La vicenda
dei verbali del Comitato tecnico scientifico, prima secretati dal Governo e poi
parzialmente resi pubblici per timore di una clamorosa sconfessione da parte
della giustizia amministrativa, lascia davvero interdetti. Nel metodo e nel
merito.
Nel metodo. Riconoscere che la pandemia da
Covid-19 abbia costituito e costituisca un pericolo reale non significa
ammettere che il Governo abbia avuto e abbia carta bianca nel decidere le
misure di contrasto. Tanto più, perché la misura-chiave tra quelle adottabili
per evitare la (ripresa della) diffusione della pandemia – la decisione di
drastiche misure di distanziamento interpersonale – ha comportato e comporta la
limitazione di numerosi e delicatissimi diritti costituzionali. La Costituzione
senz’altro prevede tale possibilità (dunque non si può dire sia stato compiuto
alcun “golpe sanitario”, a meno di voler credere alla ridicola teoria della
cospirazione planetaria), ma ciò non toglie che sia proprio nei momenti di
emergenza che la controllabilità delle decisioni e dei comportamenti delle
pubbliche autorità è più che mai un imperativo costituzionale. Perché è proprio
nelle situazioni di pericolo che si vede la saldezza di un regime democratico.
Che il Governo abbia cercato di tener nascosti i presupposti
tecnico-scientifici delle proprie decisioni è, in quest’ottica, un fatto
gravissimo e difficilmente comprensibile. Naturalmente, nessuno pretende che la
politica si adegui pedissequamente alle valutazioni degli esperti. Di fronte a
ogni questione tecnico-scientifica permane un margine, più o meno ampio, di apprezzamento
discrezionale che il Governo, nell’esercizio delle proprie prerogative, ha
tutto il diritto di utilizzare. Ciò comporta, però, l’assunzione di una
responsabilità e, in un ordinamento democratico, il dovere di motivare
politicamente le ragioni delle decisioni adottate.
Nel merito. Quel che, in particolare, emerge
dai verbali desecretati è che il Governo ha deciso – ripeto: nell’esercizio
delle proprie prerogative – di disattendere due indicazioni rilevantissime del
Comitato tecnico-scientifico. La prima è quella relativa all’opportunità di
istituire come «zona rossa» i comuni di Alzano Lombardo e Nembro: quelli da cui
il virus è partito per devastare Bergamo e provincia (il fatto che, dato il
quadro normativo, avrebbe anche potuto provvedervi autonomamente la Regione
Lombardia non fa venir meno l’eventuale responsabilità politica governativa:
una responsabilità più un’altra responsabilità fa due, non zero,
responsabilità, così come due errori non fanno una cosa giusta). La seconda è
quella relativa all’opportunità di decidere provvedimenti di lockdown localmente
circoscritti alla Lombardia, al Veneto e ad alcuni territori limitrofi,
soprattutto in Piemonte e in Emilia Romagna, oppure all’Italia intera. Entrambe
le scelte del Governo – non chiudere i comuni della bergamasca e bloccare
l’Italia intera – sono risultate gravide di conseguenze. Zone importanti della
Lombardia avrebbero potuto essere preservate? Il Centro e il Sud Italia
avrebbero potuto patire conseguenze socio-economiche incomparabilmente minori?
Può essere che il Governo abbia avuto buone ragioni per decidere diversamente.
Forse la situazione lombarda è apparsa, nel suo complesso, oramai
eccessivamente compromessa. Forse si è temuto che se il virus avesse iniziato a
scendere lungo la penisola il Sistema sanitario nazionale sarebbe globalmente –
e non solo localmente, come pure è successo – collassato. Forse. Di certo, solo
il Presidente del Consiglio e il ministro della Salute potrebbero dirci
qualcosa in più. E, a questo punto, dovrebbero sentire il dovere di farlo.
Anche perché
un dubbio inizia a serpeggiare. Che in misura più o meno incisiva, a seconda
che la Lega sia al governo o all’opposizione, il Paese intero sia caduto in
ostaggio della – impropriamente detta – questione settentrionale. E, in
particolare, delle regioni del Nord-Est. Dal segretario del Pd a cui nemmeno
l’istinto di sopravvivenza impedisce di fiondarsi a Milano per l’aperitivo nel
pieno precipitare della situazione sanitaria; alla riapertura generalizzata
anziché selettiva, per non “lasciare indietro” il Nord (perché la
differenziazione è reclamata quando porta vantaggio, altrimenti viva
l’uniformità); al ministro per gli Affari regionali che, anziché interrogarsi –
apertamente, laicamente – sugli squilibri del regionalismo italiano rilancia la
differenziazione ex art. 116 Cost. come nulla fosse accaduto;
alla gazzarra in atto sul trasporto pubblico locale: un mondo alla rovescia in
cui le regioni meno colpite impongono severe misure di distanziamento e quelle
più colpite ammassano senza limiti passeggeri seduti e in piedi; all’incapacità
di utilizzare i poteri sostitutivi, attribuiti al Governo dall’art. 120 Cost.,
contro misure regionali adottate in aperta sfida verso lo Stato centrale: il
dubbio è che la sorte di tutti noi sia stata e sia legata agli egoismi politici
e agli interessi economici di una parte soltanto del Paese.
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