(Traduzione di Enzo Ferrara)
Perché è molto difficile capire il paesaggio, quando tu ti muovi in treno,
da qui a lì,
e lui ti osserva in silenzio mentre te ne vai
(Poemtrees, W.G. Sebald)
Riflettendo sulla insostenibilità delle tecnologie ad alta velocità,
ci sono spesso tornati in mente alcuni saggi del 1996 scritti
quando il filosofo e studioso di pedagogia austriaco Ivan Illich accettò di
intervenire alla conferenza Doors of Perception che
l’associazione olandese di arte contemporanea (Netherlands Design Institute)
organizzava ad Amsterdam quell’anno sul tema della “velocità”. La conferenza si
tenne l’8 novembre. Illich sorprese i suoi ospiti perché si
presentò con il biologo naturalista Sebastian Trapp e con il musicologo
Matthias Rieger, due suoi amici di Brema la città in cui abitava, che avevano
riflettuto con lui su quel tema. Così Illich spiegò poi come era nata questa
storia:
“Eravamo seduti nel grande salotto in casa di Barbara Duden a
chiacchierare con davanti una tazza di thè, quando arrivò una lettera
dall’Olanda. Era un invito a una conferenza del Netherlands Design Institute.
Si poteva leggere che: ‘Il tema della quarta conferenza Doors of
Perception è la velocità. Che ci sia un senso oppure no, viviamo in un
mondo dominato dalla velocità – dai Tgv alla Cnn. La velocità definisce i
nostri prodotti, i nostri luoghi, il nostro stile di vita e la nostra
immaginazione’. Oppure no? Ci guardammo l’un l’altro. Da dove potevano trarre
ispirazione sulla “velocità” un biologo naturalista, un musicologo e un
filosofo? La nostra immaginazione incespicava sulla presunta dominanza del
tema. Poteva essere così scontata come il programma suggeriva? Per trovare una
risposta, siamo tornati indietro nella storia, per distanziare noi stessi dalle
certezze moderne e per capire se da lì potevamo guardare alla velocità anche
oltre la nostra visione sociale accelerata”.
Gli interventi originali furono trascritti poco dopo. Quello di Ivan Illich
fu tradotto dalla rivista “Libertaria” (ottobre-dicembre 2001), gli altri
due sono invece rimasti disponibili a lungo solo in inglese. Il testo di
Sebastian Trapp uscì poi su “Medicina Democratica” (maggio/agosto 2017),
quello di Matthias Rieger ci risulta proposto qui per la prima volta in
italiano.
Sono passati più di vent’anni dalla loro stesura, ma le riflessioni di
allora, raccolte in queste pagine oggi, restano coinvolgenti e utili e, benché
leggere, efficaci per svelare l’assurdità dei modi di pensare il rapporto fra
società e tecnologia in modo univoco. Non esistono tecnologie o caratteristiche
sociali che abbiano valore in assoluto; occorre sempre considerare i costi in
termini sociali e ambientali di qualunque scelta e decidere cosa è il meglio a
seconda delle situazioni. Perfino le azioni di cura, sosteneva Illich, portate
oltre certi limiti possono rivelarsi contro-produttive. Sembra questo un
momento opportuno per rimettere questi tre testi insieme e coglierne il valore
in profondità: se non si mettono l’uomo e la sua esigenza di relazione sociale
e con la natura al centro del discorso, qualunque apporto tecnologico si rivela
di dubbia utilità e le sue pretese doti superflue e risibili, se non dannose. (e.f.)
Federico II e la velocità del falco - Sebastian Trapp
La mattina presto del 18 febbraio 1248 i cittadini di Parma attaccarono il
nemico che li stava assediando. Si riversarono fuori della proprie mura e
distrussero Victoria, la città che l’esercito nemico aveva costruito e chiamato
in modo così sprezzante. Sapevano che l’imperatore che li aveva aggrediti e i
suoi uomini più fidati non erano lì.
Per diversi mesi gli assediati avevano osservato la vita quotidiana nel
campo del loro odiato avversario e sapevano, perciò, che il momento giusto per
contrattaccare sarebbe stato quello in cui l’imperatore lasciava il campo di
battaglia per andare a caccia con i suoi falconi.
I parmigiani ebbero il sopravvento e non sconfissero soltanto il re nemico,
ma lo spogliarono di quasi tutto. Gli presero la corona che sfoggiava nelle
giornate di cerimonia, un capolavoro lavorato meravigliosamente, ornato di
diamanti e “grande quanto una pentola” – come ricordava un suo
contemporaneo. Inoltre, cadde nelle loro mani il sigillo del Regno di Sicilia,
cosa che costrinse poi l’imperatore a emanare numerosi editti per evitare che i
suoi oppositori ne facessero abuso. Il Carroccio di Cremona, un cocchio
pomposamente decorato con bandiere, fu il trofeo più famoso. I nemici della
città di Cremona che si era alleata con l’imperatore non poterono resistere
alla tentazione di prendersi dei souvenir; pochissimo tempo dopo la
vittoria, non ne era rimasto altro che le ruote.
Ma il solo e veramente unico bottino non rimpiazzabile di quel colpo di
mano non è elencato nelle cronistorie. Si trattava di un manoscritto, preparato
espressamente per il re, con una custodia in cuoio, ornato di oro e argento e
con il testo impreziosito da disegni e miniature. Fu visto per l’ultima volta
vent’anni dopo la battaglia di Victoria – lo si menziona in una lettera scritta
nel 1265 – poi non fu mai più ritrovato.
È il libro De arte venandi cum avibus (Sull’arte della caccia con
gli uccelli), scritto dall’assediante di Parma stesso – Federico II, Re di
Sicilia e di Gerusalemme e Imperatore del Sacro Romano Impero. Grazie ad altre
copie minori lo si trova ancora in stampa oggi.
Federico II fu un personaggio con grandi doti. A causa della sua amicizia
con studiosi arabi e del suo pensiero privo di dogmi – come dimostrava il suo
interesse per la filosofia e le scienze naturali – il clero gli fu decisamente
ostile. Fu scomunicato da Papa Gregorio IX come personificazione
dell’Anticristo. Il biografo di questo Papa scrisse che “egli (Federico)
aveva trasformato il titolo di maestà in una carica relativa alla caccia, si
circondava non d’arme e leggi bensì di cani e di uccelli vocianti, e ancor
peggio, aveva dimenticato d’imporre la giusta vendetta sui suoi nemici,
preferendo sguinzagliare le sue aquile trionfali nella caccia con gli uccelli”.
Solo in pochi poterono apprezzare quell’opera scritta da Federico sulla vita
dei volatili da caccia, che per molti aspetti rimane di valore ancora oggi. È
rimarchevole perché si basa non su testimonianze riportate o sulla narrazione,
ma su un‘osservazione fatta da un esperto e su una descrizione dettagliata di
quanto osservato.
Uno dei suoi contemporanei scrisse: “Grazie alla sua straordinaria
capacità di elaborazione mentale, che si concentrava principalmente sulla
cognizione della natura, l’imperatore compose un’opera sulla vita naturale e
sull’allevamento degli uccelli con la quale dimostrò quanto fosse intimamente
dedito ad analisi approfondite”.
Leggendo il libro è difficile non restare profondamente impressionati
dall’ampiezza delle conoscenze che Federico II aveva raccolto, non soltanto
sulla cura e l’allevamento dei falconi che usava per la caccia, ma anche sulla
loro anatomia e sulle loro malattie. Tuttavia l’intenzione di questo grande
libro è molto più ampia: non si occupa soltanto di uccelli da preda ma della
vita di tutti i generi di uccelli, con osservazioni dettagliate dei loro cicli
di vita, dei loro territori preferiti, delle loro abitudini incluse le
migrazioni autunnali e invernali, e ancora molto, molto di più. Nel linguaggio
moderno diremmo che diede una dettagliata descrizione dell’anatomia, del
comportamento e dell’etologia degli uccelli con inclusa una tassonomia.
Nel quarto volume di questa sua opera Federico descrive le differenti
modalità con le quali i falconi attaccano una gru a terra. Esprime la sua
opinione sulle ragioni per queste differenti tattiche: “Di questi falconi
uno si getta contro le gru sul terreno, alcuni volano in alto, altri in basso e
altri ancora ad altezza media. (…) Quelli che volano alti, rapidi e diretti, lo
fanno per arrivare più in fretta addosso alla gru che hanno scelto e per essere
in grado di colpirla con maggiore impeto”.
“Quelli che volano compiendo un arco rapido, lo fanno per sfruttare
meglio la direzione del vento, se non gli si gettano direttamente contro”.
“Quelli che volano compiendo un arco lento, lo fanno sia per sfruttare
il vento, sia per fare alzare la gru in volo non osando attaccarla direttamente
sul terreno”.
“I falconi che volano a mezza altezza e lentamente lo fanno per far
alzare in volo la gru, quelli che volano ad altezza moderata ma rapidi, lo
fanno per raggiungere la preda nel più breve tempo possibile, cioè prima che
questa riesca a volare via e a sfuggirgli”.
Forse ora cominciate ad avere idea del perché io stia parlando di questo
libro antico e quasi sconosciuto. Dopo tutto, questo è un incontro sulla velocità,
non sui possibili libri antenati delle moderne scienze naturali, per quanto
essi siano affascinanti. Ma Federico II può servire come punto di partenza per
un ragionamento che vorrei fare con voi.
Per questo ragionamento è importante considerare che, per quanto sia
vissuto molto tempo fa, Federico II era sotto molti aspetti un uomo moderno.
Era moderno perché non credeva ingenuamente a ciò che non aveva visto di
persona. Era moderno per la sua attenzione ai dettagli e per il suo tentativo
di comprendere ciò che aveva osservato mettendolo in relazione con il contesto
corretto: l’ambiente nel quale l’osservazione era stata fatta. Per altri versi,
tuttavia, era davvero un uomo di vecchie maniere: non parlava mai di velocità.
La descrizione che ho citato, sui modi in cui i falconi si avvicinano alla
preda, lo dimostra chiaramente. Per descrivere i movimenti dei falconi usa le
parole “lento” e “rapido”, ma solo in questo senso e anche quando
valuta i movimenti dei suoi falchi, parla sempre soltanto dei loro differenti
modi di volare verso la preda: “il volo in alto è più lodevole e pregevole
perché per questi falconi è la maniera più facile di piombare direttamente
sulla preda (…) se anche la gru li intravede in distanza, i falconi che volano
in alto possono comunque raggiungerla rapidamente proprio perché piombano da
un’altezza elevata”.
Federico sta usando queste parole, ma non parla mai né pensa in termini di
velocità come facciamo noi. E non confronta mai la velocità di un falcone con
quella di un altro, né la velocità del falcone rispetto a quella della sua
preda.
Oggi è più semplice. Nei libri di scuola si legge che il falco pellegrino
raggiunge una velocità di 200 km all’ora, molto più veloce di tutti gli altri
uccelli che attacca. Ma questa dote – essere più veloce di tutti gli altri –
non è la vera ragione per la quale i falconi sono abili cacciatori. Federico,
che dedicò gran parte della sua vita alla caccia con gli uccelli – molti
diranno anche troppo tempo passato a cacciare – conosceva bene la vera ragione.
Infatti non gli sarebbe mai passato per la mente che il successo dei suoi
rapaci stesse nella loro straordinaria velocità.
Le ragioni sono di due ordini: la prima sta nella nostra cultura. Il
concetto di “velocità” per come lo conosciamo noi è nato molto di
recente, è un concetto decisamente moderno. I dizionari possono ricordarci
significati più antichi del concetto di velocità, che potrebbero sembrarci
strani e alieni: abbondanza, successo, fortuna, copiosità, sostegno,
protezione.
Oggi, se qualcuno parlasse di “velocità” noi la intenderemmo come
caratteristica di un processo, un movimento nella maggior parte dei casi, in
funzione del tempo, che – almeno in principio – può essere misurato da uno
strumento, da un dispositivo tecnico e perciò può essere comparato. Questa
nozione del tempo – che si esprime in unità di misura come i km/h o i giri al
minuto – connota un movimento uniforme, perché stiamo parlando della velocità
meccanica.
La velocità meccanica è stata inventata insieme alle ferrovie. Prima di
allora le persone viaggiavano con le carrozze. Non soltanto si rendevano conto
di quanto fosse faticoso per i cavalli tirare la carrozza, ma essi stessi
venivano sballottati su e giù, tanto che alla fine del viaggio erano esausti
tanto gli animali quanto i passeggeri. Il movimento era davvero molto
irregolare; a ogni curva, a ogni ostacolo, la carrozza rallentava, inoltre dopo
poco tempo i cavalli si stancavano e si andava più piano.
Questa irregolarità del movimento divenne palese quando furono inventate le
ferrovie. Nel 1826 un promotore delle reti ferroviarie descrisse il movimento
del cavallo come zoppicante e irregolare e lo confrontò con quello della
locomotiva che si muove “con una modalità uniforme e rapida sulle rotaie,
affatto condizionata dalla velocità del movimento”. Non ci volle molto
perché la percezione dei viaggiatori cambiasse e il movimento rapido e uniforme
della locomotiva venisse avvertito come naturale, mentre la natura dei cavalli
da tiro cominciava ad apparire pericolosamente incontrollata.
Perciò, non è sorprendente che già nel 1825 si scriveva che “presto
anche l’uomo più ansioso quando troverà posto su un vagone tirato da una
locomotiva si sentirà molto più sicuro di quanto non gli accadeva nel tempo in
cui doveva viaggiare in una carrozza tirata da quattro cavalli, ognuno dei
quali differiva in potenza e velocità, e poteva imbizzarrirsi, diventare
incontrollabile oltre che soggetto a tutte le debolezze della carne”.
Per questo il tipo di velocità di cui parliamo oggi – quella di cui stiamo
parlando in questa conferenza – è qualcosa che ha cominciato a esistere più di
mezzo millennio dopo la morte di Federico. Lui non poteva parlare della
velocità nel modo in cui ne parliamo noi.
La seconda ragione è perfino più importante secondo me. Sta nella natura
del falcone, nella natura della sua preda e nella natura della natura. Parlare
della velocità del falcone è un’astrazione, un presupposto che può assumere un
significato solo per alcuni obiettivi. È tuttavia anche una distrazione.
Ci distrae dal modo in cui il falcone sta in realtà cacciando. Il confronto
fra la velocità del falcone e la velocità della sua preda ci porta
inevitabilmente a immaginare una gara, il cui esito finale è che il falcone
raggiunga l’altro uccello e infine lo catturi.
L‘obiettivo del falcone non è però quello di poter – o voler – battere la
sua preda in una gara. Federico – che vivendo nel Medioevo non poteva farsi
ingannare dalla moderna nozione di velocità – lo vedeva chiaramente.
Lui sapeva che ci sono uccelli (e offre l’esempio del tarabuso) i quali,
quando vengono incalzati da rapaci che li inseguono per cacciarli, gettano loro
addosso i propri escrementi. Considerando quanto caustiche siano queste
sostanze, si tratta di un rischio grave che qualunque predatore vorrebbe
evitare.
Per questo Federico non ha mai immaginato la caccia con gli uccelli come
una forma di gara. E le frasi che ho citato sono chiare a questo proposito:
egli descrive sempre il comportamento del falcone – come si lancia dal pugno
guantato, come si avvicina alla preda, che cosa ha in mente quando sceglie un
certo percorso per arrivare alla gru. Prende in considerazione dove stanno le
gru, quello che stanno facendo e quale metodo di attacco sarebbe il migliore
per il falcone, il più “lodevole”, come egli sottolinea.
In tutto questo volare, curvare, e volteggiare, battere le ali per prender
quota ed esitare prima di piombare giù, in tutto questo, non c’è spazio per la
nostra nozione di velocità.
Quando io dico che “il falco pellegrino raggiunge una velocità di 200 km
orari”, in realtà sto parlando di un momento brevissimo, poco più di un
battito di ciglia, quello in cui il falcone si avvicina maggiormente a qualcosa
che sia compatibile con la nostra idea di velocità – cioè la velocità meccanica
– il momento in cui sfreccia verso l’altro uccello, con le ali compresse contro
il proprio corpo, incapace di qualunque sterzata e perciò costretto a muoversi
in linea retta.
Questo è l’unico momento in cui la nostra idea di velocità è davvero
applicabile ed è solo in questo momento che possiamo riconoscerla in quel
testo. Un secondo più tardi – quando gli artigli del falcone colpiscono l’altro
uccello, quello cade e lui lo afferra cercando di riprender quota – “velocità”
è di nuovo un concetto senza alcuna importanza pratica, nemmeno per
l’osservatore umano. Questo vale anche per gli umani, almeno in principio. Ma
la tecnologia ha prolungato enormemente i tempi in cui noi viviamo esperienze
di velocità meccanica. Siamo abituati a stare seduti in treno, a prendere un
aeroplano, a guidare in autostrada dentro un’auto. Ci siamo così tanto abituati
all’esperienza uniforme della velocità meccanica che per noi ha senso parlare
della “velocità” perfino di chi si muove a piedi, anche se in realtà si
ferma tutti i momenti, parla con altre persone o guarda le vetrine di un
negozio.
Per un oggetto che si muove in modo così irregolare come un pedone sul
marciapiede, ce la caviamo parlando di “velocità media”. I primi
passeggeri delle ferrovie restavano confusi e sorpresi dal movimento uniforme
del treno, non erano abituati alle sensazioni della velocità dentro una
macchina che irrideva i loro ritmi abituali. Ci volle un po’ di tempo prima che
le persone cominciassero ad abituarsi a vedere i luoghi che conoscevano scorrere
davanti ai loro occhi come paesaggi, impressioni che ormai ci sono così
familiari che non le consideriamo nemmeno più. Noi – che siamo trasportati
tutto il tempo – siamo così abituati a questo tipo di velocità prodotta dalle
macchine che per noi “velocità” è un termine che ha un senso
perfettamente compiuto.
Guardando un falcone alto nel cielo o un bambino che giocherella
girovagando nella strada, io dubito profondamente che questa nozione di
velocità, portata avanti dalle macchine che gli uomini hanno inventato, sia
l’idea che dobbiamo avere in mente quando parliamo esattamente degli umani, di
noi stessi. Non fa davvero nessuna differenza se noi vogliamo che la “velocità
della società umana” sia accelerata o rallentata – finché guarderemo gli
umani con in mente la “velocità”, non riusciremo a vederli umanamente.
Appunti sulla velocità dal punto di vista di un percussionista di danza del
ventre - Matthias Rieger
Mentre stavo preparandomi per questa conferenza sulla velocità, a un certo
punto mi è sembrato di non avere argomenti da proporre a persone che sarebbero
arrivate da tutte le parti del mondo con automobili, treni o aeroplani. Questo
evento – così avevo letto nel programma – dovrebbe dare agli scienziati, agli
ingegneri e ai filosofi un’opportunità per chiarirsi le idee. Così, dopo un po’
ho pensato di chiedere aiuto al mio insegnante di percussioni, Muhammad. È un
caro amico ed è anche un musicista esperto. Da due anni sta lavorando sodo per
insegnarmi l’arte delle percussioni per la danza del ventre. Al termine di una
lezione settimanale di musica gli ho detto che ero stato invitato dal Netherlands
Design Institute per parlare della velocità nella musica e che stavo
preparando un discorso sull’introduzione del concetto di velocità nella società.
Volevo usare l’esempio del metronomo per spiegare in quale modo la velocità
fosse entrata anche nel mondo della musica.
Questo strumento fu inventato nel 1812 dal tecnico olandese Nicolaus
Winkler che viveva ad Amsterdam, forse proprio in un posto qui vicino. L’idea
di quel piccolo marchingegno, progettato per dare il ritmo giusto alle sonate,
gli fu rubata da un tecnico tedesco, Nepomuk Maelzel, che lo brevettò a Parigi
e a Londra e lo mise in commercio nel 1816.
Il metronomo è un dispositivo tecnico che emette un suono periodico a una
velocità che si può cambiare, dettando così al musicista il ritmo da seguire.
Il suo funzionamento si basa sul principio del doppio pendolo, cioè sul
movimento di una sbarra che oscilla, con un peso su entrambe le estremità. Il
peso più in alto si può spostare lungo una scala graduata. Un meccanismo a
molla alimenta il movimento della sbarra e fornisce quel ticchettio che ogni
aspirante musicista conosce bene. Se si sposta il peso mobile lungo la sbarra,
il ritmo del pendolo cambia e si può rallentare o accelerare il ticchettio.
Sugli spartiti, per esempio, si può trovare l’indicazione che un certo brano
dev’essere suonato a MM (Metronomo di Maelzel) = 80. Significa che il pendolo
deve oscillare dall’uno all’altro lato (ed emettere un suono) ottanta volte al
minuto e che le note intere (o semibrevi) corrispondenti devono essere suonate
alla velocità di ottanta al minuto.
“Molto interessante – ha risposto Mohammed – Ma a cosa pensi possa servire
discutere di velocità in musica? Di cosa vogliono sentir parlare quelle
persone?”
“Guarda – ho detto – se ho compreso bene, vogliono capire se si può
rallentare la velocità di una società con progetti e architetture per andare
più lenti. Immagino significhi qualcosa come ridurre la velocità in autostrada
da 120 a 90 chilometri all’ora, o la musica da 98 battiti al minuto a 60”.
Ho spiegato a Mohammed che avrei provato a commentare il senso della
velocità prendendo come esempio la discussione che si fa in musicologia
parlando della fedeltà alla “pratica artistica storica”. Questo dibattito
cominciò all’inizio del ventesimo secolo, sulla musica rinascimentale, barocca
e classica. Da allora, ci si è scontrati su come interpretare e usare le
indicazioni sul metronomo fornite dal compositore. Da una parte di questa
controversia ci sono quelli che pensano che suoniamo la musica classica troppo
velocemente. Sostengono che questo accade a causa della generale accelerazione
di tutti gli aspetti della vita moderna dopo l’invenzione delle ferrovie.
Dicono che si dovrebbe ridurre della metà la velocità indicata sugli spartiti,
da 120 a 60 battiti a minuto, per esempio. Lasciate che costoro io li
chiami slobbies, usando un termine che gli economisti hanno creato
per indicare persone che vanno piano ma con efficacia.
Dall’altra parte ci sono quelli che difendono le interpretazioni musicali
eseguite seguendo esattamente il “tempo” indicato sullo spartito; questo è
secondo loro l’unico modo per riprodurre la melodia originale.
“Ah – mi ha interrotto Mohammed – ho capito: guidatori di una Porsche o di
un maggiolone che discutono di musica”.
Uno dei primi compositori che fornì indicazioni per il metronomo fu Ludwig
van Beethoven. Era amico di Maelzel e favorì l’introduzione del metronomo in
Germania. Ma Beethoven rimase sconcertato quando ascoltò le prime
interpretazioni delle sue musiche fatte seguendo le frequenze di un metronomo.
Le indicazioni Mm non andavano bene. Dovette così cambiarle più volte finché
non arrivò a concludere che l’uso del tempo “misurato” non ha alcun senso in
musica, e non fu l’unico compositore che la pensava così.
“Però – chiesi – non abbiamo anche noi due usato il metronomo per i nostri
primi esercizi di danza del ventre? A me sembrava il modo migliore per tenere
bene il ritmo della danzatrice”.
“In realtà, – disse Mohammed – allora non avevi quasi nessuna esperienza.
Altrimenti non avresti mai accettato di seguire un dispositivo meccanico invece
del tuo istinto per tenere il ritmo giusto, appropriato e armonioso. Questa
certezza l’acquisisci solo grazie al confronto fra le sensazioni della
danzatrice e le tue”.
Come potete immaginare, rimasi colpito dalle osservazioni di Mohammed.
Decisi non solo di continuare le mie due ore di pratica musicale quotidiana ma
volevo anche capire come hanno fatto i musicisti a trovare il tempo giusto per
le loro esibizioni nella storia della musica occidentale.
Una settimana più tardi ho invitato Mohammed a prendere una tazza di tè per
continuare la nostra conversazione. Era entusiasta e mi promise che sarebbe
venuto con un’amica di nome Abla, una danzatrice del ventre che faceva
spettacoli con Mohammed da molto tempo. Quando arrivarono preparai del buon tè,
aggiunsi dei dolcetti e cominciammo a chiacchierare.
“Guarda Mohammed, mi hai veramente fatto riflettere con le tue osservazioni
sul metronomo e la musica – dissi – Ho cercato informazioni sulla storia della
musica occidentale perché volevo capire cosa pensavano i musicisti del passato
sul tempo musicale. Puoi immaginare la mia sorpresa quando ho trovato che fino
al diciannovesimo secolo il tempo della musica è sempre stato determinato
dall’ambiente in cui doveva essere rappresentata: un evento speciale, un luogo,
un posto di lavoro o di azione.
Per esempio, i canti del lavoro si adattavano al ritmo dell’attività
svolta, il tempo di una musica da ballo dipendeva dall’acustica del teatro e,
certamente, anche dall’umore dei ballerini e dei musicisti. L’esigenza di avere
indicazioni sul tempo si cominciò a sentire solo all’inizio del diciottesimo
secolo quando i compositori iniziarono a usare parole italiane per lo scorrere
del tempo, come adagio, allegro, o presto. Tuttavia, questi termini legati al
tempo non si riferivano a una sua misura che ne permettesse l’espressione in
unità al minuto. Erano insieme indicazioni per l’umore e per lo spirito o il
carattere a cui si ispirava il brano.
Carl Philipp Emanuel Bach a metà del diciottesimo secolo nel suo Studio
sulla vera arte di suonare il vlavicembalo (Versuch, über die wahre
Art das Clavier zu spielen) aveva scritto: “Il tempo di una pièce,
che è usualmente indicato da una varietà di termini italiani familiari, dipende
dal suo carattere generale e dalle note e i passaggi più veloci che include.
L’attenzione appropriata a queste considerazioni eviterà di fare fretta a un
Allegro o di trascinare un Adagio”.
Poi ho dato un’occhiata agli scritti sulle danze e, nuovamente, ho trovato
che non ha senso confrontarne i tempi fra tipi differenti. Una sarabanda non è
più veloce o più lenta di un minuetto o un valzer. È semplicemente una
sarabanda e bisogna suonarla come deve essere suonata una sarabanda. Tutte le
danze hanno un proprio carattere che non si può semplicemente ridurre a un
tempo indicato meccanicamente.
La prima macchina per la misura del tempo musicale fu inventata nel 1698,
molto dopo che il primo orologio a pendolo era stato costruito in Francia.
Questo strumento, chiamato ‘cronometro’, fu ideato dal filosofo musicale
francese Etienne Loulie ed era ancora famoso nel secolo successivo. Costava
molto ed era alto quasi due metri. Fu usato più da teorici e scienziati della
musica che da musicisti. Perfino dopo che Winkler ne aveva realizzato la
versione molto più piccola e maneggevole, l’uso del metronomo fu di scarsa
utilità per la maggior parte dei musicisti. Fu solo più tardi, con la
commercializzazione del metronomo di Maelzel e il sostegno di compositori
famosi come Beethoven, che quell’oggetto divenne lo strumento per la misura del
tempo musicale.
Anche se l’uso del metronomo divenne comune solo dall’inizio del
diciannovesimo secolo, altre modalità non tecnologiche venivano usate per
tenere il tempo. Una era l’uso del battito cardiaco. Ho trovato questo metodo
menzionato per la prima volta nel sedicesimo secolo da un monaco italiano
chiamato Ludovico Zacconi, che fornì una breve descrizione pratica di come
misurare il tempo con le pulsazioni nel suo trattato “Prattica di Musica”.
L’allora famoso flautista Johann Joachim Quantz scrisse nella sua
opera Studio di un modo per suonare il flauto traverso (Versuch
einer Anweisung die Flötetraverse zu spielen) questa bellissima frase:
“Bisognerebbe assicurarsi di fare questo: prendere come base il polso di una
persona allegra e sana con un carattere caloroso e spontaneo oppure, se è
permesso dire così, di una persona di temperamento collerico, dopo cena, verso
sera. Solo allora si potrà dire di avere scelto la pulsazione giusta. Se si
prende come base una persona depressa, triste, insensibile o pigra il tempo del
brano dev’essere un po’ più sostenuto del suo battito”.
Tutti questi metodi di misura del tempo, comunque, erano usati soprattutto
dagli studenti di musica o dai dilettanti, persone con scarse esperienze, come
i percussionisti principianti della danza del ventre oggi. Erano appigli per
darsi un’idea del tempo appropriata. Quantz, che descrisse il metodo di misura
delle pulsazioni, scrisse anche: “Se si fa pratica di questo per un po’ di
tempo, allora gradualmente la mente familiarizza con i diversi tempi e non sarà
più necessario affidarsi al polso”.
E Leopold Mozart, in quello stesso periodo, andò perfino più in là. Per
lui, riconoscere il tempo appropriato in base all’esperienza, e non con l’uso
di un dispositivo tecnico, era il segno distintivo di un vero musicista.
“Questo è molto interessante – disse Mohammed con un sorriso malizioso –
Vieni, prendi il tuo tamburo e proviamo a riflettere sul concetto di velocità
con l’aiuto di Abla. Tu suoni un ritmo semplice e lei proverà a danzare. Guarda
però se riesci a tenere il tempo con l’aiuto del metronomo”.
Così ho aggiustato il ritmo del metronomo su 60 minime al minuto e ho
iniziato a suonare. Mi sono accorto subito che qualcosa non funzionava. Abla
danzava, ma non era a suo agio. Aveva difficoltà a seguire i miei
tambureggiamenti. Il suono e la danzatrice non si armonizzavano.
“Stop – Mohammed gridava – Stai sbagliando”.
“Sì – gli risposi – lo so”. Avevo paura che Abla stesse cominciando a
odiarmi. “Devo suonare più lento o più veloce?”
“No – disse Mohammed – non devi suonare più lentamente o più rapidamente, devi
suonare bene. Lo so che seguire quell’attrezzo è il modo di suonare
con precisione, ma è anche il modo per sbagliare sempre. Non può esserci
accordo fra te e Abla finché ti rapporti con lei dal punto di vista del
metronomo. Se ho compreso bene, Matthias, è proprio questo ciò che hanno in
mente le persone della conferenza di Amsterdam quando ragionano sulla velocità
della società. Prova di nuovo senza il metronomo e concentrati solo su Abla”.
Così ho di nuovo preso il mio tamburo e ho cominciato a suonare. Non è
stato facile, ma dopo un po’ e con l’aiuto di Abla ho trovato il solco giusto e
il tempo appropriato; funzionava.
“Penso di avercela fatta” – ho detto a Mohammed con un po’ di orgoglio
nella voce.
“Sì – ha detto lui – se continui a fare esercizio impegnandoti per altri
dieci o dodici anni, potresti farcela davvero”.
Si stava facendo tardi e Abla e Mohammed dovevano andarsene.
“Mohammed, – dissi – devo ancora capire cosa raccontare a quelle persone ad
Amsterdam”.
“Bene – disse Mohammed – prova a parlare loro della velocità dal punto di
vista di un percussionista di danza del ventre”.
Prigionieri della velocità - Ivan
Illich
La storia della velocità è un argomento negletto. Quando il poeta inglese
John Milton augurava “Che Iddio faccia veloci te e i tuoi cari!” (God
speed thee and thy close!), “to speed” significava “prosperare” e
non “andare veloce”. Oggi siamo imprigionati nell’era della velocità. Il nostro
senso comune ci dice che una qualche idea dello “spazio nel tempo” e, più
generalmente, del “processo correlato con il tempo” fa parte di tutte le
culture. Mi accollo quindi il compito di scuotere il senso comune. Che l’idea
della velocità fosse importante per Aristotele, Archimede o Alberto il Grande è
soltanto un pregiudizio, una distorsione proiettata sul passato. Fino al
diciassettesimo secolo, infatti, il commercio, la medicina o l’architettura
prosperavano senza alcuna preoccupazione per la velocità. E così la musica, la
caccia o la pesca. La velocità è un fenomeno specifico della nostra epoca.
Il concetto di velocità è sicuramente storico. La riflessione sul tema è
iniziata soltanto nel tardo medioevo anche se poi, poco a poco, è arrivata a
contribuire in maniera decisiva all’era delle macchine e dei motori. Tuttavia,
oggi l’epoca storica della velocità è alle nostre spalle. In questo periodo l’homo
technologicus è stato ossessionato dall’esperienza della velocità:
dalla casa alla fabbrica, attraverso le scuole e i mestieri, dal lavoro alla
vacanza, soffrendo sempre di mancanza di tempo con orari stretti scanditi
dall’orologio. La differente fretta modella il nostro carattere.
Avere ancora fretta, oggi, è un marchio di privilegio, il segno che non
siamo ancora stati costretti a passare dalla cultura della scarsità del tempo
alla nuova era dell’elettronica e della disoccupazione. I battiti per minuto e
la forza lavoro sono stati eclissati dai bit. Le trasformazioni del modo di
produrre, che si è trasferito dagli impiegati ai computer, dall’aula a
internet, dagli impiegati di banca alle carte di credito, non ci hanno
preparato a questa nuova cultura, l’età del megahertz basata sulla velocità
della luce. Nella nuova epoca, che è anche quella della “costante C”, quella
della velocità della luce, i processi in tempo reale simulano l’onnipresenza globale
e sul serio ci portano elettronicamente da qui a lì. Ma la pratica
dell’intermediazione, quella che aveva nutrito la dipendenza da velocità
dell’uomo moderno, è sparita.
Ecco la mia convinzione. Chiamatela intuizione o preconcetto, oppure
prendetela come la semplice ipotesi di un estraneo: l’età della velocità ha
avuto un inizio, ma ora ne parliamo come storia perché siamo testimoni della
sua fine. Reso outsider da questa convinzione, parlo a un’assemblea di
professionisti che cercano metodi per incorporare la velocità nelle dimensioni
cruciali del design. In questo sontuoso teatro, assisto a una conversazione
sulla velocità desiderabile per l’esistenza umana; a una profonda ricerca sulle
richieste morali indirizzate ai designer da parte di autoproclamati slobbies (slow
is better, lento è meglio), i quali invocano un progetto di decelerazione;
pianificatori che discutono su velocità alta e bassa, rapida e lenta,
sopportabile e distruttiva. Tutti professionisti autoimprigionati nella
certezza che la velocità avvolga tutto, e che necessiti soltanto di essere
controllata. È la velocità che conta per loro, che conta quanto la durata della
pena per il carcerato.
Il messaggio del Gulag
Mentre ruminavo su questa fissazione, mi sono ricordato di una conferenza a
Oslo l’anno scorso, organizzata dal criminologo Nils Christie (quello che
scrive sui gulag di stile occidentale) alla Northern Academy of Science. In
tutte le giurisdizioni politiche, oggi, il gulag cresce a un ritmo più veloce
di altre istituzioni di welfare. A quell’incontro parteciparono i capi dei
sistemi penitenziari di 14 paesi, dal generale che gestisce le carceri russe al
Federal Commissioner of Corrections degli Stati Uniti. Tema: i
freni che bisogna mettere a questa crescita. Ascoltai per tre giorni le
relazioni da ciascun paese, e infine condussi la tavola rotonda finale.
Fui impressionato dall’unanimità fra questi guardiani capi. Ogni relazione
sottolineava che le prigioni non realizzano alcuno dei loro scopi: non
prevengono i reati, non correggono le tendenze o il comportamento, e neanche
puniscono, per la soddisfazione delle vittime dei prigionieri. Tutti i capi
delle prigioni erano d’accordo sull’inutilità delle stesse e ciononostante
tutti chiedevano più fondi per migliorare il loro lavoro.
Il mio compito era riassumere. Christie voleva che collocassi questo enigma
in un quadro storico. Per caso conosco i libri medievali sui doveri dei
signori. Ai princìpi cristiani era proibito punire confinando i prigionieri
nelle torri dei loro castelli: e allora le usavano per custodirli fino alla
pubblica esecuzione, alla tortura o alla mutilazione. Ma come spiegare che
tutte le società moderne effettuano costosi investimenti per prigioni la cui
inefficacia è stata provata riguardo a tutti gli scopi a esse assegnate? Come
spiegare la disponibilità di criminologi, politici e contribuenti a finanziare
il costoso lavoro dei secondini? Come comprendere la ragione dell’irragionevole
certezza che i gulag devono continuare a esistere?
Per rispondere a queste domande, bisogna prima determinare gli effetti del
gulag. Il gulag è controproducente, se lo si giudica rispetto agli scopi
ufficiali della prigionia. È evidente che quest’istituzione ha il risultato
opposto rispetto a quello desiderato. Ma esaminiamo che cosa dice il gulag,
considerandolo non come un mezzo ma come un segno: un segno più per quelli
disposti a pagarne i costi, che per coloro i quali sono rinchiusi lì dentro:
prigionieri e guardiani. Bisogna scoprire ciò che il gulag dice a quelli che lo
finanziano, scoprire perché sono bloccati dal bisogno di perpetuarlo. Ogni
notizia in arrivo dal gulag dice loro: siete liberi! Contrariamente a quelli
che sono dentro per scontare una pena, voi siete fuori, e dovete assaporare la
libertà! Siete liberi, anche se dovete alzarvi al suono della sveglia e
combattere costantemente contro l’orologio. Stando fuori di prigione, potete
usufruire di più ampie opportunità, potete scegliere fra molte offerte, ma solo
se tramutate la sete in desiderio di una Coca Cola… o di una Pepsi.
Dimenticatevi l’acqua, perché quella del rubinetto fa male. Insomma, si gode
della scelta fra un assortimento di alternative molto più ampio di quello dei
carcerati. Il gulag vi dice: “Scegli ciò che preferisci!”
A Oslo avevo di fronte fornitori di prigioni, al tempo stesso consci della
controproduttività del gulag ma anche amministratori dedicati al suo sviluppo
quantitativo e al miglioramento qualitativo. A quale tipo di assemblea potevo
paragonarli? Li definii cardinali, ma in realtà pensavo a sciamani durante una
danza della pioggia. Lo sciamano prepara la danza annuale che dev’essere
celebrata nel villaggio, ma possiede anche l’autorità di spiegare perché la
pioggia non arriva, nonostante la cerimonia. Non piove perché qualcuno non si è
impegnato al massimo durante la danza.
I sociologi utilizzano la danza della pioggia come termine tecnico per un
rito che crea il mito, un evento mitopoietico che genera una credenza e
conferma un dogma sociale. Max Gluckman parla di queste cerimonie come di un modello
sociale che acceca tutti i partecipanti (sia sacerdoti sia fedeli) nella
contraddizione fra l’obiettivo asserito del rito e i suoi effetti. La liturgia
dovrebbe produrre pioggia, ma in realtà produce soltanto il bisogno della
danza.
Per anni ho esaminato le grandi istituzioni di servizio delle società
moderne, non solo per ciò che fanno, ma anche per ciò che dicono; non come
agenzie produttive, ma come riti produttori di miti. Sono ostile alla scuola
obbligatoria, per esempio, perché la vedo come una danza della pioggia
celebrata in nome dell’uguaglianza, ma che in realtà fornisce alla società
soltanto la certezza che la scuola deve esistere. Analizzandone i risultati
concreti, infatti, si individua soltanto la selezione di dodici livelli di
bocciati, uno all’anno. Similarmente, i criminologi moderni sostengono le
carceri, e perfino la pena capitale, sostengono la sovranità dello Stato basata
sul bisogno di un’agenzia che definisca i crimini e punisca i criminali. Oggi
desidero sottolineare la funzione rituale, di cerimonia creatrice di miti, del
design.
I designer come sciamani
I designer sono un tipo assai speciale di sciamano. Non celebrano la
liturgia: la disegnano. Non governano le enclave, ma consigliano
coloro che le costituiscono. Non sono la progenie di calzolai e muratori, ma i
discendenti di un frutto del genio rinascimentale: il disegno. Sono esperti
nell’integrazione deliberata e riflessa di artefatti vari; sorgenti di una
nuova composizione che distingue il barocco dal gotico.
Tuttavia, i designer non forniscono soltanto la forma dell’integrazione, ma
inevitabilmente diffondono i princìpi guida ai quali devono sottomettersi gli
elementi di un tutto. Sia la carrozzeria di un’automobile che l’umile maniglia
di una porta impongono ergonomia: stuzzicano e attraggono il vostro sedere e la
vostra mano. Per mezzo secolo l’ergonomia (oggetti disegnati per adattarsi al
corpo) è stato un imperativo imposto dai designer. Ma il nuovo dato messo
all’ordine del giorno, la velocità, ha il potere di liberare dal corpo:
disincarna la percezione del falco esattamente come una sonata di Ludwig Van
Beethoven.
Per decadi il design ha fatto propaganda alla velocità, il più delle volte
in modo surrettizio e acritico. Più veloce sembrava meglio. Adesso volete
inaugurare una nuova era con lo slogan che l’andatura lenta può essere bella, e
quella appropriata ottima. Volete aprire un’epoca di profonda consapevolezza
della velocità, e promuoverla per mezzo del design. Desiderate un design che
inneggi agli slobbies postmoderni: persone slower but
better working che proteggono puntigliosamente il loro ritmo
tranquillo.
Nel ventesimo secolo la ricerca dell’alta velocità privilegia una minoranza
e consuma il tempo della maggioranza. Il “Fly & Drive” non è certo
alla portata di tutti, ma tutti devono affrontare le distanze create dai
veicoli veloci. È dal 1970 che ci vendono modelli industriali di sedie o di
caffettiere dalla forma aerodinamica. La suggestione delle velocità significava
trovarsi al passo con i tempi, e l’alta velocità sembrava seducente quanto
l’ultima moda femminile. Ma quel che ora proponete va perfino oltre: voi date
per scontato che tutto trasudi velocità, la velocità che volete controllare. E
ciò non può che confermare l’onnipresenza e l’onnipotenza di questa droga che
assuefà.
Sì, è un nuovo tipo di droga, una chimera sconosciuta prima di Galileo
Galilei, e alla quale era difficile credere anche un secolo dopo la sua morte:
l’idea di s/t, spazio/tempo. Nessuno all’epoca afferrava questa fusione di
spazio e tempo. Quella mozione del movimento non faceva parte del loro mondo:
un mondo centrato su ogni singola persona e disteso di fronte a ciascuno,
pronto a essere percorso passo dopo passo. Un mondo in cui gli alberghi erano
collocati alla distanza di un giorno di viaggio l’uno dall’altro, in cui dodici
ore dovevano trascorrere dalla mattina alla sera, in inverno come in estate, e
in cui l’unità di misura era il piede. L’allargamento dell’esperienza non
poteva stare in una frazione sopra il tempo vissuto.
I primi uomini che viaggiarono in treno furono terrorizzati dalla velocità.
Capirono che il treno, accelerando nel mondo, aveva bisogno di una nuova
parola: così adottarono il termine landscape (paesaggio) per
definire i posti che vedevano scorrere dal finestrino dello scompartimento,
senza posarci il piede. Gli orari dei treni hanno introdotto il minuto nella
società, scandendo il tempo dei passeggeri con il rumore del motore. La
velocità ha sostituito il ritmo con un rumore cadenzato. Voi ora volete attenuare
questo trasferimento. Io invece esploro le zone di esperienza trascurate e
senza velocità. Non cerchiamo una fuga dalla prigione dell’alta velocità verso
un mondo di repressioni meno seccanti; domandiamo se e dove l’ombra della
velocità può essere evitata del tutto.
Quando cantiamo o suoniamo musica dal vivo, la velocità si attenua. Non ci
stringe nella sua presa, e noi non sentiamo il bisogno di controllarla. È il
ritmo a prendere il sopravvento. Quando leggo gli esametri entro nella loro
cadenza, perché so bene che il ritmo è stato imposto alla poesia antica
soltanto dopo il 1630 da studiosi zelanti. La velocità è in conflitto con la
vita.
Per gente come noi, la velocità è un crudo esempio di congerie storica
gratuitamente attribuita alla natura. Viene fuori da una brama senza corpo che
giace più in profondità rispetto alle principali fondamenta del mondo moderno:
il bisogno di un adeguato trattamento istituzionale per il crimine,
l’istruzione, la corsa alla ricchezza, le assicurazioni.
L’odierno Pantheon è abitato da questi dei, che governano il mondo moderno.
Ma la velocità si trova in una zona oscura al di sotto di essi, dove i greci
mettevano i titani, creature potenti che facevano nascere le divinità.
Per quanto riguarda la velocità, mi sento nichilista. Quando Galileo
propose di studiare l’attrazione gravitazionale su un piano inclinato, e
Keplero la applicò per calcolare il movimento delle sfere celesti su
traiettorie ellittiche, rivoluzionarono la fisica. Meravigliarono i loro
contemporanei proprio come è capitato ai fisici quantistici 300 anni più tardi.
Dovevano liberare il ticchettio del tempo dal flusso della temporalità, e
staccare lo spazio astratto dal qui e ora, mentre noi cerchiamo soltanto di
goderci la vita con i nostri amici. Ho cercato di vivere come un pellegrino,
facendo un passo dopo l’altro, entrando nel mio tempo, vivendo all’interno del
mio orizzonte, che spero di raggiungere sempre con il passo, il sorprendente
passo, che si compie per morire.
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