato e preparato
quella degli Stati Uniti. Questo schematico sunto rende solo una pallida idea
dell’intrico delle vicende[18].
È fondamentale tenere presente che per
tutto l’Ottocento il concetto di “frontiera” era sconosciuto e fu il
colonialismo con la logica di rapina che cambiò radicalmente le cose. La
furiosa competizione tra le potenze europee pose l’esigenza di demarcare le
conquiste dei singoli Stati stabilendo le basi della “legalità” (coloniale) del
possesso dei territori: un concetto del tutto strumentale di “legalità” che ha
dato fondamento giuridico formale alla predazione delle terre dei popoli che vi
vivevano da secoli, considerandole anche qui terre “di nessuno”.
Fino alla Prima Guerra Mondiale tutto il
Medio Oriente faceva parte dell’Impero Ottomano. L’evento epocale fu a fine
Ottocento la comparsa del petrolio: la lotta per il controllo del
petrolio divenne frenetica, rendendo sempre più inevitabile un conflitto
mondiale. In vista della guerra la Gran Bretagna impostò uno spregiudicato
doppio gioco nei confronti degli arabi, per assicurarsi l’appoggio contro la
Turchia, fornendo a tutti garanzie inconciliabili fra loro di concessioni e
diritti successivi al conflitto.
Così nel giugno 1915 lo sceriffo Hussein
che governava La Mecca proclamò la rivolta araba a fianco di Londra: gli
inglesi lesinarono i mezzi perché non volevano trovarsi una nuova potenza araba
una volta sconfitti i turchi. Intanto Londra e Parigi avviarono alle spalle
degli arabi trattative segrete per decidere la spartizione del Medio Oriente
dopo la guerra: il piano Sykes-Picot (dai nomi dei negoziatori) del 1917, per
procurarsi l’appoggio militare della Russia le forniva garanzie che annullavano
la prospettiva di uno stato per il popolo armeno (che nel 1915 aveva subito lo
spaventoso genocidio da parte della Turchia), e giocava cinicamente la carta
sionista sulla pelle degli arabi. A fine Ottocento Teodoro Herzl aveva posto
l’obiettivo della creazione in Palestina – abitata da 600.000 arabi a fronte di
25.000 ebrei – di una sede nazionale per il popolo ebraico, e nel 1917 con la
“Dichiarazione Balfour”, “Il governo di Sua Maestà considera[va] favorevolmente
l’insediamento di un focolare nazionale in Palestina per gli ebrei”. La
Rivoluzione Bolscevica guastò i calcoli, determinando il ritiro della Russia
dal conflitto (gli accordi Sykes-Picot vennero allo scoperto perché una copia
fu trovata negli archivi del ministero degli Esteri russo).
Dopo la fine del conflitto gli accordi
di spartizione furono difficilmente applicabili, e dopo travagliate trattative
le brutali spartizioni, con linee tracciate nel deserto che non tenevano conto
delle popolazioni che abitavano i territori, crearono i problemi drammatici che
ancora oggi affliggono il mondo! I popoli curdo e armeno vennero cinicamente
sacrificati. La Francia ottenne il protettorato della regione siriana che, per
mettere sotto controllo le conflittualità, spezzò in 5 Stati. Gli inglesi
lasciata la Siria si ritirarono in Palestina e in Iraq, dove proseguirono dopo
la firma dell’armistizio con la Turchia l’offensiva militare per occupare i
campi petroliferi di Mossul, incontrando una fiera opposizione popolare degli
arabi. Il nazionalismo arabo si sviluppò irrimediabilmente e non poté più
essere frenato, alimentato dai soprusi degli europei.
Gli errori e i soprusi degli inglesi in
Iraq e dei francesi in Siria produssero danni irreparabili nel futuro del Medio
Oriente! La Gran Bretagna divise artificialmente la Transgiordania in Palestina
e uno Stato inventato, che diventò più tardi la Giordania. Sulla Palestina
impose un protettorato, di fatto un’occupazione militare, e praticò una
sistematica politica di impoverimento e vessazione della popolazione araba. Nel
1936 esplose la grande rivolta araba che fu l’atto di nascita del nazionalismo
palestinese. I sionisti svilupparono una campagna di terrorismo verso gli
inglesi che assunse le caratteristiche di una vera guerra di logoramento:
sabotaggi, attentati dinamitardi, rapimenti di militari, ecc. Questi furono i
prodromi della formazione dello Stato di Israele del 1948.
Le manovre britanniche portarono anche
alla proclamazione nel 1932 del regno dell’Arabia Saudita, cioè Arabia dei
Saud, che si fondò sul wahabismo radicale come religione di stato[19]:
i potenti Saud contano meno di un secolo. Gli inglesi sbarrarono però la strada
al controllo saudita sul Kuwait, per i propri interessi imperiali, e privando
allo stesso tempo l’Iraq dello sbocco al mare (e conosciamo le conseguenze
nella Guerra del Golfo del 1991). Ingiustizia era fatta! La strategia del “caos
creativo” perseguita oggi dai neocons statunitensi non è in fondo nulla di
nuovo, l’aveva inaugurata l’Impero di Sua Maestà Britannica un secolo fa. Nel
secondo dopoguerra iniziò una successione di colpi di stato e cambiamenti di
regimi, iniziata dal golpe organizzato dalla CIA in Iran nel 1953 per deporre
il primo ministro Muhammad Mossadeq, reo di avere proposto niente meno che di
nazionalizzare la Compagnia anglo-iraniana del petrolio!
La cosiddetta decolonizzazione successiva
prenderebbe troppo spazio. I paesi coloniali prima di cedere compirono ovunque
repressioni feroci, come quelle della Francia nella Guerra d’Algeria 1954-1962,
ed hanno sistematicamente complottato per eliminare i leader progressisti
“scomodi” che intendevano svincolarsi dal loro dominio (basti ricordare gli
assassinii di Patrice Lumumba, Congo 1961; Thomas Sankara, Burkina Faso 1987) e
insediare al potere regimi oscurantisti o dittatoriali molto più malleabili per
i loro fini. Ma intanto in quei paesi e in quei popoli si è sviluppata una
coscienza civile, e con essa la consapevolezza dei danni profondi subiti
durante la dominazione coloniale: come possiamo stupirci del profondo
risentimento verso i nostri Paesi?[20]
Parte 2
La quarta pandemia, la
guerra e il militarismo dei disastri
Gli Stati Uniti sono stati in guerra 222
anni su 239 che esistono come stato: c’è chi si è chiesto se questa furia
bellica rischi di diventare autodistruttiva[21].
Negli Stati Uniti (ma la tendenza è in atto in tutto il mondo) la polizia ha
adottato in modo crescente metodi, strumenti repressivi ma anche armamenti
prettamente militari: e oggi il collegamento fra le radici del razzismo e il
militarismo è sempre più spinta con la gestione militare dell’ordine pubblico
attuata brutalmente da Trump con l’utilizzo della Guardia nazionale e
addirittura di agenti segreti e mezzi privi di qualsiasi contrassegno di
riconoscimento. Insomma, l’ordine pubblico diviene un problema di “sicurezza
nazionale”, pertanto militare, al pari della politica energetica e industriale[22].
Ma vorrei passare a discutere l’aspetto
che vedo troppo spesso trascurato dai movimenti ambientalisti, anche da quello
che è sorto a livello mondiale dopo le proteste di Greta Thunberg: il legame
profondo fra la guerra e le attività e le produzioni militari, e le
devastazioni ambientali, quello che Gullì chiama il capitalismo dei disastri.
Il contrasto del riscaldamento globale
punta a chiudere l’epoca dei combustibili fossili: ma se anche riconvertissimo
per incanto tutte le produzioni con fonti energetiche rinnovabili rimarrebbe lo
spaventoso consumo degli eserciti! Quanti sanno che il solo Pentagono è
valutato il 35o consumatore
di petrolio al mondo in una graduatoria che include 210 Stati?[23] «Secondo
il 2010 Base Structure Report, l’impero globale del Pentagono include
più di 539.000 strutture in 5.000 siti che coprono più di 28 milioni di acri,
bruciando 350.000 barili di petrolio al giorno (solo 35 paesi nel mondo
consumano più) senza contare l’olio bruciato da appaltatori e fornitori di
armi. La fornitura di carburante riguarda più di 28.000 veicoli blindati,
migliaia di elicotteri, centinaia di aerei da combattimento e bombardieri e
vaste flotte di navi militari» (con l’eccezione di 80 sommergibili e portaerei
che diffondono … inquinamento radioattivo). Forse pensiamo che la propulsione
di portaerei, sommergibili, carri armati, ecc., venga convertita a energia
solare?!
Rossana de Simone commentando la
conferenza “Salva la terra, abolisci la guerra” tenuta nel giugno 2019 a Londra
dall’organizzazione Movement for the Abolition of War,[24] sintetizzava
il problema con le parole: “E’ stato stimato che Il 20% di tutto il degrado
ambientale nel mondo è dovuto agli eserciti e alle relative attività militari”.
Nel libro The Green Zone. The
Environmental Costs of Militarism (2009), l’ex docente di storia delle
idee Barry Sanders riporta un calcolo impressionante: l’esercito USA, con tutti
i mezzi e le operazioni, contribuirebbe da solo ad almeno il 5% delle emissioni
di gas serra totali. Gli Stati Uniti hanno quasi metà delle colossali spese
militari mondiali (nel 2019 più di 1.700 miliardi di $), se sommassimo
l’impatto di tutti gli eserciti e le attività militari esso costituisce uno dei
primissimi responsabili di emissioni di gas climalteranti del pianeta. Sarà
arduo eliminare o riconvertire l’intero complesso dell’industria petrolifera,
figuriamoci “debellare” l’istituzione militare.
Dopo la conferenza sul clima di
Copenhagen del 2008 Sara Flounders si chiedeva[25]:
«Com’è possibile che il peggiore inquinatore di CO2 e di altre emissioni
tossiche del pianeta non sia un punto centrale di discussione e delle
restrizioni proposte in ogni conferenza? … il Pentagono è il maggiore
utilizzatore istituzionale di prodotti ed energia dal petrolio. Eppure il
Pentagono gode di un’esenzione generalizzata [potremmo dire ‘a prescindere’ con
Totò] in tutti gli accordi internazionali sul clima». «Ai tempi dei negoziati
per gli Accordi di Kyoto gli USA pretesero come clausola per firmare che tutte
le loro operazioni militari nel mondo e tutte le operazioni alle quali
partecipavano con l’ONU e/o la NATO fossero completamente esentate da
rilevazioni o riduzioni. Dopo essersi assicurata questa gigantesca concessione,
l’amministrazione Bush poi rifiutò di firmare gli accordi». «Nonostante gli USA
avessero già ricevuto queste assicurazioni nei negoziati, il Congresso degli
Stati Uniti ha approvato un’esplicita disposizione che garantisce l’esenzione
dei militari. Inter Press Service riportò il 21 maggio 1998:
“I legislatori USA, nell’ultimo colpo agli sforzi internazionali per
arrestare il riscaldamento globale, oggi hanno esentato le operazioni militari
americane dall’accordo di Kyoto … un emendamento alla military
authorization bill del prossimo anno che ‘proibisce la limitazione
delle forze armate ai sensi del protocollo di Kyoto’».
Vediamo qualche dato quantitativo
sull’impatto ambientale e disastri provocati dalle guerre.
Secondo il rapporto A Climate of
War del 2008 i primi quattro anni di pesantissime operazioni militari
in Iraq dal 2003 hanno provocato l’emissione di oltre 140 milioni di tonnellate
di gas serra (CO2 equivalente), più delle emissioni annuali di 139 paesi[26]:
si stima che la guerra abbia generato per la sola movimentazione di sistemi
d’arma (aerei, carri, autoblindo, tank, aerei etc.) più di tre milioni di
tonnellate di CO2 al mese.
Un rapporto del 2014 dell’International
Peace Bureau (Ipb), “Demilitarization for Deep Decarbonization”,
affermava recisamente: «Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la
guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse
risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità
resilienti».
Lo studio del giugno dello scorso anno
“Pentagon Fuel Use, Climate Change, and the Costs of War” di Neta Crawford[27] della
Boston University nell’ambito del progetto Cost of war, analizza il
consumo di carburante nelle guerre USA “antiterrorismo” post-11 settembre. Dal
2011 al 2017 la stima al ribasso, per il solo consumo di combustibile, arriva
all’emissione di 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra (CO2 equivalente). Ma
queste stime non comprendono la produzione di armi e il suo impatto ecologico e
climatico, né l’impatto sul clima e sull’ambiente delle distruzioni massicce di
infrastrutture, case, servizi, tutto da ricostruire.
L’appello «Stop the Wars, stop the
warming» lanciato da World Beyond War alla vigilia della
Conferenza sul clima di Parigi (2015) affermava: «L’uso esorbitante di petrolio
da parte del settore militare statunitense serve a condurre guerre per il
petrolio e per il controllo delle risorse, guerre che rilasciano gas
climalteranti e provocano il riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo
circolo: farla finita con le guerre per i combustibili fossili, e con l’uso dei
combustibili fossili per fare le guerre».
Ma l’impatto delle attività militari e
delle guerre sull’ambiente e sul clima va ben oltre le emissioni di gas serra.
Le attività militari sono responsabili di molte forme di inquinamento e danni
alla salute delle popolazioni: dai metalli pesanti per finire all’uranio
impoverito, e anche al torio per la sperimentazione di razzi nei poligoni di
tiro. Basti ricordare il micidiale “agente Orange” smodatamente utilizzato
dagli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, il quale ancora oggi protrae i suoi
effetti devastanti. Non meno grave è l’occupazione di territori sottratti a coltivazioni
o altre attività umane utili, e che invece rimangono gravemente e
permanentemente contaminati dalle attività militari: il militarismo dei
disastri! Come esempio, sono noti (ma i procedimenti giudiziari sono
insabbiati) i danni alla salute umana e degli animali, e ovviamente
all’ambiente, dei poligoni di tiro in Sardegna, regione che detiene il record
di servitù militari in Italia[28].
Ma a parte l’inquinamento e l’emissione
di gas serra, che fine fanno gli armamenti non usati un guerra e diventati
obsoleti? Non sono certo “riciclabili” o riutilizzabili in una futura economia
circolare: le attività e le produzioni militari spezzano in un modo
assolutamente irreversibile, e purtroppo inarrestabile, qualsiasi ciclo
naturale. Un esempio eloquente sono i cimiteri di sommergibili nucleari
ereditati dalla Guerra Fredda[29].
Ma la crescente produzione di armamenti sempre più sofisticati contenenti
materiali tecnologici avanzati lascerà altre eredità ingestibili.
Nell’articolo citato trattavo anche
dell’uranio depleto, i cui effetti hanno colpito anche i soldati italiani che
servirono all’estero: i decessi hanno superato i 300. Ovviamente poco si sa
sull’aumento di tumori e malattie a danno delle popolazioni vittime degli
indiscriminati attacchi militari, e che ovviamente non hanno canali per
ricorrere alla giustizia o ottenere risarcimenti (il Tribunale per la ex
Jugoslavia archiviò le denunce contro la NATO). Il problema è stato risollevato
da un recentissimo articolo del Bulletin of the Atomic Scientists[30]:
nella sola “Guerra del Golfo” del 1991 l’esercito USA esplose 300 tonnellate,
disperdendo complessivamente fra 170 e 1.700 tonnellate del metallo tossico e
radioattivo, e non ha mai dichiarato le località colpite. Le bonifiche sono
praticamente impossibili. La contaminazione è valutata 50 volte maggiore che
nei Balcani, ancora oggi i bambini giocano con i reperti (ricordiamo che l’uranio
impiega 24.000 anni per dimezzarsi!) ed accusano l’insorgenza di tumori ed
altre malattie, e gli effetti si proiettano sugli embrioni e su feti.
Ovviamente, come per molti cancerogeni (si pensi ai tumori da amianto) il nesso
causa-effetto non è deterministico e occorrerebbero controlli su decine di
migliaia di abitanti per decine di anni, ma dopo le guerre devastanti i sistemi
sanitari di questi paesi sono collassati.
Com’è possibile cullarsi nell’illusione
di poter arrestare ed invertire la crisi ambientale e il riscaldamento globale
senza affrontare l’opposizione alle attività militari e alle guerre? Senza
dubbi quest’ultimo è un problema ben più difficile da affrontare che non la
riconversione dell’industria petrolifera, ma non è che lasciandolo da parte
sarà più facile realizzare la transizione post-fossile!
Last but not at all least, è singolare che chi denuncia l’incombere della
minaccia climatica e si batte per questa transizione trascuri, o frequentemente
ignori, un’altra minaccia che potrebbe spazzare via la società umana che
conosciamo letteralmente … “in un baleno”: come ricordavo all’inizio, il Bulletin
of the Atomic Scientists ci allerta che oggi il rischio di guerra
nucleare è il più alto dal 1945! Le simulazioni più recenti conferano (dopo innumerevoli
altre) che anche uno scambio limitato di bombe nucleari (per esempio 200 in
un’eventuale guerra fra India e Pakistan, le cui tensioni sono da sempre
sull’orlo di un conflitto) genererebbe, altre alle vittime dirette, un “inverno
nucleare” il cui protrarsi potrebbe causare la morte di 2 miliardi di esseri
umani.
Fra l’altro, è stato autorevolmente
denunciato anche un possibile nesso diretto con la crisi climatica, la quale
potrebbe aggravare i rischi di una guerra nucleare[31]:
uno scenario particolarmente preoccupante è che l’aumento delle temperature
globali causino devastazioni dell’agricoltura in Pakistan, scatenando proteste
sociali che potrebbero portare gli elementi islamisti allineati con le forze
armate a impadronirsi delle circa 150 testate nucleari; tanto che il US
Joint Special Operations Command sta conducendo esercitazioni per
infiltrare agenti nel paese.
Ma dopo questa serie di denunce vorrei
finire con una dose di ottimismo. Per fortuna una luce si è accesa 3 anni fa,
quando la campagna internazionale ICAN (International Campaign to Abolish
Nuclear Weapons) coinvolse le Nazioni Unite, che il 7 luglio 2017
approvarono il nuovo Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN, inglese
TPNW), il quale vieta il possesso, l’uso ed anche la minaccia delle armi
nucleari. In Italia purtroppo questo trattato ha subìto un vergognoso
oscuramento da parte dei principali media e partiti, sottomessi al Washington
consensus e alla NATO. Il TPAN necessita per entrare in vigore come
parte integrante del diritto internazionale di venire ratificato da 50 Stati:
ma siamo probabilmente in dirittura d’arrivo, le ratifiche sono 40. È chiaro
che il TPAN sarà vincolante solo per gli Stati che lo firmano, ma una volta in
vigore diverrà un deterrente per dissuadere dal ricorso alle armi nucleari:
come è avvenuto per altri trattati che vietano armi di distruzione di massa o
inumane (batteriologiche, 1972; chimiche, 1993; mine antiuomo, 1997), il
principio sarà stabilito e il TPAN estenderà inesorabilmente la sua funzione,
perché la popolazione mondiale pretenderà su una base giuridica l’eliminazione
delle armi nucleari, e un crescente numero di Stati lo riconoscerà, diventerà
un obbligo. È solo questione di tempo.
Note
1[1]. Bruno Gullì, «USA. Le radici della
rivolta attuale: la triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei
disastri», Effimera, 19 luglio 2020, http://effimera.org/usa-le-radici-della-rivolta-attuale-la-triplice-pandemia-di-razzismo-covid-19-e-capitalismo-dei-disastri-di-bruno-gulli/.
2[1]. Le referenze sono tante, e ne conosco
solo qualcuna, ma eloquenti: A. J. Bacevich, The New American
Militarism: How Americans Are Seduced By War, 2013; W. J. Astore, “American
militarism is not a fairly tale”, The Nation, 14 giugno 2011, https://www.thenation.com/article/archive/american-militarism-not-fairy-tale/; P.
Anderson, “Militarism in America”, Reader, 30 maggio 2019, http://duluthreader.com/articles/2019/05/30/17068_militarism_in_america;
D. Niose, “You’ve Been Conditioned for War”, Psychology Today, 11
gennaio 2020, https://www.psychologytoday.com/us/blog/our-humanity-naturally/202001/youve-been-conditioned-war.
3[1].”Closer than ever, It is 100 seconds to
midnight”, 2020 Doomsday Clock Statement, Science and Security Board, Bulletin
of the Atomic Scientists, 23 gennaio 2020, https://thebulletin.org/doomsday-clock/current-time/?utm_source=Newsletter&utm_medium=Email&utm_campaign=Newsletter01232020&utm_content=DoomsdayClock_2020Statement.
4[1]. Ho sviluppato più compiutamente queste
considerazioni nell’articolo “Il capitalismo-colonialismo-imperialismo ha
creato il caos del mondo in cui viviamo!”, Contropiano, 2 febbraio
2020, https://contropiano.org/documenti/2020/02/02/il-capitalismo-colonialismo-imperialismo-ha-creato-il-caos-del-mondo-in-cui-viviamo-0123631.
5[1]. Assumo queste categorie da Ramon Grosfoguel, Rompere la colonialità. Razzismo, islamofobia, migrazioni
nella prospettiva decoloniale, Mimesis, 2017, p. 32.
6[1]. Le mie conoscenze storiche non sono
sufficienti per formulare un giudizio, ma mi sembra di potere per lo meno
ipotizzare che per molti aspetti, o per lo meno per alcuni periodi, la
dominazione araba nella Spagna mussulmana – a parte il suo grande apporto
civile, culturale, medico, scientifico – abbia praticato forme di notevole
tolleranza verso cristiani ed ebrei. Scrive ad esempio Roberto Rutter: «Cordova
è certamente la città più ricca dell’Europa alla fine del primo millennio. Vi
si coltivano le scienze, la matematica e la geometria, le lettere e la musica.
… La maggioranza della popolazione è cristiana, ma ci sono anche molti ebrei e
qualche berbero. Il potere però è saldamente in mani musulmane. … [Dopo la
conquista Araba, 711-716] con l’arrivo degli Omayyadi diventa possibile la
creazione di un nuovo Stato, iberico e islamico: l’emirato e poi il califfato
di Cordova. Per governare uno stato multietnico in cui il potere è in mano ad
una minoranza, seppure forte delle armi, la tolleranza non è un’opzione
secondaria accolta per magnanimità dei dominatori, ma l’unica scelta possibile.
È così che nella Spagna moresca del decimo secolo si avvia un primo interessante
esperimento di stato multietnico e multiculturale basato sulla convivenza di
cristiani, musulmani, ebrei e berberi. … Certo, non esistono convivenze senza
attriti. Anche nel califfato si verificano sommosse e ribellioni soffocate nel
sangue. Ma non sono questi a porre termine all’esperimento multiculturale.»
[Roberto Ruegger, “Un esperimento di tolleranza: la Spagna musulmana”, Area,
16 novembre 2001, https://www.areaonline.ch/Un-esperienza-di-tolleranza-la-Spagna-musulmana-b13a3900].
Si trovano ovviamente anche contestazioni di questa idea. Meno controversa
sembra l’idea di un islam tollerante verso gli ebrei: ad esempio Bernard
Lewis, Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, 1991.
7[1]. Oltre al citato Grosfoguel, un
riferimento obbligato è Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne
il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, 2015 (Calibano è un personaggio
teatrale di William Shakespeare nella commedia La Tempesta, un
mostro ripugnante amico di Prospero).
8[1]. Intervista a Silvia Federici, “Su
capitalismo, colonialismo, donne e politica alimentare”, 17 luglio 2010, http://www.sagarana.net/anteprimal.php?quale=32.
9[1]. Fiorenzo Canterini, Colpi di
scure e sensi di colpa. Storia del disboscamento della Sardegna dalle origini a
oggi, Delfino Editore, 2013.
10[1]. F. Casula, “Quando i tiranni sabaudi
rasero al suolo la Sardegna”, Il Manifesto, 1 febbraio 2017, https://www.manifestosardo.org/quando-i-tiranni-sabaudi-rasero-al-suolo-la-sardegna/.
11[1]. Lucio Villari, “I bambini drogati ai
tempi di Dickens, Il lato oscuro della rivoluzione industriale nei rapporti dei
medici inglesi”, La Repubblica, 16 marzo 2013, http://illuminations-edu.blogspot.com/2013/03/i-bambini-drogati-ai-tempi-di-dickens.html.
12[1]. Amitav Ghosh, Mare di Papaveri,
Neri Pozza, 2009.
13[1]. Un bel documentario di ARTE TV in
italiano, Selvaggi, La storia degli zoo umani, https://www.arte.tv/it/videos/067797-000-A/selvaggi-la-storia-degli-zoo-umani/ (visibile
fino al 30 agosto 2020). “Uomini in gabbia, gli zoo umani nell’Europa
bianca”, Info Out, 27 gennaio 2017, https://www.infoaut.org/culture/uomini-in-gabbia-gli-zoo-umani-nelleuropa-bianca.
14[1]. William G. Randles, L’antico
Regno del Congo, Jaca Book, 1983.
15[1]. Si veda ad esempio B. Bellesi, Congo,
il genocidio dimenticato. Dalla seconda metà dell’Ottocento al 1960,
Peacelink, 26 marzo 2005, https://www.peacelink.it/kimbau/a/10354.html.
Se oggi l’opinione pubblica ignora questa, e altre orribili carneficine
compiute ai tempi della colonizzazione europea in Africa, lo si deve anche al
fatto che gli autori dell’eccidio fecero in modo da nascondere le proporzioni e
le prove dei loro scempi: quando nel 1908 Leopoldo cedette ufficialmente la
propria colonia al governo del Belgio, fece bruciare per otto giorni
consecutivi gli archivi dei suoi possedimenti congolesi, e ridusse al silenzio
i testimoni scomodi. A riportare alla luce l’ecatombe congolese sono stati i
pochi documenti amministrativi rinvenuti dagli storici, e soprattutto le
centinaia di impressionanti fotografie scattate da reporter indipendenti o da
missionari ai tempi dei massacri, come quelle di Alice Seeler, https://www.vice.com/it/article/vd58dm/alice-seeley-harris-foto-colonialismo-congo-432.
16[1]. Un fenomeno obbrobrioso è stato quello
delle Stolen generations (Generazioni rubate), che si è
protratto dal 1870 a ben il 1970! I bambini venivano strappati alle loro
famiglie per privarli della loro identità culturale, rieducati ai costumi
britannici per impiegarli come servi per le famiglie dei colonizzatori. Tra il
1910 e il 1970, almeno 100.000 bambini furono allontanati dalle loro famiglie.
Tra il 1995 e il 1997 fu condotta un’inchiesta sull’allontanamento di bambini
australiani aborigeni dalle loro famiglie, e nel 1998 fu istituito il National
Sorry Day. Solo il 13 febbraio 2008 il neo-primo ministro australiano Kevin
Rudd si è scusato ufficialmente con le popolazioni e con i sopravvissuti delle
Stolen Generations. Secondo la Convenzione dell’ONU per la Prevenzione e
Repressione del Genocidio del 1948 il “trasferimento violento dei minori da un
gruppo all’altro” integra gli estremi del genocidio.
17[1]. T. Mastrobuoni, “Namibia, 1904; quando
i tedeschi fecero le prove della Shoah”, La Repubblica, 30 maggio
2017, https://www.repubblica.it/venerdi/articoli/2017/05/30/news/namibia_genocidio_tedeschi_herero-166817547/.
18[1]. Devo suggerire vivamente per capire le
vicende, gli interessi, le manovre, gli inganni che hanno portato al Medio
Oriente di oggi il libro purtroppo esaurito di Filippo Gaja, Le
Frontiere Maledette del Medio Oriente, Maquis Edizioni, 1991. Suggerisco
anche: R. Paternoster, Medio Oriente, mina vagante fabbricata in Europa
nel 900, http://win.storiain.net/arret/num120/artic2.asp).
19[1]. Si veda ad esempio E. Bertini, Arabia
Saudita e wahhabismo, 24 aprile 2017, https://[limesclubpisa.wordpress.com/2017/04/24/arabia-saudita-e-wahhabismo/.
20[1]. Paolo Barnard, Perché Ci Odiano,
BUR, 2006.
21[1]. Tom Engelhardt, A Nation Unmade
by War, Haymarket Books, 2018.
22[1]. Giorgio Ferrari, “Quarta rivoluzione
industriale e transizione energetica: le aspettative mal riposte del New Green
Deal”, in corso di pubblicazione su Effimera.
23[1]. Mario Agostinelli, “Cop 21: per
combattere l’inquinamento il Pentagono è militesente”, Il Fatto
Quotidiano, 1 dicembre 2015, https://www.energiafelice.it/cop21-per-combattere-linquinamento-il-pentagono-e-militesente/.
24[1]. Rossana De Simone, “Militarismo e
cambiamenti climatici, The Elephant in the Room”, Peacelink, 31
ottobre 2019, https://www.peacelink.it/disarmo/a/46982.html.
25[1]. Sara Flounders, “Pentagon’s Role in
Global Catastrophe: Add Climate Havoc to War Crimes”, Global Research,
18 dicembre 2009, https://www.globalresearch.ca/pentagon-s-role-in-global-catastrophe-add-climate-havoc-to-war-crimes/16609.
26[1]. A. Bast, “A Climate of War. The war in
Iraq and global warming”, Oilchange, 1 marzo 2008, http://priceofoil.org/2008/03/01/a-climate-of-war/.
27[1]. Neta Crawford, “Pentagon Fuel Use,
Climate Change, and the Costs of War”, Boston University, 12 giugno
2019, https://watson.brown.edu/costsofwar/files/cow/imce/papers/2019/Pentagon%20Fuel%20Use,%20Climate%20Change%20and%20the%20Costs%20of%20War%20Final.pdf.
28[1]. Walter Falgio, “Sardegna: l’invasione
militare e chi si oppone”, Bottega del Barbieri, 11 maggio
2020, http://www.labottegadelbarbieri.org/sardegna-linvasione-militare-e-chi-si-oppone/.
29[1]. A. Baracca,
“Antropocene-Capitalocene-Nucleocene: l’eredità dell’Era Nucleare è
incompatibil con l’ambiente terrestre (e umano)”e, Effimera, 11
settembre 2018, http://effimera.org/antropocene-capitalocene-nucleocene-leredita-dellera-nucleare-incompatibile-lambiente-terrestre-umano-angelo-baracca/.
30[1]. Elena Bruess e Joe Snell, “War and the
environment: The disturbing and under-researched legacy of depleted uranium
weapons”, Bulletin of the Atomic Scientists, https://thebulletin.org/2020/07/war-and-the-environment/.
31[1]. Michael T. Klare, “How Rising Temperatures Increase the Likelihood of Nuclear War”, The Nation, 13 gennaio 2020, https://www.thenation.com/article/archive/nuclear-defense-climate-change/.
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