C’è qualcosa in rovina, qualcosa che sfugge, qualcosa di morto. Una meta, un luogo perfetto, sognato, sempre più in alto, su un monte, in un’altezza separata dal mondo. Ma la felicità di quel luogo è solo una finzione, probabilmente un ricordo, quasi sicuramente qualcosa che svanisce, se non una macchina di supplizio. È un’ascesa (un’ascesi) alla separazione del mondo o forse piuttosto un’espulsione da esso, imposta da interessi di altri; oppure è un modo in cui qualcuno che fa una vita ne sogna una diversa, come se fosse la realizzazione di una qualche felicità primordiale e non uno sprofondare nella ripetizione, nell’inanità, nel disgusto di una vita piatta, incarcerata nella necessità materiale, senza luce, insopportabile. L’esistenza, così, tende a trasformarsi in abitudine alla morte. L’atto, solo l’atto è vita, corrente che si consuma immediatamente agendosi. Il pensiero scaccia dall’Eden, diventa paura dell’atto, arte della formulazione, arte della presentazione, dilazione e tormento. Imprecisa Matematica dell’impossibilità di esserci, di vivere. Insomma: teatro mentale dell’assenza e della tortura; vale a dire Thomas Bernhard.
Sono usciti da Adelphi nella traduzione di Giovanna Agabio sotto il titolo
unico di Midland a Stilfs tre racconti pubblicati dallo
scrittore austriaco per la prima volta in volume nel 1971, in un’opera di
recupero ancora incompleta in Italia della sua ampia produzione, fatta di
romanzi, brevi e ampissimi, di testi teatrali acidi e per lo più monologanti, di
icastiche novelle. Nota Luigi Reitani in una recensione sul “Sole 24 Ore” come
la dimensione della storia breve sia germinale nella produzione dell’autore:
concentra temi, motivi, snodi linguistici che nelle opere di maggior respiro
vengono sviluppati. In questo volume, costituito dai racconti Midland a
Stilfs, Il mantello di loden, Sull’Ortles. Notizie da
Gomagoi, siamo sulle alpi tirolesi, in un’ambientazione, nel primo e
nell’ultimo, tra gole e pendii montani come in alcuni dei primi romanzi,
come Gelo (Einaudi) e Perturbamento (Adelphi).
Come sempre la struttura narrativa si distende incastrandosi a scatole cinesi,
riportando fatti riferiti da qualcuno che può aver assistito agli avvenimenti o
che soltanto è destinatario di un’informazione da parte dei protagonisti o di
qualche più o meno presunto testimone. Tutto ciò che viene detto, quindi, può
essere considerato frutto di punti di vista sempre discutibili, mai portatori
di una verità che non sia prospettiva o addirittura distorsione personale.
Al centro della prima e dell’ultima storia ci sono due fallimenti; due
suicidi, collegati da un mantello di loden, troviamo nella seconda, ambientata
a Innsbruck, città alpina.
In Midland a Stilfs alcuni fratelli si sono confinati tra
i monti, dove temono e desiderano allo stesso tempo l’arrivo di visitatori, in
particolare dell’inglese Midland; ma in qualche modo vi sono stati precipitati
da “quei terribili tiranni dei genitori”.
Nell’ultima novella, un’ascesa di due fratelli verso la malga di famiglia
che non visitano da anni, la ricerca di un posto appartato dal mondo pieno di
risonanze familiari fa riemergere tutta la violenza di padre e madre, rivissuta
perfino nelle loro voci che a mano a mano che la salita si fa più ardua
ritornano negli incitamenti di un fratello all’altro. Il luogo cercato si
rivela lascito, eredità, retaggio anche psichico, incombenza dei
genitori.
Il mantello di loden ribalta la prospettiva e mostra l’emarginazione
di un padre, espropriato della sua attività dal figlio e dalla nuora, via via
sfrattato dai suoi appartamenti e costretto ad abitare sempre più in alto, nel
suo palazzo, fino all’abbaino dal quale si suiciderà. Non è senza significato
che il suo mestiere, usurpatogli dal figlio, sia quello di creatore di arredi
funebri: la morte, fisica o psichica, è sempre in agguato in questi dintorni
desolati.
Separazioni, fughe volute o indotte, dal mondo. Propositi falliti. Opere di
impegno scientifico, da realizzarsi lontano da distrazioni, tentate e mai
riuscite, come in altri romanzi, nella Fornace (Einaudi),
in Cemento (SE), in Correzione (Einaudi)…
In Midland a Stilfs i due fratelli, più la sorella su
sedia a rotelle e un ragazzone tuttofare mezzo pazzo, ricevono una volta
all’anno la visita di un inglese, Midland (terra di mezzo?) che ha perso la
sorella in quei luoghi e viene a visitarne la tomba. L’inglese pensa che i suoi
amici abbiano scelto un posto ideale per realizzarsi: arriva, parla magari una
notte intera, si bea della montagna, poi riparte. Per i fratelli vivere là, tra
i monti, è come un suicidio dalla società. Le verità non dialogano, non si
confrontano, restano impenetrabili, chiuse in sé stesse, presunte. Sono una
ricerca di senso nelle esistenze degli altri, ignorando come la vita in un
luogo apparentemente idilliaco sia sentita come atroce condanna da chi la
subisce come un fallimento. Stilfs diventa una proiezione mentale dell’inglese,
perso nelle troppe idee, incapace di realizzare nulla. Viceversa il fare dei
fratelli, inchiodati intorno alla sedia a rotelle della sorella, continuamente
alle prese con incombenze materiali che li distraggono da più intellettuali
ambizioni, è come un’espiazione dal sapore di condanna per un peccato. E,
specularmente, il libero pensatore Midland, con ogni possibilità di mobilità,
di fuga da quell’ambiente ristretto, è condannato di anno in anno a ripetere
gli stessi gesti, visitare la tomba della sorella defunta (i legami tra
fratelli, oltre che quelli con i genitori: catene, catene, catene…), andare a
Stilfs: dannoso, dannoso, insensato, ripete una delle voci in
sovrapposizione a altre, in uno dei vertiginosi, sarcastici concertati
bernhardiani. L’inglese gode nel cambiare lingua, dall’inglese al tedesco, dal
tedesco all’inglese… prova la gioia dell’arte della formulazione, dell’attuazione
linguistica; i fratelli vivono un perenne sfinimento del fare.
Nel secondo racconto le sensazioni fisiche si fanno più forti, con
l’avvocato che subito, appena incontra lo strano cliente che gli parlerà degli
oltraggi di figlio e nuora, nota il mantello, simile per alcune finiture
inconfondibili a quello di un suo zio che si è suicidato qualche anno prima. Il
vecchio commerciante di articoli funebri viene fatto accomodare nello studio
freddo, e mentre la stufa inizia a emanare lentissimamente calore, lo vediamo
avvolgersi nel suo mantello, tremare, esplicitare il suo disagio profondo con
atti assolutamente corporei. La scrittura procede per dettagli, sviandosi
continuamente, rimandando di affrontare l’argomento centrale per il quale
l’uomo ha cercato l’avvocato. Lo sguardo dell’avvocato al mantello, il dubbio
continuo che sia quello dello zio, il disagio dell’uomo abbastanza male in
arnese, col loden consumato, forse addirittura recuperato da
un morto, ricostruiscono a poco a poco una figura esclusa dalla propria vita,
come verrà rivelato alla fine, espulsa sempre più su nella propria casa, come
prigioniero in una torre, costretto all’unica evasione possibile da una vita
d’inferno: il suicido, gettandosi dall’abbaino, sua ultima dimora, sulla strada.
Nella terza storia i due congiunti in ascesa verso la malga, che nei punti
più impervi accelerano il passo (Camminare è la penultima opera
breve di Bernhard recuperata alle stampe sempre da Adelphi: leggi la recensione qui), rievocano i loro lavori: artista
acrobata l’uno, come nella pièce teatrale L’apparenza inganna,
scienziato l’altro, studioso degli strati atmosferici, entrambi collegati con
il distacco dalla terra, con la tensione verso l’alto. I due ripercorrono un
continuo, diverso pensare e tormentarsi e essere in preda alla paura prima di
agire, e sperimentano di contro l’attuazione senza pensiero, il consistere
nell’atto, che però subito dopo porta il cruccio di un ulteriore scoglio
retorico, l’arte della presentazione, di quello che si è raggiunto per un solo
momento, un frammento di vita che con la sua volatilità richiama terribilmente
la morte.
In Sull’Ortles, a mano a mano che si sale, che vengono evocate
nei toni le reprimende della madre e soprattutto del padre, assistiamo a giri
di frase che si avvolgono su sé stessi in un incalzante crescendo iterativo,
con apnee, momenti in cui l’accumulo di reiterazioni verbali toglie il respiro,
evocando le infantili punizioni per chi rimaneva indietro, restare
chiusi per tre giorni, ceffoni… Bernhard, morto a 57 anni dopo
una vita funestata da una malattia ai polmoni, che aveva raccontato in uno dei
libri della sua autobiografia, Il respiro appunto (Adelphi),
ha modellato la sua prosa su quegli slanci della frase verso l’aperto, bloccati
dalla dispnea, dal soffocamento, un continuo provare a rompere i limiti del
fiato e continuamente precipitare nell’asfissia, per rialzarsi per slittamenti
leggerissimi che, a poco a poco, spostano altrove dalla fissazione della
ripetizione:
“Siccome camminiamo con uno sforzo di volontà sempre maggiore e pensiamo
con uno sforzo di volontà sempre maggiore e mentre camminiamo non ci chiediamo
perché e come e dove andiamo in realtà, e mentre pensiamo non
ci chiediamo perché, dato che semplicemente camminiamo e
semplicemente pensiamo, eccetera, camminiamo e pensiamo, cosa che, come
sappiamo, nel corso della nostra vita è diventato nostra abitudine eccetera.
All’improvviso, egregio signore: il fatto è che abbiamo paura del vuoto della
nostra mente e del vuoto del paesaggio causato dal vuoto della nostra mente,
dell’ipersensibilità della nostra mente, il fatto è che non sappiamo in che
modo pensiamo e in che modo camminiamo, se dobbiamo aumentare o rallentare o
interrompere la velocità del nostro camminare e del nostro pensare, disse.
All’improvviso disse più volte interrompere, interrompere, interrompere”
(pp.119-120).
Le voci dei due fratelli, quella del primo che narra all’agente dell’altro
e quella del secondo fratello riportata dal primo, si sono fatte quasi
indistinguibili in un salire che è scendere nelle paure più profonde,
nell’incertezza di un mondo di cui bisognerebbe tacere, con Wittgenstein, ciò
di cui non si può parlare, una società in cui la realtà umana è sempre
questione di percezione, di punti di vista, di verità insufficienti e
inesistenti, di sofferenze, tormenti, memorie, narrazioni, modi della
narrazione.
“Perché quando camminiamo non sappiamo come pensiamo al camminare,
e quando pensiamo, come pensiamo al pensare, e quando
pensiamo, come pensiamo al camminare eccetera; come non sappiamo assolutamente
nulla sul controllo della nostra arte. Ma di questo non osiamo parlare”.
E a questo punto, da questa dissoluzione, da questo caos del senso, da
questa apocalisse come rivelazione, nel racconto all’improvviso i
vortici di parole senza respiro, oltre il respiro, precipitano dalle parti
della realtà. in un finale rivelatore a sorpresa, che naturalmente non
sveleremo.
Crea zone di vuoto mentale nel lettore, sempre, Bernhard, fasce di buio,
mentale, fisico: trascina in gorghi dai quali per un attimo c’è come
l’impressione che non si possa risalire. Poi l’onda ti riprende e ti salva,
magari con un’ultima zampata di umore nero che riporta a qualcosa di
commensurabile, di conoscibile, di certo, che dissolve crudamente i castelli di
carta mentali, l’almanaccare invischiante. Rimane la sensazione di
un’umanissima incertezza e fragilità, spesso uguale alla disperazione, in un autore
sempre in cerca, per spasimi di grottesca potenza, di pietà umana, di
impossibile consolazione.
Altre letture
Su Thomas Bernhard su doppiozero:
Per l’anniversario della morte: https://www.doppiozero.com/materiali/ogni-cosa-e-ridicola-se-paragonata-alla-morte
Sull’ultimo testo teatrale, Heldenplatz: https://www.doppiozero.com/materiali/thomas-bernhard-il-suicidio-del-pensiero
Su Camminare: https://www.doppiozero.com/materiali/thomas-bernhard-camminare
Sul teatro e sull’opera narrativa di Bernhard: https://www.doppiozero.com/materiali/il-teatro-di-thomas-bernhard-una-diffamazione
Su Goethe muore: https://www.doppiozero.com/materiali/oltreconfine/thomas-bernhard-goethe-muore
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