L’omicidio politico di Mario Paciolla - Gianpaolo Contestabile, Simone Scaffidi
La morte del cooperante italiano in Colombia,
fatta passare per suicidio, sembra invece l’ennesimo atto di repressione verso
chi difende i diritti umani. Per avere giustizia non basta identificare gli
esecutori occorre scoperchiare le responsabilità politiche
Il 15 luglio Mario Paciolla, osservatore internazionale che lavorava per la
Missione di Verifica dell’Onu in Colombia è stato ritrovato impiccato nella sua
casa di San Vicente del Caguán, nella regione amazzonica del Caquetá. Sul suo
corpo sono state rinvenute lacerazioni e ferite da arma da taglio e la polizia
colombiana in un primo momento ha ipotizzato si trattasse di suicidio. Alle
18.00, ora italiana, la famiglia è stata informata da una persona che si è
presentata come un’avvocata dell’Onu.
Fin da subito le persone vicine a Mario hanno escluso l’ipotesi del
suicidio e le dichiarazioni di Anna Motta, madre di Mario, sono state
inequivocabili. Il giorno successivo alla morte del figlio ha dichiarato
a Repubblica: «Non è fondata da nessun punto di vista la scena di
questo suicidio», «Questa ricostruzione è farlocca», «Vogliamo la verità».
Fornendo la prima chiave di lettura alternativa: «Mio figlio era terrorizzato:
negli ultimi sei giorni non faceva che mostrare la sua preoccupazione e
inquietudine per qualcosa che aveva visto, capito, intuito». Mario aveva un
volo di rientro per l’Italia il 20 luglio, appena cinque giorni dopo la sua
morte, aveva fretta di tornare perché aveva confidato alla madre di essersi
messo in «un pasticcio», di «sentirsi sporco» e di volersi per questo bagnare «nelle
acque di Napoli».
Qualche giorno dopo Julieta Claudia Duque giornalista, attivista per i
diritti umani e amica di Mario conferma le parole di Anna Motta con una lettera
pubblicata su El Espectador nella quale sostiene
l’infondatezza della tesi del suicidio dando alcuni elementi che arricchiscono
il quadro fornito dalla madre. Ribadisce il clima di paura in cui ha vissuto
gli ultimi giorni della sua vita Mario: «Avevi sbloccato il lucchetto che
assicurava la recinzione del tetto che dava sulla terrazza del piccolo edificio
dove vivevi, in ottica preventiva, nel caso ‘che qualcuno’ venisse a cercarti»;
mette in risalto i dissapori tra Mario e la Missione Onu: «So che ti dava
fastidio la leggerezza dei toni dei rapporti dell’Onu, la complessa relazione di
alcuni membri della Missione con l’esercito e la polizia, la contrattazione di
civili che avevano lavorato per le forze militari, la passività di
questa organizzazione di fronte ai bombardamenti contro i civili nel sud del
Meta»; e le sottolinea le discussioni avute con colleghi e superiori: «In una
riunione informale una collega ti ha accusato di essere una spia».
La famiglia intanto dichiara che «l’Onu non mostra di essere minimamente
collaborativa. Dall’inizio di questa tragica vicenda, dalla prima telefonata
non è emerso alcun sentimento di vicinanza, umanitá, dolore, nei confronti di
genitori che aspettavano un figlio da riabbracciare». Claudia Julieta Duque
denuncia con un altro articolo la «discrezione» e il silenzio dell’Onu che
invita i suoi collaboratori a non rilasciare interviste, come previsto dal
proprio contratto di lavoro. E intanto in Colombia la polizia di San Vicente
del Caguán viene indagata per aver permesso ai funzionari della Missione di
Verifica dell’Onu di entrare nella casa di Mario Paciolla e alterare il luogo
del delitto, raccogliendo i suoi effetti personali e compromettendo le
indagini. L’Onu rompe quindi il silenzio il 3 agosto, diciannove giorni dopo la
morte di Mario, attraverso il portavoce del Segretario Generale António Guterres,
che comunica l’assoluta collaborazione e disponibilitá alle indagini ma
ribadendo la linea del silenzio e della discrezione.
Mario si trovava a San Vicente del Caguán come osservatore per verificare
che gli Accordi di Pace firmati a l’Avana nel 2016, tra il governo colombiano e
il gruppo guerrigliero Farc-Ep, venissero rispettati. A San Vicente si trova
uno dei 24 Spazi Territoriali di Formazione e Reincorporazione (Etcr),
anteriormente chiamati Zone di Transizione e Normalizzazione (Zvtn), sanciti dall’Accordo
di Pace per garantire il disarmo e il reintegro degli ex-combattenti nella
società colombiana.
Aveva inoltre lavorato per due anni con Pbi-Brigadas de Paz Internacionales
accompagnando attivisti e attiviste fortemente minacciati per il loro lavoro di
difesa dei diritti umani e dei propri territori. Conosceva dunque la Colombia e
il delicato processo che sta attraversando. Gli ex combattenti dello Spazio
Territoriale di Miravalle lo hanno ricordato con affetto per il suo impegno nel
progetto «Remare per la Pace« attraverso il quale una squadra di rafting
locale, composta da cinque ex membri delle Farc, è riuscita a competere ai
mondiali tenutosi in Australia nel 2019. Mario non era quindi un sognatore
ingenuo, la sua esperienza sul campo in diverse zone di conflitto
internazionali lo rendevano un professionista della cooperazione
internazionale, nonostante il suo contratto lo inquadrasse come volontario. Le
sue analisi delle dinamiche socio-politiche del Paese pubblicate sotto
pseudonimo per importanti riviste di geopolitica dimostrano anche le sue fini
capacità analitiche. Persone che studiano e partecipano da anni nei processi
sociali della regione del Caquetà, e che preferiscono rimanere anonime per
evitare eventuali ripercussioni, credono che le cause della morte di Mario
vadano ricercate proprio nei temi di cui scriveva e nelle questioni che stava
cercando di denunciare.
A maggio del 2018, con il nome di fantasia Astolfo Bergman, Mario scrive su Limes un’attenta descrizione del processo
di pace alla vigilia delle elezioni nazionali. Individua nella terra e nel
paramilitarismo «i due gangli da sviscerare per garantire l’effettiva
estirpazione delle radici del conflitto». Il punto numero uno degli Accordi di
Pace del 2016 è infatti l’accesso alla terra e una riforma rurale agraria che
avrebbe dovuto garantire l’assegnazione di 3 milioni di ettari ai contadini
senza terra. Il punto 2 dell’Accordo riguarda invece la partecipazione
politica, ovvero la trasformazione delle Farc da gruppo armato a partito
ufficiale denominato Fuerzas Alternativas Revolucionarias del Comùn e la promozione
di politiche per l’inclusione delle donne nella leadership degli spazi pubblici
e istituzionali. Il punto 3 invece regolarizza il disarmo dei gruppi armati
presenti sui territori afflitti dal conflitto.
Dato il numero estremamente elevato di ex combattenti e leader sociali che
vengono assassinati, sembra che il processo di smobilitazione non abbia
interessato tutti i gruppi armati, soprattutto quelli para-militari, che stanno
impedendo di fatto sia la partecipazione politica che il vero cessate il fuoco
del conflitto. Nel frattempo la riforma rurale agraria non è mai stata
implementata, al contrario sono state promosse politiche di «sviluppo» che
favoriscono i processi estrattivi e danneggiano le comunità contadine e
indigene che difendono i loro territori. Queste gravi inadempienze minano le
fondamenta degli stessi Accordi, non a caso ostacolati apertamente dall’attuale
presidente di estrema destra Duque, e favoriscono le cellule dissidenti delle
Farc che non hanno mai consegnato le armi.
Mario Paciolla alias Astolfo Bergman scriveva che «la Colombia non è per
nulla un paese in pace» e evocava lo «spettro della Uniòn Patriottica», il
partito nato dalla smobilitazione di alcuni gruppi guerriglieri in seguito agli
Accordi di Pace del 1985, i cui membri vennero massacrati sistematicamente
durante il periodo del presunto armistizio. Mario era cosciente della storia di
tradimenti e massacri che ha avvolto i diversi tentativi di pacificazione del
conflitto e il clima di violenza che tuttora attraversa la Colombia e in
particolare il municipio di San Vincente. Dal giorno della firma degli accordi
in Colombia, infatti, sono stati uccisi 971 leader sociali e 219
ex-combattenti, di cui 20 nella regione del Caquetà, statistiche che non
descrivono una situazione da «post-conflitto». Sempre secondo Claudia Julieta,
Mario era indignato per la poca attenzione che l’Onu aveva prestato allo
scandalo dell’operazione militare eseguita durante l’estate del 2019, durante
la quale l’esercito colombiano bombardò e fucilò presunti appartenenti a un
campo delle dissidenze guerrigliere, tra cui c’erano almeno 8 (testimoni dicono
18) minori disarmati e costò la carriera all’allora ministro della
difesa.
Il massacro si è consumato proprio nei pressi del municipio di San
Vincente, un territorio storicamente in conflitto con le autorità statali dove
durante il corso del XX secolo la lotta per la terra ha portato alla
costituzione delle Autodefensas Campesinas e successivamente delle cellule
guerrigliere delle Farc. A San Vicente del Caguán si sono svolti anche gli
accordi di pace del 1999-2002, altro tentativo dissoltosi con l’inasprimento
del conflitto e con la repressione militare da parte dello Stato colombiano.
Ricostruire la rete di interessi che investe la zona del Caguán non è semplice.
Durante l’incontro virtuale organizzato dall’Università dell’Amazzonia per
ricordare Mario Paciolla si è parlato di «neo-conflitto» per spiegare la
complessità degli attori coinvolti nelle lotte territoriali. Nelle zone
lasciate libere dalle Farc sono presto confluiti gli interessi dei gruppi
guerriglieri che non hanno preso parte ai negoziati di pace, le cosiddette
dissidenze, le cui fila sono andate ingrossandosi in seguito alle esecuzioni
mirate ai danni degli ex combattenti e alle mancate riforme accordate nel
trattato di pace.
Si aggiungono poi i gruppi criminali messicani, come il Cartello di Sinaloa
e il Cartello di Jalisco Nueva Generación, che stanno riversando capitali nella
zona per acquistare terreni utili alla speculazione finanziaria, seguendo
l’esempio della borghesia colombiana, e implementano la coltivazione di coca
per alimentare i loro traffici commerciali. Negli Accordi di Pace il governo
colombiano si è impegnato nell’implementazione del cosiddetto Penis (Programa
Nacional de Sustitución de Cultivos de uso Ilícito), un programma di aiuti per
i contadini che decidono di abbandonare la coltivazione della coca. Gli aiuti
economici però non sono arrivati con costanza rendendo difficile la conversione
delle colture e il presidente Duque ha espresso la volontà di ritornare alla
più economica strategia delle fumigazioni tramite glifosato, dannose sia per la
terra che per la salute di chi ci vive.
A completare il quadro di una zona strategica che sorge alle porte
dell’Amazzonia e al centro di importanti vie di comunicazione con altre regioni
del Paese, ci sono le risorse naturali. Nella regione del Caquetá sono state
assegnate ben 44 license petrolifere e la metà di esse si trovano a San
Vicente. Le imprese che estraggono petrolio contrattano contingenti delle Forze
Militari per garantire la sicurezza delle loro attività estrattive che
avvengono sotto la supervisione dei soldati dei battaglioni Energetico e
Minerario creati nel 2018. A fare gola alle imprese ci sono inoltre importanti
risorse idriche adatte alla costruzione di centrali idroelettriche,
l’estrazione di oro nei pressi del fiume Caquetá e le sabbie bituminose, una
delle fonti di combustibile più sporche del pianeta. L’Amazzonia stessa è
diventata di per sè l’obiettivo dei gruppi economici che promuovono la
deforestazione per impiantare coltivazioni di palma africana e, nel caso
dell’economia informale, della coca. Con la sentenza della Corte Suprema numero
4360 del 2018, l’Amazzonia colombiana è diventata una risorsa da difendere e
ricostruire, così molte zone abitate dalle comunità contadine si sono
trasformate in parchi nazionali creando un clima di confusione burocratica che
permette alle forze dell’ordine di reprimere in maniera arbitraria gli abitanti
locali. Questi attori che vogliono arricchirsi ai danni del territorio, o
usandolo come spauracchio ecologista, hanno tutto l’interesse nel vedere
militarizzata la zona e disgregare il tessuto sociale delle comunità che si
battono contro i progetti estrattivi.
Nell’ultimo report di GlobalWitness, la Colombia figura al
primo posto nella triste statistica degli assassinati di difensori ambientali a
livello mondiale. Le vittime del conflitto tra cellule dissidenti, il gruppo
guerrigliero Eln, imprenditori del narcotraffico, gruppi para-militari e lo
stesso esercito continuano a essere i civili. Mario era cosciente che con la
vittoria elettorale dell’attuale presidente Ivan Duque, che definisce «uno dei
più fermi oppositori di quanto pattuito a L’Avana», la violenza in Colombia
sarebbe aumentata. Duque viene infatti considerato un fantoccio manovrato
dall’ex-presidente Alvaro Uribe, finito di recente agli arresti domiciliari per
aver cercato di corrompere i testimoni del processo che lo vede imputato come
fondatore di un gruppo para-militare di estrema destra.
Uribe figura anche nella lista dei maggiori narco-trafficanti colombiani
stilata dalla Cia nel 1991. Secondo la ricostruzione della serie
documentaria El Matarife, la famiglia Uribe sarebbe infatti
storicamente legata sia al Cartello di Medellin che a al Cartello di Sinaloa.
Questo intreccio di legami criminali e para-militari è una buona
rappresentazione del sistema di potere che governa in Colombia e che è stato
fomentato negli anni in ottica contro-rivoluzionaria dagli Stati uniti. Uribe
viene anche responsabilizzato del fenomeno dei falsos positivos, esecuzioni
di civili da parte dell’esercito camuffate da azioni contro-insorgenti,
generatosi durante il suo mandato presidenziale che ha imposto la linea dura
contro la dissidenza politica. Il suo delfino Ivan Duque, leader del Centro
Democratico fondato proprio da Uribe, da poco finito sotto inchiesta anche lui
per finanziamento illecito durante la sua campagna elettorale, sta cercando di
mantenere una politica dal pugno duro nonostante le rivolte popolari del
passato autunno e le nuove inchieste della magistratura stiano facendo
vacillare il suo sistema di potere. In questo senso la crisi sanitaria del
Covid-19 ha dato nuovo respiro al governo limitando le mobilitazioni di massa che
stavano chiedendo le sue dimissioni senza però ridurre gli omicidi di attivisti
che continuano a ingrossare le statistiche. Dall’inizio della quarantena, in
Colombia sono stati uccisi 95 difensori e leader sociali, la maggior parte dei
quali nella zona del Cauca, storica regione di resistenza indigena.
Alla luce di questi dati, e del momento storico che si sta vivendo in
Colombia, la morte di Mario Paciolla può essere interpretata come l’ennesimo
atto di repressione ai danni di chi lavora a favore della pace e della
giustizia sociale, in un Paese dove questo impegno può risultare fatale. Fare
luce sull’uccisione di Mario significa confrontarsi con i tentativi di
depistaggio a cui abbiamo assistito, con la corruzione delle autorità
colombiane, con il silenzio delle Nazioni unite e con l’ipocrisia di un governo
che si definisce in pace mentre continua a reprimere i suoi oppositori.
«Non c’è pace senza giustizia» è un famoso slogan che ha dato voce alle proteste per i diritti civili della popolazione Nera negli Stati uniti, una frase che diventa calzante per il popolo colombiano che sta vivendo il conflitto armato interno più duraturo del continente e che non avrà fine fino a quando non si riuscirà a garantire giustizia per le vittime della violenza. Per rendere giustizia a Mario non basterà identificare gli esecutori materiali del suo assassinio ma bisognerà scoperchiare la rete di responsabilità che ha permesso quest’ennesimo crimine contro attivisti e attiviste che difendono i diritti umani. Come nel caso di Giulio Regeni, guardare all’omicidio di Mario Paciolla attraverso le lenti delle veritá giudiziarie puó confondere le acque e restituire uno sguardo appannato della realtá. È importante invece mettere a fuoco la vicenda, affermando il carattere politico di questo omicidio e fin da subito trattarlo come tale. La verità che la famiglia di Mario, il comitato di persone a lui vicine, gli accademici di tutta Europa e alcune figure politiche italiane stanno chiedendo può contribuire al processo di pace e giustizia per cui migliaia di attivisti e attiviste lottano quotidianamente in Colombia rischiando ogni giorno la propria vita.
Nella Colombia di Mario
Paciolla l’arresto di Álvaro Uribe è “la notizia del secolo” -
Nella
Colombia dove meno di un mese fa è stato assassinato il cittadino italiano e
funzionario ONU Mario Paciolla (un omicidio che, fino a prova contraria, può
avere motivi politici legati al processo di pace), l’arresto
dell’ex-presidente Álvaro Uribe è
“la notizia del secolo”. Una notizia del secolo totalmente bucata dai nostri
media, cerchiamo di capire perché.
Onnipotente,
e ancora oggi difeso dall’attuale presidente Iván Duque, del quale è mentore
influentissimo, Uribe nel primo decennio del secolo (2002-2010) fu il
principale alleato emisferico di George W Bush. Era il tempo post 11 settembre
e della “guerra al terrorismo” e dell’America Latina che, dopo il tracollo del
“neo-liberismo reale”, guardava a sinistra da Lula a Kirchner a Chávez. Uribe
fu per anni “il nostro uomo a Bogotà”; destra vera, non opportunismo. Godeva di
ottima stampa (spesso redazionali pagati) che magnificavano presunti successi
di politiche ultraliberali in un Continente che in quegli anni rileggeva
Gramsci e guardava a Keynes. Intanto, con la scusa della guerriglia
vetero-marxista delle FARC si negava l’essenza di un conflitto feroce per la
terra, con milioni di contadini espulsi dalle loro terre per far posto
all’agroindustria e il ruolo nefasto del narcotraffico. Un conflitto per la
terra che vedeva i contadini sempre massacrati, dall’esercito, dai paramilitari
e a volte perfino dalla guerriglia, e che generava la guerriglia stessa quasi
come un danno collaterale di un processo di modernizzazione neoliberale dei
rapporti di produzione. Rapporti di produzione dove l’industria militare resta
tra le più prospere e abominevoli, come attestò il Plan Colombia, voluto dagli
USA. Basta ricordare il caso dei “falsi positivi”, migliaia di disgraziati,
contadini, studenti, totalmente estranei, assassinati a sangue freddo e
rivestiti con la divisa della guerriglia per incassare i soldi pattuiti col
governo degli Stati Uniti per ogni guerrigliero ucciso.
Uribe, con i
suoi paramilitari, era materialmente dietro non solo a molti dei singoli
crimini, ma ideologo dell’impalcatura generale di una macchina criminale e genocida che ha fatto
250.000 morti. A cominciare da quel Massacro di El Aro, nel lontano 1997,
riconosciuto come Crimine contro l’Umanità, quando i paramilitari delle AUC,
legati a lui che in quel momento era governatore di Antioquia, assassinarono 15
contadini per sloggiarne 900 altri. Tra gli esecutori materiali vi fu quel
Salvatore Mancuso, paramilitare e narcos, legato alla ‘ndrangheta,
successivamente impegnato nella destabilizzazione del governo Chávez in
Venezuela, e nel 2008 estradato negli USA. Uribe, non fosse stato alleato di
Bush, in quella stessa stagione avrebbe meritato un tribunale penale
internazionale come un Milosevic o un Saddam Hussein. Oggi otto anni di
indagini di un potere giudiziario che in questi decenni ha pagato prezzi
altissimi per difendere la propria autonomia, hanno portato all’emissione di un
mandato di arresto (già trasformato in domiciliari per una presunta positività
Covid19) per una parte di quei crimini. Nello specifico la sua relazione con i
paramilitari e, in particolare, nella corruzione di testimoni (è stato
arrestato anche l’avvocato di Uribe) per smontare le accuse del coraggioso
senatore Iván Cepeda, del Polo Democratico, e che dimostrerebbero come Uribe e suo
fratello Santiago siano fin dall’inizio personaggi chiave del paramilitarismo
nel Nord-Ovest della Colombia.
Se
dell’arresto di Uribe e della lunga vicenda processuale che lo riguarda
sentirete parlare poco sui giornali, che vi stanno del resto negando
informazioni sull’omicidio di Mario Paciolla, ancora meno sentirete parlare di
vicende giudiziarie di questi giorni e di segno opposto in America latina,
eppure decisive nella comprensione della Storia della Regione in questo scorcio
di XXI secolo. L’Interpol, per la terza volta nel giro di un anno, ha sostenuto
che dietro la condanna per corruzione dell’ex-presidente ecuadoriano Rafael
Correa esista una precisa “persecuzione politica”, orchestrata dall’attuale
presidente Lenín Moreno, e quindi si è rifiutata di procedere contro questo.
Contemporaneamente in Brasile la Corte Suprema riconosce una volta di più
quanto la condanna di Lula fosse viziata dal giudice Sergio Moro (che con
sprezzo del ridicolo qualcuno sui giornali italiani definì “il Falcone brasiliano”),
che poi è stato Ministro della Giustizia di Jair Bolsonaro. Moro agì al fine di
“influenzare in modo diretto e rilevante il risultato delle elezioni, […]
violando il sistema accusatorio nonché le garanzie costituzionali del
contraddittorio e della difesa”. A questo si aggiunga la denuncia di brogli mai
esistiti, inventati a tavolino dall’Organizzazione degli Stati Americani, che
furono prodromici al golpe contro Evo Morales in Bolivia e all’instaurazione di
un catastrofico regime di fatto che sta usando il Covid19 per perpetuarsi. È il
“lawfare”, la guerra giudiziaria contro tutti i governi di centro-sinistra
degli ultimi vent’anni: lo strumento per normalizzare l’America Latina. Tutti
corrotti, salvo Uribe ovviamente.
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