Alberto Negri - Libano, Ground Zero della politica nel
Mediterraneo
Attentato, sabotaggio, incidente? Una cosa è certa: se la casa del tuo
vicino brucia, prima o poi le fiamme arriveranno nella tua casa. La nostra
casa, il Mediterraneo, brucia da un pezzo e non per un presunto incidente ma
per una precisa volontà.
Nulla qui esplode per caso anche quando sembra o è davvero un
incidente. L’anno era cominciato il 3 gennaio con l’assassinio da parte di
Trump del generale iraniano Qassem Soleiman, ucciso a Baghdad dopo una tappa in
Libano e Siria. E continua adesso, nell’era del Covid-19, con la deflagrazione
di un’intera città, Beirut. Questo è il Ground Zero del Libano, già in
ginocchio per la pandemia, in default per la crisi economica, sociale e
politica, soffocato dal conflitto in Siria, dai profughi, dalle tensioni con
Israele, Paese con cui è ancora tecnicamente in guerra. Attentato, sabotaggio,
incidente? Una cosa è certa: se la casa del tuo vicino brucia, prima o poi le
fiamme arriveranno nella tua casa.
La nostra casa, il Mediterraneo, brucia da un pezzo e non per un
presunto incidente ma per una precisa volontà. L’incendio
lo hanno appiccato gli Stati uniti con la guerra dell’Iraq nel 2003, da allora
– passando per le primavere arabe e i cambi di regime, voluti o falliti – si è
incatenata una guerra all’altra, assistendo all’ascesa e al crollo del
Califfato, agli interventi militari di americani, russi, turchi, iraniani, che
hanno accompagnato il massacro delle popolazioni civili, la fuga di milioni di
profughi, il collasso di intere economie.
Il Libano, fino all’altro ieri, era ancora per molti un lume di speranza:
ora deve essere salvato dal baratro. Invece che per la
stabilità di questo Paese, sopravvissuto alla guerra civile dal 1975 al ’90, al
crollo dei palestinesi (qui ce ne sono 500mila), alle invasioni israeliane,
alla guerra del 2006 tra Hezbollah e Tel Aviv, si è lavorato per la sua fine,
che ora pare essere arrivata all’improvviso, come per un collasso.
Non è così. Hanno contribuito le forze interne, con le divisioni tra
cristiani, sciiti e sunniti, i clan corrotti e predatori di famiglie al potere
da decenni, dove la banche erano sempre più ricche in uno stato sempre più
indebitato e ora sono evaporate anche loro perché il sistema da un pezzo si è
inceppato. E come se questo non bastasse le sanzioni Usa all’Iran e alla Siria
hanno affondato ancora di più le economie regionali come quella libanese.
In tutto questo il maggiore alleato americano, Israele, si è annesso
ufficialmente parti di questi Paesi, come il Golan siriano e Gerusalemme,
sfoderando i piani di annessione della Cisgiordania palestinese. Un
esempio imitato dal Sultano atlantico Erdogan a spese di curdi nel Nord della
Siria e nella Tripolitania libica: un’annessione ne nasconde spesso
un’altra. Ogni giorno Israele bombarda la Siria, il vicino del Libano,
dove ha colpito Hezbollah e pasdaran iraniani: c’è da meravigliarsi se sulla
linea del cessate il fuoco, dove è di stanza l’Unifil con 1500 soldati
italiani, la tensione sia perenne?
In realtà sembra quasi impossibile che il Libano non sia crollato
prima, travolto dal tracollo di un sistema basato all’interno su un castello di
carte – altro che Svizzera del Medio Oriente – e vampirizzato all’esterno dai
suoi vicini di casa come il siriano Assad e l’israeliano Netanyahu. Un Paese
tenuto in ostaggio dal braccio di ferro regionale tra Iran e Arabia saudita.
In una versione riduttiva della storia libanese recente l’imputato più
citato è il partito e movimento militare Hezbollah, forza di governo e
militante degli sciiti sostenuta dall’Iran. Secondo questa versione gli
Hezbollah, “stato nello stato”, forza di governo e milizia armata, capace di
decidere della pace e della guerra, sono i maggiori responsabili del disastro
libanese, dimenticando che si sono fatti stato nel momento in cui il Libano era
in macerie e lo stato non c’era più. Vero che sono quattro gli Hezbollah
per cui si attendeva per domani il verdetto dell’Aja per l’assassinio del
premier Rafic Hariri nel 2005 – rinviato con «tempismo» al 18 agosto. E che
sono stati gli Hezbollah a ingaggiare lo scontro con Israele nel 2006 e a
tenere in piedi Bashar Assad, liberando tra l’altro i villaggi cristiani del
Qalamoun.
Ma il movimento è anche diventato un comodo paravento per quelli che
l’accusano di tutti i mali del Paese che loro stessi hanno creato, dalla
corruzione dilagante agli affari sporchi. Qualcuno si ricorderà che l’allora
premier Saad Hariri nel 2017 fu costretto dal principe saudita Mohammed bin
Salman, l’assassino del giornalista Jamal Khashoggi, a dare le dimissioni da
Riad e tenuto come un fantoccio in ostaggio durante le purghe reali. A
questo principe e alle monarchie del Golfo gli Usa e parte dell’Occidente
avrebbero voluto affidare anche il Libano per farne la base delle battaglie
contro l’Iran, la Mezzaluna sciita e i Fratelli Musulmani sunniti, con un
corollario di interessi economici, bellici ed energetici.
Questo in Libano, come in Siria e in Libia, è il campo di battaglia del
Mediterraneo. Questa, probabilmente, è la ragione delle misteriose
esplosioni in corso da settimane in Iran. Ma non c’è un vero mistero: è
piuttosto chiaro il piano americano e di Israele, con la nostra complicità, di
disgregare intere nazioni per presentare poi una mappa del Mediterraneo e del
Medio Oriente come un collage di coriandoli di stati ormai soltanto virtuali. È
questa la vera deflagrazione che avviene tutti i giorni, il Ground Zero della
nostra politica mediterranea.
Piango la mia Beirut, perennemente
violata - Gad Lerner
Povera
Beirut, dolce e feroce, città che perennemente si distrugge e rigenera dalle
sue stesse macerie, pronta anche a danzare sui morti pur di strappare al lutto
la sua energia vitale. Questa volta l’onda d’urto l’ha investita per intero
come un’apocalisse, dal porto alla nuova piattaforma commerciale di Biel, dal
centro storico al quartiere della movida Gemmayzeh, fin sulla collina elegante
di Achrafieh. Non solo ha seminato morti a decine e feriti a migliaia, ma è
penetrato in ogni casa, frantumato finestre, divelto i portoni a chilometri di
distanza.
Ridotta alla
fame dalla bancarotta finanziaria e poi dal Covid, paralizzata dalla protesta
popolare contro una classe politica corrotta, con l’energia elettrica che
andava e veniva, la capitale del Libano confidava ancora di rimanere fuori
dalla guerra che insanguina la vicina Siria, del cui protettorato era riuscita
a liberarsi da una quindicina d’anni. Aveva conosciuto la prima lunga guerra
civile etno-religiosa del Medio Oriente, dal 1975 al 1990, con più di centomila
morti. Numerose stragi nei campi palestinesi, la più tristemente famosa nel
1982 a Sabra e Chatila. Le invasioni e i bombardamenti israeliani, l’ultima nel
2006 dopo che già vi si erano immolati i primi terroristi suicidi di matrice
islamica sciita. Poi ancora gli attentati contro politici e intellettuali
laici, culminati nell’esplosione davanti all’hotel Saint George in cui perse la
vita, il 14 febbraio 2005, il primo ministro filo-saudita Rafiq Hariri insieme
ad altre 21 persone.
Mai però si
era giunti a tanto. Anzi, fra le nuove generazioni, proprio le carneficine
provocate dai signori della guerra cristiani maroniti, musulmani sunniti,
drusi, e da ultimo Hezbollah sciiti, avevano diffuso fra i giovani l’impegno a
scongiurare uniti il ripetersi di tali atrocità. Beirut si era ricostruita,
grazie anche agli investimenti dei petrodollari. La sua vita mondana era
rifiorita, come le esperienze artistiche e cinematografiche più significative
del Medio Oriente. Aveva sopportato con stoicismo anche l’arrivo di un milione
e mezzo di profughi dalla Siria, divenuti un abitante su quattro del Paese. Ora
però, come una bomba atomica, la misteriosa esplosione di Beirut trascina di
nuovo questa capitale a epicentro della destabilizzazione del Levante
mediterraneo.
Il Libano è
un Paese-mosaico, incrocio di confessioni religiose e culture che
l’avvicinavano all’Europa fin da epoche lontane. Questa è stata la sua forza
creativa ma anche l’origine della sua perenne vulnerabilità.
Il terrore
senza volto che è penetrato in ogni casa coglie il Paese nel momento della sua
massima debolezza. Stava negoziando un prestito col Fondo monetario
internazionale trovandosi di fatto senza governo dopo il ritiro dalla scena
politica dell’ex premier Saad Hariri, figlio di Rafic. Con gli Hezbollah
filo-iraniani indeboliti dall’impegno militare al fianco di Assad in Siria, e
proprio per questo divenuti più aggressivi. Le loro roccaforti, nel quartiere
meridionale di Beirut, Dahiyeh, e nel sud che confina con Israele, continuano a
essere uno Stato nello Stato che Teheran cerca di utilizzare per estendere la
sua egemonia fino al bacino mediterraneo.
La
televisione degli Hezbollah, Al Mayadeen, ieri sera ovviamente smentiva che le
milizie sciite abbiano avuto un ruolo in quello che pare impossibile
considerare solo un attentato sfuggito di mano. Altrettanto netta è stata la
dichiarazione di estraneità israeliana. Nei giorni scorsi era cresciuta la
tensione sia al confine israelo-libanese che sul Golan siriano: un simile
evento apocalittico va oltre l’immaginazione degli strateghi della deterrenza
reciproca. Ma mette in ginocchio l’intera regione che la viltà degli europei e
degli americani aveva abbandonata a se stessa lasciando che in Siria si
arrivassero a contare i morti a centinaia di migliaia e i profughi a milioni.
L’onda lunga
dell’esplosione di Beirut, udita fino a Cipro, non potrà che attraversare il
Mare Nostrum. Ci riguarda da vicino, e non solo perché in Libano opera
fruttuosamente dal 2006 il contingente Unifil delle Nazioni Unite a guida
italiana. Rende palese che la politica del tenersi alla larga, o di affidarsi a
sultani, faraoni, califfi, zar per dominare con la forza le tensioni di nazioni
delle quali – volenti o nolenti – condividiamo il destino, è peggio che miope:
è autolesionista.
Piango
Beirut, mia città natale, precipitata di nuovo nell’incubo da cui sperava di
essersi liberata. I suoi abitanti erano ignari ostaggi di un arsenale bellico
di cui gli stessi custodi hanno perso il controllo. La fame e la povertà
l’avevano già aggredita da mesi, e ora con i palazzi spalancati
dall’esplosione, si temono saccheggi e ulteriori violenze. Il Cigno Nero di
Nassim Taleb stavolta ha colpito nella città da cui anch’egli, come tanti
altri, era emigrato. Le armi di distruzione di massa sono fra noi.
Disinneschiamole, finché siamo in tempo.
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