una storia di alti tempi e dei nostri tempi, un uomo si ritira dalla città, in un paese di montagna, di cui è l'unico abitante.
il paese più vicino ha poche anime, si reca lì raramente per qualche spesa.
e intanto scopre che qualcuno vive solo, in una casa nel bosco, un bambino, di cui diventa l'unico amico, se la parola fosse giusta.
e nella vita così ritirata appare il mistero (non gli Ufo, però).
non perdetevi questo piccolo grande libro, non ve ne pentirete, promesso.
Potrei facilmente definire questo libro di Moresco
commovente, ma la pura e semplice commozione è solo un effetto epidermico che
non rende tutto il merito che è dovuto a questa splendida scrittura, disadorna,
arresa e feconda. A che cosa parla, che cosa sommuove questa breve e intensa
narrazione? Quali profondi pertugi nascosti, negati o volutamente dimenticati
illumina questa lucina, lontana ma ben visibile e persistente? Quello che
smuove e tiene avvinto a sé, costringendo il lettore a procedere in una sorta
di dolorosa fascinazione, non ha a che fare con il cuore, così pronto a battere
in sintonia con tutto ciò che lo sollecita, ma così altrettanto pronto a
dimenticare per inseguire altri e più soddisfacenti stimoli. La narrazione di
Moresco – questo a me appare come uno dei suoi segni distintivi – attraversa i
sentimenti in profondità, li presuppone, come un accessorio non evitabile
dell’esistenza, riserva loro uno sguardo affettuoso e persino grato, lo sguardo
di un saggio, forse di un asceta, ma li abbandona in superficie in questo suo
viaggio che punta diretto al senso profondo delle cose, o meglio alla domanda
testarda sull’inesistente senso delle cose. Le cose ultime, quindi la vita e la
sua fine…
…Ha messo da parte le derive cosmogoniche dei suoi
libri monstre per creare un piccolo artefatto in cui tutto è
perfetto, in cui tutto si riduce a un piccolo mondo splendidamente delineato,
stretto nel panorama di due montagne boschive. E, non me ne si voglia se
continuo a credere che il Moresco della breve lunghezza giunga a risultati
migliori del Moresco di Canti del caos. Nel breve,
infatti, la sua abilità stilistica ne esce esaltata perché rimane sempre a
servizio della trama, non cerca di soppiantarla, e la trama stessa
riesce a convincere perché felicemente in bilico tra realismo e visionarietà.
Nel lungo, al contrario, i contorni si sfaldano e quella volontà di tutto
comprendere, di tutto annettere, di far entrare nella letteratura ogni più
piccola sfaccettatura del mondo, non sempre riesce a colpire il bersaglio;
spesso la deformazione grottesca pare fine a se stessa, eccessivamente esibita.
Il Moresco delle opere-mondo prende il lettore per le palle e lo colpisce
ripetutamente (e, a volte, capita che questo lettore un po’ se ne risenta:
vittima di un universo narrativo che sembra sfaldarsi pagina dopo pagina ma che
invece si ricrea incessantemente sotto nuove premesse); il Moresco del breve
invece accerchia il lettore, lo immerge in un mondo perfettamente coerente,
seppur distopico, antirealistico. E, non spremendo la propria scrittura per
giungere al capolavoro a ogni costo, Moresco non arriva mai al punto di
rottura, lasciandoci così alcune opere – e La lucina è appunto
una di queste – che per noi lettori appaiono come regali inattesi. Pacchettini
da scartare in un giorno casuale dell’anno. Probabilmente è
un’eresia, lo so. Ma io lo penso comunque.
….Il
trattamento stilistico della natura, sospeso tra realismo e meraviglioso,
sembra creare una geometrizzazione del luogo che fa pensare a quella
leopardiana dei primi versi dell’Infinito: « E questa siepe/che da tanta
parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, per giungere di là da quella ».
Questo découpage dei volumi è importante per un’analisi del
luogo delimitato quale è il borgo dove si trova il protagonista e da cui
ambedue gli scrittori si allontanano, abbandonando la dimensione concreta,
terrena. Tutto il libro è difatti scritto sotto il segno della fantasticheria
estatica, come viene sottolineato dalla ricorrenza di numerosi mi è
parso/mi è sembrato. Quasi si attuasse ciò che Baudelaire ha poeticamente
invocato e descritto come l’“anywhere out of the world”.
Nel
romanzo di Moresco questo ultimo orizzonte si concretizza con
una lucina che, ogni sera, il protagonista scorge in lontananza nell’oscurità
del mondo/territorio nel quale vorrebbe sparire. Incuriosito decide di
intraprendere il viaggio verso il punto luminoso che si trova su un tratto
pianeggiante del crinale di fronte a casa sua. Si inoltra senza timore nella
moltitudine arborea, nella pluralità delle anime della natura, fino a giungere
nel misterioso luogo dove, in una casetta, si trova uno sfingeo bambino. Lo
spia nel suo quotidiano, fino al giorno in cui riesce a stabilire un dialogo.
Si organizza allora nel romanzo una corrispondenza quasi perfetta tra i due
personaggi, tra il reale e l’irreale, tra la vita e la morte, e si forma
un’interrogazione possibile, in una poetica senza urla sul senso
dell’esistenza, sospesa nel dolore, contenuto in questo spazio particolare,
estremo e strettissimo, tra la vita e la morte, appunto. Ed è questa
corrispondenza che permette all’autore di offrire al lettore un finale
inopinato.
Da
qualche tempo negli umori e nei giudizi della critica persiste l’evidente
convinzione che sia morto il romanzo. Che sia morto il romanzo
“italico”, per innumerevoli ragioni. Riposino i critici! Il generoso romanzo di
Moresco scevera dal grottesco alito polemico di una certa critica. E se
volessimo accettare l’idea del trapasso del romanzo sarebbe solo per gettare un
urlo festivo: il romanzo è morto, viva il romanzo!...
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