mercoledì 4 gennaio 2023

La psichiatria non è un’isola - Ugo Zamburru

  

Leggo nel preambolo dello statuto di “Volere la luna”: «Essere rivoluzionari oggi significa proporsi quello che può sembrare impossibile a molti, ma che in realtà dovrebbe essere normale: cambiare radicalmente il proprio modo di essere, di pensare, agire, cooperare e aggregarsi, tenendo fermi i valori di riferimento di un solidarismo radicale. Il mondo è cambiato, è ora di cambiare noi stessi. E il nostro modo di stare insieme. A cominciare da tre obiettivi primari: contrastare le diseguaglianze, promuovere ma soprattutto praticare forme di partecipazione solidale, favorire la rinascita di un pensiero libero e critico. Cioè non limitarsi a proclamare i propri valori, ma praticarli concretamente, con azioni positive quotidiane, creazione di occasioni di prossimità, di spazi, anche limitati, di relazione, di strumenti di comunicazione aperti e critici».

Mi viene spontaneo intrecciare questa impostazione con la mia riflessione e la mia esperienza di psichiatra (e non solo). Parafraso il movimento zapatista delle montagne del sud est messicano: «Gli zapatisti fanno quello che dicono e dicono quello che fanno!». E ricordo Oscar Olivera, boliviano difensore dell’acqua pubblica in Cochabamba contro una speculazione che ha causato morti e feriti: «Per voi la politica è l’arte del governare, per noi quella di trovare nuove forme di relazione degli uomini tra di loro e degli uomini con la natura»; oppure: «È importante avere uno spazio in cui incontrarsi, uno spazio dove condividere il quotidiano e in cui creare quel clima che può portarci a far soffiare il vento del cambiamento».

E vengo ad alcune esperienze personali, vissute non tanto nella mia attività professionale di psichiatra (su cui ho già riportato il mio pensiero nel Piccolo manuale di sopravvivenza in psichiatria, scritto con Angela Spalatro per le Edizioni Gruppo Abele), quanto in quella di militante dei diritti umani in Messico e in Tunisia. Anche se i due aspetti si intrecciano e ricordo sempre la triade cognitiva del sapere: sapere, saper fare e saper essere.

Il mio bagaglio professionale non avrebbe potuto avere contributi migliori dalle visite domiciliari, dall’incontro con la povertà, con le diseguaglianze, con le ingiustizie, con la violenza del nostro modello neoliberista. Ma questo mio girovagare mi ha portato a incontri fecondi come quello con le vittime argentine di tortura, con le Madres argentine de Plaza de Mayo, con le madri messicane e mesoamericane in cerca dei figli scomparsi nel viaggio verso il sogno americano piuttosto che con le madri maghrebine e sub sahariane che vivono lo stesso dolorosissimo travaglio. Madri e familiari che mi hanno insegnato il valore della dignità ribelle, che nel nome della solidarietà e della reciprocità trasforma l’impotenza, il dolore e la rabbia che da livello individuale si fondono in una ricerca collettiva che non è soltanto più la sola ricerca del proprio caro, ma lotta comune per cambiare questo mondo ingiusto che provoca milioni di persone in cammino per sfuggire a guerre, persecuzioni, cataclismi naturali, violenze che come matrice comune hanno il desiderio di trasformare il nostro pianeta e i suoi abitanti in merce in cui si è perso il senso del bene comune.

Nella Primera brigada internacional de busqueda che si è svolta dal 16 febbraio al 26 marzo di quest’anno in Messico, da Nogales (nello stato di Sonora) a Tijuana (nella stato della Baja California), ho partecipato alla ricerca, da parte di quasi 200 familiari, dei 200.000 scomparsi nel viaggio della speranza verso gli Stati Uniti. Un viaggio di 3000 chilometri in cui incontrare gente, rendere visibile il problema, fare pressione sulle autorità, chiedere giustizia. Non solo giustizia, ma anche memoria e verità! Non mi dilungo a raccontare questa per me incredibile esperienza. Mi fermo, piuttosto, per fare il punto sulla domanda che sempre viene rivolta, sia a noi attivisti sia soprattutto ai familiari: «Ma cosa avete ottenuto?», sottendendo che le cose non cambiano e non cambieranno… Abbiamo ottenuto un paio di risultati concreti: 29 corpi recuperati e identificatiti nelle fosse clandestine rintracciate nel deserto grazie a un lavoro incessante; quattro recuperati in vita in condizioni drammatiche e restituiti alle famiglie; una serie di tracce per continuare il lavoro di ricerca, che non si è esaurito certo in questa carovana. E a chi mi dice che senso abbia recuperare dei cadaveri, spesso solo dei resti che vengono identificati dagli antropologi forensi che ci accompagnano, rispondo con le parole delle madri, che con un sorriso in mezzo alle lacrime ti spiegano il sollievo pur doloroso di sapere infine che fine ha fatto il loro caro. Perché non c’è nulla di più angoscioso dell’eterna attesa senza sapere nulla e perché avere una tomba sulla quale piangere è parte imprescindibile dell’elaborazione del lutto. Alcune donne, sapendo che sono uno psichiatra, mi hanno chiesto consigli sugli psicofarmaci che assumevano, in particolare antidepressivi e ansiolitici. Nessuna di loro aveva trovato benefici, più spesso effetti collaterali.

Spinto da questa considerazione e ricordando analoga esperienza in Tunisia nell’aprile del 2019 durante una carovana organizzata da Carovane migranti, in cui avevo incontrato analoghe situazioni, mi sono interrogato sul ruolo della concezione attuale della psichiatria. Con una suora brasiliana, hermana Nyzelle, che lavora su questo tema in Honduras (uno dei paesi più violenti del mondo) abbiamo fatto un questionario a 39 familiari. Di questi solo quattro si erano rivolti a uno psichiatra, assumendo psicofarmaci. Gli altri citavano come fattori “terapeutici” l’essersi riuniti in gruppi locali, nazionali e internazionali in cui condividere il dolore, denunciare l’accaduto e attraverso la ricerca della verità, della memoria e della giustizia dare senso, nel nome della solidarietà e della reciprocità, a quel che senso sembra non avere.

Ritorno a una vecchia esperienza che ho più volte raccontato: chiamato anni fa in consulenza in pronto soccorso per una minaccia di suicidio incontrai un operaio sui 50 anni, che mi raccontò di essere disperato perché stava finendo la cassa integrazione e non riusciva a trovare lavoro, tutti gli dicevano che aveva troppa esperienza e costava troppo, meglio assumere un giovane, magari con contratto di apprendistato. Anche il rapporto con la moglie, che lo aveva sempre sostenuto, era contaminato dallo spettro della disoccupazione, con l’angoscia di due figli che stavano frequentando l’università e che non sapeva come poter mantenere in futuro. Cosa posso fare, vogliono che mi ammazzi così tolgo il disturbo, aveva concluso. Avrei potuto dargli un antidepressivo, magari un ansiolitico, ma non era la soluzione. Quell’uomo era disperato, arrabbiato e triste, non certamente affetto da sindrome depressiva. Il primo passo fu la richiesta del medico di turno che mi chiese quale diagnosi segnare per la dimissione, io risposi “disoccupazione” al che lei mi fece notare che non era presente negli algoritmi e nei protocolli. Ci accordammo su un generico “crisi di angoscia legata alla disoccupazione incipiente” e fu il primo passo.

L’episodio di questo signore e quello delle madri di cui sopra mi hanno spinto a una riflessione sul ruolo della psichiatria che non può liquidare una situazione complessa con una diagnosi semplicistica e banalizzante. Se usiamo la lente della psichiatria rischiamo di patologizzare quello che è il risultato di un sistema economico criminale e disumanizzante, quello neoliberista. Se prescrivo un antidepressivo a quel signore cassa integrato o alle madri in cerca del figlio desaparecido, convinco queste persone di essere malate, con tutto quel che ne consegue. Se pongo il focus sul contesto, mi chiedo se è malato il cassaintegrato che a 54 anni è gettato via come una cosa inutile o se è malato un sistema in cui Valletta, amministratore delegato della Fiat negli anni ’60 guadagnava 30 volte lo stipendio di un operaio, mentre Marchionne, nello stesso ruolo ma negli anni 2000 guadagnava oltre 500 volte lo stipendio di un operaio! E allo stesso modo è malata una donna intristita per la scomparsa del figlio o è malata una società che produce migranti in fuga dalla povertà, dalle crisi climatiche, dalla violenza che servono ad arricchire le multinazionali e i paesi ricchi?

Non si possono creare i presupposti per incidere in maniera devastante sulla salute mentale e poi chiedere ai servizi di salute mentale, già in sofferenza, di occuparsene. Occorre uscire dalla logica binaria malattia/assenza di malattia esplorando territori complessi nel segno della partecipazione, della reciprocità, della solidarietà, delle soluzioni condivise.

da qui

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