Alla periferia di Cracovia, nel quartiere
operaio di Nowa Huta (“Nuova Acciaieria”: quello costruito dagli anni Cinquanta
dagli “uomini di marmo” del celebre film di Andrzej Wajda), si ergeva nella
piazza principale (oggi chiamata Piazza Reagan) una statua di Lenin, oggetto
nel corso dei decenni di ripetuti “atti vandalici”.
Agli inizi degli anni Novanta fu abbattuta
e svenduta a uno svedese, Bengt Tage Erling Erlandsson, detto Big Bengt
(1922-2016), fondatore del grande parco divertimenti “Chaparral” a Hillersturp,
nella regione di Småland. La statua è stata esposta pubblicamente una sola
volta, nel 2008, e sarebbe poi stata venduta a un’asta.
Altro destino hanno avuto le statue di
Lenin (ma anche di Marx, Béla Kun, eroi del lavoro, soldati dell’Amata Rossa)
che si ergevano nelle piazze ungheresi. In mezzo alla campagna, a 10 chilometri
da Budapest, è stato istituito, nel 1993, il Memento Park, che raccoglie 42
statue realizzate durante l’epoca comunista. Nel 2006 vi è stata collocata
anche una copia della statua degli stivali di Stalin: nel 1956 la gente in
rivolta si era sfogata contro l’enorme statua del dittatore sovietico, in Dózsa
György út, facendola crollare a terra e lasciando sul piedistallo solo gli
stivali. Nei parchi, queste statue, che a sempre meno persone ricordano
qualcosa, hanno così l’opportunità di una nuova, e più tranquilla, vita, al
riparo degli attacchi degli iconoclasti.
Un monumento è un documento, ha scritto lo
storico francese Jacques Le Goff, (Documento/Monumento, Enciclopedia
Einaudi, vol. 5). La testimonianza di un fatto che si è deciso (mai
all’unanimità!) di considerare degno di memoria e di lezione/ammonimento per le
generazioni future. Un documento che serve agli storici della mentalità per
ricostruire un particolare sentire (che è quasi sempre quello dei vincitori o
dei rappresentanti di una cultura in quel momento egemone). Questo ovviamente
non ha nulla a che fare con un’oggettiva (sempre che sia possibile) valutazione
del valore di un personaggio. Né tanto meno con la Verità, che in greco antico
significava: non-dimenticanza (áletheia).
I monumenti hanno molto a che fare con la
nostalgia. Nel linguaggio comune la nostalgia è quel particolare moto di
commozione per il passato, per ciò che si è vissuto, ma anche che non si è
vissuto, se non retrospettivamente, ovvero come rimpianto, che è diventato
tipico della cultura contemporanea. Jean Starobinski notò che mentre nel
passato la nostalgia designava uno spazio e un paesaggio concreti, le nozioni
contemporanee designano soprattutto persone (o le loro immagini, o ancora i
loro sostituti simbolici) e una persistenza soggettiva del passato vissuto
(cfr. La leçon de la nostalgie, 1966).
I monumenti, in quanto appunto “sostituti
simbolici” del nostro rimpianto per qualcuno o qualche fatto accaduto, sono la
rappresentazione di una memoria nostalgica che nulla ha a che fare con la
verità storica. Per questo motivo i monumenti sono sempre stati oggetto di attacchi
e distruzioni, in occasione di rivoluzioni, controrivoluzioni, cambiamenti del
comune sentire o obbiettivi dello sfogo della rabbia di alcuni gruppi di
persone. Facendo parte delle mille controversie e conflitti che caratterizzano
la Storia, i monumenti sono quindi destinati ad essere abbattuti.
Adriano Sofri ha quindi ironicamente
sostenuto: “È dovere dei governi e delle autorità pubbliche continuare e
moltiplicare l’erezione di statue, in considerazione delle generazioni future.
Le generazioni future non devono restare senza niente da abbattere. Innalziamo
statue. Investiamo sull’avvenire in cui, più o meno remoto che sia, esse
saranno abbattute o demolite o almeno traslocate in qualche periferia. È
infatti un futile pregiudizio che si innalzino statue per assicurare
un’immortalità: da 40mila anni le statue servono solo a prolungare il tempo
degli umani e specialmente dei più notabili e potenti fra loro. I quali, a
differenza della moltitudine degli anonimi (almeno fino a quando non è stato
universalizzato il quarto d’ora di notorietà) sono destinati a una doppia
mortalità: prima in quanto corpi, poi in quanto statue” (A. Sofri, Anche
le statue muoiono, in “il Foglio”, 29/VI/2020).
Si parla ovviamente di statue
agiografiche: monumenti dedicati a uomini politici ed eroi militari. Oppure a
personaggi controversi: come il brutto e immeritato, a mio parere, monumento a
Indro Montanelli nei Giardini di Porta Venezia a Milano. Altro discorso va
fatto per i monumenti che ricordano le Vittime, i Giusti e i benemeriti della
Cultura. Oltre a statue in ricordo di chi è stato ammazzato, torturato,
bruciato vivo (come Giordano Bruno), o ha salvato altre persone, le piazze
delle città e dei paesi dovrebbero essere piene di monumenti dedicati a poeti,
musicisti, artisti, filosofi. Oppure abbellite con opere d’arte.
Trovo bellissima, ad esempio, a Milano, la
statua del dito medio, opera di Maurizio Cattelan, davanti alla vecchia sede
della Borsa. La statua di Cattelan ricorda il colosso di Costantino, conservato
in frammenti nel cortile del Palazzo dei Conservatori nel Campidoglio, a Roma.
Il dito (in questo caso il medio) è l’ultima scheggia della statua
dell’Imperatore che misurava dodici metri in altezza. Il dito ritto, più che un
monito a non perdere di vista ciò che è superiore o un insulto, è soltanto una
patetica manifestazione di trionfo, come quando lo usano certi calciatori dopo
aver segnato un goal.
I monumenti che celebrano personaggi
politici storici (quando non siano delle opere d’arte degne quindi di esser
collocate nei musei), dovrebbero essere rimosse e collocate in appositi parchi,
come nell’Est Europa. Si immagini, ad esempio, tutte le statute equestri di
Vittorio Emanuele o Garibaldi come potrebbero abbellire un prato in una
spettacolare cavalcata di bronzi.
I monumenti, in quanto rappresentazioni,
in fondo hanno a che fare solo marginalmente con la Memoria. La memoria
condivisa è un’utopia. E anche la Verità storica. Nel 1992 si tentò di produrre
un testo scolastico di storia su scala europea, radunando un gruppo di dodici
storici in rappresentanza di altrettanti Stati europei. Il risultato è stato un
fallimentare libro, pubblicato in francese nell’edizione originale: la Storia
dell’Europa. Popoli e Paesi.
Nonostante le Raccomandazioni per
i Professori di Storia, emanate nel 2001 dal Consiglio d’Europa, ci si è
dovuti accorgere che, proprio a partire da quell’anno, l’interesse politico per
un approccio storiografico di tipo nazionale andava rapidamente crescendo nei
curricola scolastici di molti Paesi, con una conseguente diminuzione
d’interesse per le tematiche europee. Dopo secoli di guerre e massacri, confini
che si sono spostati decine di volte, la Memoria degli europei è frammentata
come i linguaggi dopo il crollo della Torre di Babele. È impossibile avere una
memoria comune e cercare di aiutarla scrivendo una Storia dell’Europa che metta
d’accordo e accontenti tutti. La complessità è tale che non si fa ridurre e
risolvere con dei compromessi. Così come molto rari sono appunto i “monumenti
comuni” europei.
Non è quindi dalla Storia che si può
pensare di creare una coscienza europea condivisa. Bisogna partire dai Valori
comuni e comprendere come il Nazionalismo, facendo leva sulla Memoria e sulla
Lingua, ha sì generato, alle origini, emancipazione, autonomia e indipendenza
dei popoli, creando appartenenza e identità (e monumenti!), ma i suoi prodotti
peggiori, lo stato nazionale, il populismo, il totalitarismo, hanno assunto
l’altro, il diverso, prima come straniero poi come nemico, e infine gli hanno
negato, con la discriminazione razzista e la guerra, il diritto ad esistere. Il
nazionalismo, del quale molti monumenti sono espressione, ha portato ad
Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, a Srebrenica.
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