Grazie per il quadro, Marisa, ci ho messo sopra un vetro. L'uomo dipinto con il balzo datogli dalla terra! (Sono arrivato a preferire le figure maschili a quelle femminili perché quei corpi hanno in qualche modo più bisogno di essere disegnati, visto che si è sgretolato un ideale). L’uomo da te dipinto, e intorno a lui gli orizzonti, e accanto a lui, il vero, non dipinto, lichene che ha resistito alla siccità e a ogni temperatura estrema per milioni di anni. Lichene primordiale, petali, piume - li tieni tra le pagine e ne tiri fuori uno, come un biglietto da un borsellino, ogni volta che dipingi un viaggio. Io? Io sono a Parigi, alla più grande mostra di Brancusi mai realizzata. Niente licheni qui, né piume, né pruriti. È quasi tutto lucido epuro. Mi pare, Marisa, di aver visitato il suo studio di Impasse Ronsin subito dopo la sua morte, nel 1957. Ero con un amico - forse con Zadkine, che era anche un suo amico. Ricordo il nome BRANCUSI scarabocchiato sulla porta e di fianco, appeso, un ferro di cavallo; in alto i lucernari, la morsa sul bancone e le sculture e i famosi piedistalli intagliati e le parti della sua Colonna senza fine, tutti ammassati ma senza fare a gomitate, ogni lavoro platonicamente a braccetto con il proprio vicino.
Ricordo in particolare la presenza benevola dell’uomo che era appena stato
sepolto nel cimitero di Montparnasse. Lo studio mi sembrava un panificio con i
forni ancora caldi, da dove il fornaio era appena uscito per scendere al fiume.
Ma è tutto vero? Ero proprio lì o me lo sono inventato, frutto della mia
immaginazione influenzata da tutte quelle foto abbaglianti e misteriose che
scattò nel suo studio o da una visita che feci allo studio ristrutturato e che
venne in seguito trasformato in museo? (Molte di quelle foto sono alla
splendida mostra Pompidou). Oggi non c’è nessuno con cui poter verificare.
Eppure il dubbio è legittimo, dato che Brancusi aveva l’imbarazzante dono di
essere completamente se stesso e, insieme, sempre sfuggevole. (Aveva sette anni
quando scappò per la prima volta di casa, nei Carpazi). Io non scolpisco
uccelli, disse una volta, ma il volo. Vestiva come un contadino russo, eppure
il suo amico Marcel Duchamp, nel 1920, vendette le sculture di Brancusi a collezionisti
d’avanguardia negli Usa, dove venivano considerate come splendidi emblemi
dell’era moderna. Le sue prime sculture di uccelli s’ispiravano all’uccello
mitologico delle foreste romene, chiamato Maiastra. Quando da Bucarest arrivò a
Parigi, nel 1904, fece gran parte del viaggio a piedi. Nonostante ciò il suo
ultimo uccello, che risale agli anni ’30, già profetizzava la forma del jet
Concorde!
I suoi disegni, quando li guardo, hanno l’aria di essere delle cartine, ed è
strano per uno scultore. I contorni non creano forme ma tracciano semplicemente
confini che possono essere attraversati. Andare via, lasciare, è tutta la sua
opera. Soprattutto lasciare la terra per il cielo, come nell’intenzione delle
sue Colonne senza fine.
E mentre sono qui, Marisa, voglio improvvisamente resistere. Penso a una delle
tue piume che cade sulla terra. Forse amo troppo l’imperfetto e il difettoso.
Voglio scoprire come si giudica il furfante. Lui resta un grande, è ovvio, ma
noi potremmo conoscere qualcosa in più sul suo dolore.
Alla mostra c’è un’opera dal titolo Scultura per ciechi. È un ovale, in marmo,
che poggia sul lato, pressapoco delle dimensioni di un uovo di struzzo, ma non
così simmetrico.
Immagina che un cieco lo raccolga, affascinato, cominci a sentirlo, con la
punta delle dita. Questa lieve sporgenza è al posto di un naso? E questo dolce
incavo sta diventando un’orbita? E qui, dov’è un po’ ruvido, non potrebbe
essere l’attaccatura dei capelli? Dopo qualche istante lo rigira e inizia a
toccarlo per scoprire se c’è una crepa, come con un uovo di Pasqua che si apre.
Alla fine si chiederà: questa cosa che reggo in mano è un contenitore o un
cuore? Chissà se c’è una testa all’interno, oppure se è una testa che sta
prendendo corpo?
Ebbene, questa scultura fa parte di una lunga serie di teste ovali orizzontali
create fra il 1910 e il 1928. Alcune le chiamò La Musa addormentata, Il
Neonato, L’Inizio del mondo, Primo grido, Prometeo. Naturalmente Brancusi le
pensò come nuclei, non come contenitori.
E si sforzò per lo stesso risultato in tutte le sue sculture lucide: gli
uccelli, i pesci, le principesse. Ogni volta, quando lavorava, voleva tornare
indietro - eliminando tutte le imperfezioni, i logorii - al punto di
accrescimento della prima Creazione, all’idea pura mentre prende corpo.
Platonico, ancora una volta. Il fatto che passasse mesi a lucidare i suoi
lavori era parte integrante di quel viaggio di ritorno al puro, a ciò che
esisteva prima della gravità e della Caduta.
Il furfante intraprese l’assurda sfida dell’impiego di materiali pesanti e
grezzi, quali il marmo, il bronzo e la quercia. A volte vinse, altre perse. In
quest’ultimo caso l’opera lucidata rimane una custodia, un contenitore e non
diventa il cuore. Quando invece riesce nell’intento, l’intero materiale viene
trasformato dal movimento che lui, miracolosamente, è capace di conferirgli.
Nel caso del grosso e piatto Pesce, il marmo diviene acqua.
Vi è riuscito con quasi tutti gli uccelli e i pesci, e anche con le teste
ovali; ma con i pinguini, le testuggini, i torsi, Leda e le donne eleganti, no.
Questi rimangono contenitori: conchiglie nella migliore delle ipotesi, serbatoi
da motocicletta personalizzati, nella peggiore. (È ovvio che non mi
dispiacerebbe averne uno sulla mia moto).
La famosa storia di come, nel 1927, i doganieri americani tassarono una delle
sculture di Brancusi perché considerata non un’opera d’arte, bensì un utensile,
viene spesso ripresa come esempio di filisteismo burocratico. A me pare che
quell’errore colossale sia piuttosto comprensibile e non così stupido come
viene giudicato.
Penso che il vecchio artista, nel suo isolamento, sentisse il problema dei
contenitori, e se negli ultimi vent’anni non fece praticamente nulla di nuovo,
lo si deve al fatto che si rese conto di aver già trovato tutto ciò che gli era
dato di trovare. Del resto non ci sono poi così tanti cuori, e l’infinita
molteplicità di piume, foglie, cortecce e pelli, non lo interessava.
Con una eccezione. L’eccezione che rappresenta la sua più sbalorditiva
invenzione: Il Bacio. Il primo lo realizzò nel 1907 e continuò a farne fino al
1940. Questo è il tema ricorrente della sua opera, una controparte
dell’uccello. Tutti i Baci sono in pietra grezza, neanche uno lucidato né
platonico.
Tutte le versioni mostrano una coppia abbracciata ricavata da un singolo blocco
di pietra che rimane molto rettangolare, come un pilastro. I loro occhi, visti
di profilo, ne formano uno solo; le loro quattro labbra, un’unica bocca. Una
linea leggera segna il confine delle loro pelli premute assieme. La superficie
più esterna del blocco accoglie le quattro braccia avviluppanti e terminano
nelle mani, appena schiuse, che premono i corpi all’interno, petto contro
petto.
La pietra, ora, non deve trascendere la sua natura materiale; rimane legata alla
terra, Marisa, è parte dello stesso mondo di licheni, muschi e piume. E
nonostante siano opere riconoscibili dell’autore, quelle coppie aspirano a
qualcosa di molto differente dal resto del suo lavoro. Di fronte a esse ci si
imbatte in ciò che venne dopo, e non prima, della Caduta. Quelle coppie
tarchiate stanno da questa parte, dalla nostra parte, in tutto il nostro solito
scompiglio. Non cercano la perfezione, ma vogliono semplicemente essere un po’
più complete. Ogni tanto, con i Baci, il vecchio mascalzone intervallava nella
pietra una sofferenza: la sofferenza per un desiderio di un'unità perduta. Che
è il motivo per cui ci baciamo, no? Grazie ancora, Marisa, per l'uomo e per il
lichene attaccato al foglio grezzo...
[In«Linea d’ombra», n. 11, gennaio 1996. Traduzione di Leonardo Deho].
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