domenica 9 agosto 2020

La lucina - Antonio Moresco

una storia di alti tempi e dei nostri tempi, un uomo si ritira dalla città, in un paese di montagna, di cui è l'unico abitante.

il paese più vicino ha poche anime, si reca lì raramente per qualche spesa.

e intanto scopre che qualcuno vive solo, in una casa nel bosco, un bambino, di cui diventa l'unico amico, se la parola fosse giusta.

e nella vita così ritirata appare il mistero (non gli Ufo, però).

non perdetevi questo piccolo grande libro, non ve ne pentirete, promesso.

 

 

 

Potrei facilmente definire questo libro di Moresco commovente, ma la pura e semplice commozione è solo un effetto epidermico che non rende tutto il merito che è dovuto a questa splendida scrittura, disadorna, arresa e feconda. A che cosa parla, che cosa sommuove questa breve e intensa narrazione? Quali profondi pertugi nascosti, negati o volutamente dimenticati illumina questa lucina, lontana ma ben visibile e persistente? Quello che smuove e tiene avvinto a sé, costringendo il lettore a procedere in una sorta di dolorosa fascinazione, non ha a che fare con il cuore, così pronto a battere in sintonia con tutto ciò che lo sollecita, ma così altrettanto pronto a dimenticare per inseguire altri e più soddisfacenti stimoli. La narrazione di Moresco – questo a me appare come uno dei suoi segni distintivi – attraversa i sentimenti in profondità, li presuppone, come un accessorio non evitabile dell’esistenza, riserva loro uno sguardo affettuoso e persino grato, lo sguardo di un saggio, forse di un asceta, ma li abbandona in superficie in questo suo viaggio che punta diretto al senso profondo delle cose, o meglio alla domanda testarda sull’inesistente senso delle cose. Le cose ultime, quindi la vita e la sua fine…

da qui

 

Ha messo da parte le derive cosmogoniche dei suoi libri monstre per creare un piccolo artefatto in cui tutto è perfetto, in cui tutto si riduce a un piccolo mondo splendidamente delineato, stretto nel panorama di due montagne boschive. E, non me ne si voglia se continuo a credere che il Moresco della breve lunghezza giunga a risultati migliori del Moresco di Canti del caosNel breve, infatti, la sua abilità stilistica ne esce esaltata perché rimane sempre a servizio della trama, non cerca di soppiantarla, e la trama stessa riesce a convincere perché felicemente in bilico tra realismo e visionarietà. Nel lungo, al contrario, i contorni si sfaldano e quella volontà di tutto comprendere, di tutto annettere, di far entrare nella letteratura ogni più piccola sfaccettatura del mondo, non sempre riesce a colpire il bersaglio; spesso la deformazione grottesca pare fine a se stessa, eccessivamente esibita. Il Moresco delle opere-mondo prende il lettore per le palle e lo colpisce ripetutamente (e, a volte, capita che questo lettore un po’ se ne risenta: vittima di un universo narrativo che sembra sfaldarsi pagina dopo pagina ma che invece si ricrea incessantemente sotto nuove premesse); il Moresco del breve invece accerchia il lettore, lo immerge in un mondo perfettamente coerente, seppur distopico, antirealistico. E, non spremendo la propria scrittura per giungere al capolavoro a ogni costo, Moresco non arriva mai al punto di rottura, lasciandoci così alcune opere – e La lucina è appunto una di queste – che per noi lettori appaiono come regali inattesi. Pacchettini da scartare in un giorno casuale dell’anno. Probabilmente è un’eresia, lo so. Ma io lo penso comunque.

da qui

 

….Il trattamento stilistico della natura, sospeso tra realismo e meraviglioso, sembra creare una geometrizzazione del luogo che fa pensare a quella leopardiana dei primi versi dell’Infinito: « E questa siepe/che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, per giungere di là da quella ». Questo découpage dei volumi è importante per un’analisi del luogo delimitato quale è il borgo dove si trova il protagonista e da cui ambedue gli scrittori si allontanano, abbandonando la dimensione concreta, terrena. Tutto il libro è difatti scritto sotto il segno della fantasticheria estatica, come viene sottolineato dalla ricorrenza di numerosi mi è parso/mi è sembrato. Quasi si attuasse ciò che Baudelaire ha poeticamente invocato e descritto come l’“anywhere out of the world”.

Nel romanzo di Moresco questo ultimo orizzonte si concretizza con una lucina che, ogni sera, il protagonista scorge in lontananza nell’oscurità del mondo/territorio nel quale vorrebbe sparire. Incuriosito decide di intraprendere il viaggio verso il punto luminoso che si trova su un tratto pianeggiante del crinale di fronte a casa sua. Si inoltra senza timore nella moltitudine arborea, nella pluralità delle anime della natura, fino a giungere nel misterioso luogo dove, in una casetta, si trova uno sfingeo bambino. Lo spia nel suo quotidiano, fino al giorno in cui riesce a stabilire un dialogo. Si organizza allora nel romanzo una corrispondenza quasi perfetta tra i due personaggi, tra il reale e l’irreale, tra la vita e la morte, e si forma un’interrogazione possibile, in una poetica senza urla sul senso dell’esistenza, sospesa nel dolore, contenuto in questo spazio particolare, estremo e strettissimo, tra la vita e la morte, appunto. Ed è questa corrispondenza che permette all’autore di offrire al lettore un finale inopinato.

Da qualche tempo negli umori e nei giudizi della critica persiste l’evidente convinzione che sia morto il romanzo. Che sia morto il romanzo “italico”, per innumerevoli ragioni. Riposino i critici! Il generoso romanzo di Moresco scevera dal grottesco alito polemico di una certa critica. E se volessimo accettare l’idea del trapasso del romanzo sarebbe solo per gettare un urlo festivo: il romanzo è morto, viva il romanzo!...

da qui


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