«Ehi boss, mi levo la maglietta». «Ehi boss, sto togliendo il cappellino».
Giocavamo così, se si può dire, nell’ora d’aria al passeggio dei carceri
speciali rivolgendoci alle guardie sulle garitte – io e Valerio, mi pare fossimo
a Badu ‘e Carros o a Rebibbia, che ci piccavamo di ricordare tutte le migliori
battute dei film e siccome che non ce li facevano vedere provavamo a mantenerne
il ricordo. Queste erano in Nick Mano fredda,
una delle più belle interpretazioni di Paul Newman – e la scena, che si
ripeteva, era di detenuti legati uno all’altro, la chain gang, che lavoravano a pulire strade o campi
sotto un sole cocente, e sudavano come bestie, sorvegliati da guardie con il
fucile sempre pronto a sparare, e ogni piccola mossa del corpo che facevano,
ogni scarto dei gesti oltre quelli del lavoro, dovevano prima comunicarla al
boss, lo sceriffo che sovrintendeva. Noi non lavoravamo, ma eravamo lo stesso
come bestie guardate a vista. Oppure, sempre da quel film lì, quando venivano a
buttarci giù dalle brande di notte per la perquisa e mettere tutto sottosopra
con sadismo, e noi provavamo a dire di no, ci stava da dio la battuta al
capoguardia: «Dire che è il tuo lavoro, non lo farà migliore, boss».
Il carcere è nel nostro immaginario, conficcato ben bene. Per quelli della mia
età, c’era anche Quella sporca ultima meta – e
quell’epica partita a football americano contro le guardie, con Burt Reynolds,
un tempo glorioso quarterback e ora, per avere truccato partite, finito con la
feccia in carcere, ma capace di riscattarsi e riscattare i suoi compagni contro
i progetti di un perfido direttore. E poi sarebbero venuti Fuga da Alcatraz, Le ali della libertà, Il miglio verde.
E tant’altro ancora. Quando sono entrato in carcere, pensavo di sapere tutto
del carcere – lo avevo visto al cinema.
È quello che dice anche Angela Davis, nel suo libro sull’abolizione del carcere
(Aboliamo le prigioni?, minimum fax), quando racconta:
«Nel 1997, intervistando alcune donne in tre prigioni cubane, ho scoperto con
stupore che la maggior parte descriveva la percezione del carcere che avevano
in precedenza – vale a dire prima di finire in prigione loro stesse – come
derivante dai molti film hollywoodiani che avevano visto. Tra le immagini che
popolano la nostra mente, il carcere occupa dunque un posto di rilievo».
Figurarsi adesso – e poi con le serie tv di successo, come Prison Break, cinque stagioni, o The orange is the new black, sette stagioni, sulle
carceri femminili. Eppure – credetemi sulla parola – del carcere non sai nulla,
finché non ci finisci dentro.
Perciò, nel nostro immaginario il carcere esiste, fin nei dettagli, e nello
stesso tempo è la cosa più rimossa che c’è; è il luogo di cui abbiamo più fotogrammi
immagazzinati ma anche il più invisibile; è lo spazio di cui crediamo di
conoscere perfettamente le regole – quelle imposte dallo stato, quelle vigenti
tra i detenuti – ma che diamo per scontato sia senza diritto comune, sottratto
al diritto comune, con leggi sue proprie. Il carcere è il fenomeno più
incredibile di presenza/assenza nei nostri pensieri – come se una metà del
cervello ne sapesse perfettamente l’esistenza e l’altra metà non volesse
saperne proprio nulla. Sappiamo, ma non vediamo.
Questa scontatezza del carcere fa somigliare il “processo” della colpa e della
pena – commetti un reato, sei giudicato, finisci in carcere – come una cosa
naturale, come un ciclo delle stagioni: se ora è estate, dopo viene l’autunno,
un percorso obbligato. E se è scontato, se è obbligato, se tutti lo sanno –
allora io sono esentato dalla responsabilità di interrogarmi. Se prendo la
marmellata che mi è stata vietata, sarò punito – e tutti i miei pensieri
ruoteranno intorno quest’unica domanda: come posso prendere la marmellata senza
finire in prigione? Non mi chiederò mai se la prigione sia il “posto giusto”
per avere preso la marmellata vietata.
Angela Davis in prigione finì lei stessa per la sua militanza politica,
all’inizio degli anni Settanta, e da allora è un’attivista contro il carcere
come “unica soluzione”. Soprattutto negli Stati uniti. Scrive la Davis: «più di
due milioni di persone negli Stati uniti (su un totale mondiale di nove
milioni) popolano attualmente le prigioni, i penitenziari, gli istituti minorili
e i centri di detenzione per immigrati. La gravità di queste cifre è resa
ancora più evidente se si considera che complessivamente la popolazione
statunitense è inferiore al 5 percento del totale mondiale, mentre gli Stati
uniti possono vantare più del 20 percento della popolazione carceraria» (i dati
sono di una decina d’anni fa, ma niente fa credere che si siano modificati).
A finire in carcere, in maniera sproporzionata, sono le minoranze etniche –
neri, ispanici soprattutto – in un circolo vizioso senza possibilità di scarto
che inizia dall’abbandono di interi quartieri, privi di scolarizzazione
adeguata, di assistenza sanitaria, di possibilità di occupazione, e dove il
percorso di un giovane porta quasi ineluttabilmente a delinquere. Oppure, come
alternativa, a entrare nell’esercito.
È Loïc Wacquant, in Punire i poveri
(DeriveApprodi),
che spiega bene questo meccanismo infernale tra ghetto e prigione: «Alla fine
degli anni Settanta, la prigione è improvvisamente tornata alla ribalta per
offrirsi come la soluzione al tempo stesso semplice e universale a tutti i
problemi sociali più urgenti. Problemi tra i quali figurava, al primo posto,
l’evidente incapacità del ghetto nero nel contenere al proprio interno una
popolazione in sovrannumero, priva di onore e considerata ora non solo come
deviante e a rischio, ma anche come estremamente pericolosa per via delle
violente rivolte che, da Watts a Detroit, hanno dilaniato le città statunitensi
a metà degli anni Sessanta. Mentre le mura del ghetto tremano e rischiano di
crollare, quelle delle prigioni si allungano, si allargano e si rinforzano. In
breve tempo, il ghetto nero, trasformato in strumento di pura esclusione a
causa della contrazione simultanea della sfera del lavoro salariato e
dell’assistenza sociale, e ulteriormente destabilizzato dalla maggiore
penetrazione del dispositivo penale dello Stato, si è trovato legato al sistema
carcerario da una triplice relazione di equivalenza funzionale, di omologia
strutturale e di sincretismo culturale, cosicché essi costituiscono attualmente
un unico e solo continuum carcerario in cui è rinchiusa una nutrita schiera di
giovani uomini (e, sempre più spesso, di donne) neri che percorrono un circuito
delimitato da questi due poli, secondo un ciclo autoalimentato di marginalità
sociale e legale dalle conseguenze personali e collettive devastanti».
Insomma, il carcere come una risposta alle questioni sociali – esso stesso
quasi come un “orribile welfare” proprio quando il welfare comincia a essere
smantellato. È l’indurimento delle pratiche di polizia per le strade, dei
procedimenti giudiziari e delle pene, e della detenzione che costruisce questo
“modello”, a partire dagli anni Ottanta: «Quando Reagan inaugura la sua
presidenza, la polizia procede a circa 10,4 milioni di arresti a due terzi dei
quali (69%) segue la carcerazione; quindici anni dopo, il numero di arresti
annuale arriva a 15,2 milioni e quasi tutti (94%) approdano al carcere
giudiziario. L’iperinflazione carceraria americana è difatti alimentata dall’incremento
concomitante di due fattori: la durata della detenzione e il numero di
condannati alla reclusione. Il prolungamento delle pene riflette
l’irrigidimento della politica giudiziaria negli Stati Uniti: moltiplicazione
dei reati che portano alla carcerazione, aumento della durata delle pene
inflitte sia per i crimini non violenti (taccheggio, furto d’auto, possesso di
droga) che per quelli violenti, abolizione della riduzione di pena per alcuni
reati (stupefacenti, offese al buon costume) e perpetuità automatica al terzo
crimine («Three Strikes and You’re Out»), inasprimento generalizzato delle
sanzioni in caso di recidiva, applicazione del codice penale degli adulti ai
minori di sedici anni e limitazione, se non soppressione, della libertà
vigilata. È nel 1973, all’indomani della rivolta di Attica nel corso della
quale quarantatré persone tra prigionieri e guardie carcerarie tenute in
ostaggio furono massacrate nell’assalto lanciato dalle truppe, che la
popolazione carceraria degli Stati Uniti raggiunge il livello più basso dal
dopoguerra. Il ribaltamento della demografia carceraria statunitense dopo il
1973 si rivelerà tanto brusco quanto stupefacente. Contro tutte le aspettative,
la popolazione penitenziaria del paese comincia ad aumentare vertiginosamente:
essa raddoppia in dieci anni e quadruplica in venti. Partito da meno di 380.000
nel 1975, il numero delle persone dietro le sbarre sfiora 500.000 nel 1980 e
supera il milione nel 1990. Continua a crescere con un ritmo infernale dell’8%
in media – ossia, 2000 detenuti in più ogni settimana – durante gli anni
Novanta, al punto che, al 30 giugno 2000, l’America contava ufficialmente
1.931.850 detenuti. Se fosse una città, il sistema carcerario statunitense
sarebbe la quarta più grande metropoli del paese, dietro Chicago» – è ancora
Wacquant, che parla.
È quello che Angela Davis chiama il «complesso carcerario-industriale», di cui
è esemplare la California: «Tra il 1852 e il 1955 sorsero in California nove
prigioni. Nella seconda metà degli anni Sessanta non fu aperta nessuna prigione
e neppure durante il decennio successivo. Tra il 1984 e il 1989 furono
inaugurati nove istituti di pena: c’erano voluti più di cento anni per
costruire le prime nove prigioni californiane; in meno di un decennio quel
numero è raddoppiato e durante gli anni Novanta se ne sono aggiunti altri
dodici, tra cui due penitenziari femminili». Osservando la carta della
California e la posizione delle prigioni, queste hanno lentamente e
letteralmente invaso gli spazi, come se, dice la geografa Ruth Gilmore,
l’espansione delle prigioni fosse «una soluzione geografica a problemi
socio-economici». Certo, spesso queste nuove prigioni non sono state “imposte”
ma sono state costruite con il consenso dell’opinione pubblica – la gente
voleva credere che altre prigioni avrebbero ridotto il crimine e che avrebbero
fornito posti di lavoro e sviluppo per le comunità locali. Eppure, quando è
iniziato il boom della costruzione delle carceri, le statistiche ufficiali
rivelavano già una diminuzione dei dati sulla criminalità. Il punto è che non
si può non mettere in correlazione la de-industrializzazione e la reclusione di
massa. Paradossalmente, per alcune comunità locali, il carcere avrebbe
rappresentato un volano di “sviluppo”. Non solo, ma la “privatizzazione” della
gestione delle prigioni ha significato anche l’ingresso massiccio di aziende
che sfruttano il lavoro carcerario – a un costo significativamente più basso. E
parliamo di aziende di prima grandezza – che traggono profitti enormi non solo
dalla fornitura alle carceri. All’inizio del XXI secolo, le numerose società
per la gestione di prigioni private operanti negli Usa possedevano e
amministravano strutture che ospitavano 91.828 detenuti. Il Texas e l’Oklahoma
vantavano il maggior numero di detenuti in prigioni privare, ma il New Mexico
ospitava il 44 percento della sua popolazione carceraria in strutture private,
e stati come il Montana, l’Alaska e il Wyoming avevano “ceduto” oltre il 25
percento della loro popolazione carceraria. È un “fenomeno” che è andato
crescendo e allargandosi, dagli Stati uniti all’Australia, ma anche in Turchia.
Che il carcere sia, negli Stati uniti, anche una “questione razziale” lo si
capisce – oltre che dai numeri di proporzione tra bianchi, neri e ispanici
incarcerati che corrispondono in modo rovesciato alla presenza in società –
proprio dal “lavoro forzato”. Perché la sua istituzione ripercorre passo passo
quella della schiavitù – e per molti versi ne fu una versione peggiorativa.
Negli Stati del Sud un nero in prigione era una rarità prima della Liberazione,
divennero la normalità dopo: chi visitava le prigioni del Mississippi negli
anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento trovava «i prigionieri che mangiavano e
dormivano sulla nuda terra, senza coperte né materassi e spesso senza vestiti…
i detenuti morivano di sfinimento, polmonite, malaria, congelamento…» (da David
Oshinsky, Worse than Slavery, Free Press).
Prima, come schiavo il nero era comunque un bene in cui si era investito e che
andava mantenuto perché producesse, dopo era manodopera intercambiabile in un
mercato, quello del carcere, abbondante.
Considerare scontato il carcere non ci fa neppure interrogare se possano
esistere possibilità alternative – ci sembra impossibile, proprio come ci
sembrerebbe impossibile invertire un fatto della natura. Anche per la pena di
morte, l’alternativa che viene prospettata è quella del carcere a vita, in
alternativa. Ricordava Jack Abbott, nel suo Nel ventre della bestia,
come fosse stato proprio Gary Gilmore, che aveva passato più di metà della sua
vita in carcere, a chiedere – dopo la sentenza del 1976 che lo condannava per
due omicidi – di essere giustiziato, finendo con l’essere il primo dopo dieci
anni che la pena di morte era stata sospesa. Fu fucilato nel 1977. Abbott pensava
a un senso di “espiazione” – ma è difficile definire “vita” un ergastolo senza
alcuna possibilità di remissione in condizioni di assoluto isolamento per
decenni e decenni.
Eppure, proprio come l’indurimento delle pene e la “rapidità” dei procedimenti
contro lo spaccio di droga sono stati tra i “volani” più significativi
dell’aumento della popolazione carceraria – e di tutta la crescita del
complesso carcerario-industriale – forse abolendone alcuni meccanismi
obbligati, ci sarebbero già significative riduzioni e delle alternative. E lo
stesso varrebbe per la prostituzione, a esempio.
Il primo passo è riconoscere che non esiste un’unica modalità della pena. E non
pensare a “soluzioni” che siano “il carcere in altra forma”, come gli arresti
domiciliari con il braccialetto elettronico. Il primo passo è rompere il legame
tra delitto e castigo.
Nicotera, 13 luglio 2020.
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 12 agosto 2020.
QUI un film sulle prigioni in Usa
Nessun commento:
Posta un commento