È morto
Pedro Casaldáliga, vescovo dei poveri - Claudia Fanti
Una ventina
di anni fa il vescovo Pedro Casaldáliga – catalano di nascita, brasiliano di
adozione e «patrimonio di tutta l’umanità» – celebrava una messa nel giorno dei
defunti nel “Cimitero dei karajás”, a São Félix do Araguaia, in Mato Grosso. Il
cimitero della gente più povera della regione, quello in cui hanno trovato
sepoltura tanti indigeni e tanti senza terra sfruttati nelle fazendas dedite
all’allevamento del bestiame. Alla fine della messa, il vescovo disse: «Voglio
che tutti voi ascoltiate attentamente, perché intendo parlare di qualcosa di
molto serio: è qui che io voglio essere sepolto».
Ed è lì che
ieri sono stati portati i suoi resti mortali, dopo la messa funebre nella
cappella dei clarettiani di Batatais, dove sabato don Pedro si è spento all’età
di 92 anni per una grave infezione respiratoria, e dopo quella nel Santuario
dei Martiri della Caminhada (parola bella ed efficace che in Brasile si usa
spesso per indicare l’impegno del popolo per la liberazione), nella località di
Ribeirão Cascalheira, in Mato Grosso, dove il feretro è arrivato dopo un
viaggio di oltre 1.100 chilometri. Un santuario costruito nel luogo in cui, nel
1976, in piena dittatura, era stato ucciso il gesuita João Bosco, vicario del
vescovo, da un soldato che lo aveva confuso con lui, quando i due si erano
recati nella sede della polizia militare per intercedere a favore di due donne
che erano state arrestate e torturate.
L’ultimo
saluto ha avuto luogo ieri nel Centro Comunitário Tia Irene della sua São Félix
do Araguaia, dove il suo corpo è stato posto su una canoa indigena, accanto al
remo del popolo Iny con cui, al momento della sua consacrazione episcopale,
aveva sostituito il baculo, al cappello di paglia sertanejo adottato al posto della
mitra e a un cero pasquale, a indicare le uniche opzioni per lui possibili: o
vivi o risorti.
A São Félix
do Araguaia don Pedro era arrivato alla fine nel 1968, dopo 7 giorni di
viaggio, quando era solo un piccolo villaggio di 600 abitanti, ai margini del
Rio Araguaia. E lì avrebbe combattuto fino alla fine la sua battaglia al lato
dei poveri: indigeni, contadini, senza terra, lavoratori ridotti in schiavitù,
immigrati poveri del Sud. E, nella maniera più radicale, contro il latifondo,
il capitalismo, il colonialismo, l’imperialismo. «Ti scomunicano con me i
poeti, i bambini, i poveri della terra», avrebbe scritto nella sua Ode a
Reagan.
Già il primo
giorno dal suo arrivo, si era trovato di fronte a quattro corpi di neonati
morti, sistemati in scatole di scarpe di fronte alla sua casa, perché venissero
seppelliti. «O ce ne andiamo via da qui oggi stesso o ci suicidiamo o troviamo
una soluzione per tutto questo», aveva detto al suo compagno missionario Manuel
Luzón, secondo quanto racconta il giornalista Francesc Escribano nella
biografia “Descalço sobre a Terra Vermelha”, che racconta la vita di don Pedro
seguendo il filo rosso delle grandi cause della sua esistenza.
Da lì a tre
anni, nel 1971, avrebbe scritto la sua prima, famosissima, lettera pastorale, “Uma
Igreja da Amazônia em conflito com o latifúndio e a marginalização social”: 80
pagine di testimonianze con nomi, cognomi, luoghi, fazendas. «L’ingiustizia ha
un nome in questa terra: latifondo. E l’unico nome vero dello sviluppo qui è la
riforma agraria».
Più volte
minacciato di morte, aveva evitato l’espulsione dal Brasile da parte della
dittatura solo per l’intervento diretto di Paolo VI («Chi tocca Pietro, tocca
Paolo»). E, dopo il suo sostegno alla Nicaragua sandinista e alla Cuba di Fidel
Castro, aveva evitato la condanna da parte del Vaticano, sotto il pontificato
di Giovanni Paolo II, solo grazie all’intervento della Conferenza dei vescovi
brasiliani.
I poteri –
di ogni tipo – lo hanno avversato fino alla fine. Nel 2012, all’età di 84 anni
e in condizioni critiche di salute, essendo già gravemente provato dal
«fratello Parkinson», aveva dovuto temporaneamente lasciare la sua casa e la
sua comunità in seguito a nuove minacce, essendogli imputata la responsabilità
della demarcazione della terra xavante situata tra i municipi di São Félix do
Araguaia e Alto da Boa Vista, nel nord del Mato Grosso.
Ancora nel
2018, il giorno precedente al primo turno delle elezioni presidenziali, i
manifestanti bolsonaristi che sfilavano in macchina per la città hanno strombazzato
i clacson con più forza passando davanti alla sua modesta abitazione.
Vescovo dei
poveri, santo, profeta, poeta e mistico: in tantissimi – politici, attivisti,
ong, istituzioni, cittadini comuni – lo hanno pianto in questi giorni,
inondando di messaggi le reti sociali. Ed è facile prevedere che il cimitero
abbandonato voluto da don Pedro come luogo della sua sepoltura diventi presto
una meta di pellegrinaggio. Sulla tomba del vescovo, l’epitaffio scelto da lui
stesso: «Per riposare / io voglio solo/ questa croce di legno / come pioggia e
sole / questi tre metri di terra / e la Resurrezione!».
Il Padre Nostro
di
|
qui un'intervista
Grazie. Un vero giusto, don Pedro Casaldáliga.
RispondiEliminaun uomo coraggioso in un territorio che a confronto del Far West è ancora più pericoloso
Elimina