Leggo nel preambolo dello statuto di “Volere la luna”: «Essere
rivoluzionari oggi significa proporsi quello che può sembrare impossibile a
molti, ma che in realtà dovrebbe essere normale: cambiare radicalmente il
proprio modo di essere, di pensare, agire, cooperare e aggregarsi, tenendo
fermi i valori di riferimento di un solidarismo radicale. Il mondo è cambiato,
è ora di cambiare noi stessi. E il nostro modo di stare insieme. A cominciare
da tre obiettivi primari: contrastare le diseguaglianze, promuovere ma
soprattutto praticare forme di partecipazione solidale, favorire la rinascita
di un pensiero libero e critico. Cioè non limitarsi a proclamare i propri
valori, ma praticarli concretamente, con azioni positive quotidiane, creazione
di occasioni di prossimità, di spazi, anche limitati, di relazione, di
strumenti di comunicazione aperti e critici».
Mi viene spontaneo intrecciare questa impostazione con la mia riflessione e
la mia esperienza di psichiatra (e non solo). Parafraso il movimento
zapatista delle montagne del sud est messicano: «Gli zapatisti fanno
quello che dicono e dicono quello che fanno!». E ricordo Oscar Olivera,
boliviano difensore dell’acqua pubblica in Cochabamba contro una speculazione
che ha causato morti e feriti: «Per voi la politica è l’arte del
governare, per noi quella di trovare nuove forme di relazione degli uomini tra
di loro e degli uomini con la natura»; oppure: «È importante avere
uno spazio in cui incontrarsi, uno spazio dove condividere il quotidiano e in
cui creare quel clima che può portarci a far soffiare il vento del
cambiamento».
E vengo ad alcune esperienze personali, vissute non tanto nella mia
attività professionale di psichiatra (su cui ho già riportato il mio pensiero
nel Piccolo manuale di sopravvivenza in psichiatria, scritto con
Angela Spalatro per le Edizioni Gruppo Abele), quanto in quella di militante
dei diritti umani in Messico e in Tunisia. Anche se i due aspetti si
intrecciano e ricordo sempre la triade cognitiva del sapere: sapere, saper fare
e saper essere.
Il mio bagaglio professionale non avrebbe potuto avere contributi migliori
dalle visite domiciliari, dall’incontro con la povertà, con le diseguaglianze,
con le ingiustizie, con la violenza del nostro modello neoliberista. Ma questo mio
girovagare mi ha portato a incontri fecondi come quello con le vittime
argentine di tortura, con le Madres argentine de Plaza de Mayo, con le madri
messicane e mesoamericane in cerca dei figli scomparsi nel viaggio verso il
sogno americano piuttosto che con le madri maghrebine e sub sahariane che
vivono lo stesso dolorosissimo travaglio. Madri e familiari che mi hanno
insegnato il valore della dignità ribelle, che nel nome della
solidarietà e della reciprocità trasforma l’impotenza, il dolore e la rabbia che
da livello individuale si fondono in una ricerca collettiva che non è soltanto
più la sola ricerca del proprio caro, ma lotta comune per cambiare
questo mondo ingiusto che provoca milioni di persone in cammino per sfuggire a
guerre, persecuzioni, cataclismi naturali, violenze che come matrice comune
hanno il desiderio di trasformare il nostro pianeta e i suoi abitanti in merce in
cui si è perso il senso del bene comune.
Nella Primera brigada internacional de busqueda che si è
svolta dal 16 febbraio al 26 marzo di quest’anno in Messico, da Nogales (nello
stato di Sonora) a Tijuana (nella stato della Baja California), ho partecipato
alla ricerca, da parte di quasi 200 familiari, dei 200.000 scomparsi nel
viaggio della speranza verso gli Stati Uniti. Un viaggio di 3000 chilometri in
cui incontrare gente, rendere visibile il problema, fare pressione sulle
autorità, chiedere giustizia. Non solo giustizia, ma anche memoria e verità!
Non mi dilungo a raccontare questa per me incredibile esperienza. Mi fermo,
piuttosto, per fare il punto sulla domanda che sempre viene rivolta, sia a noi
attivisti sia soprattutto ai familiari: «Ma cosa avete ottenuto?», sottendendo
che le cose non cambiano e non cambieranno… Abbiamo ottenuto un paio di
risultati concreti: 29 corpi recuperati e identificatiti nelle fosse
clandestine rintracciate nel deserto grazie a un lavoro incessante; quattro
recuperati in vita in condizioni drammatiche e restituiti alle famiglie;
una serie di tracce per continuare il lavoro di ricerca, che non si è esaurito
certo in questa carovana. E a chi mi dice che senso abbia recuperare dei
cadaveri, spesso solo dei resti che vengono identificati dagli antropologi
forensi che ci accompagnano, rispondo con le parole delle madri, che con un
sorriso in mezzo alle lacrime ti spiegano il sollievo pur doloroso di sapere
infine che fine ha fatto il loro caro. Perché non c’è nulla di più angoscioso
dell’eterna attesa senza sapere nulla e perché avere una tomba sulla quale
piangere è parte imprescindibile dell’elaborazione del lutto. Alcune
donne, sapendo che sono uno psichiatra, mi hanno chiesto consigli sugli
psicofarmaci che assumevano, in particolare antidepressivi e ansiolitici.
Nessuna di loro aveva trovato benefici, più spesso effetti collaterali.
Spinto da questa considerazione e ricordando analoga esperienza in Tunisia
nell’aprile del 2019 durante una carovana organizzata da Carovane migranti, in
cui avevo incontrato analoghe situazioni, mi sono interrogato sul ruolo della
concezione attuale della psichiatria. Con una suora brasiliana, hermana
Nyzelle, che lavora su questo tema in Honduras (uno dei paesi più violenti del
mondo) abbiamo fatto un questionario a 39 familiari. Di questi solo quattro si
erano rivolti a uno psichiatra, assumendo psicofarmaci. Gli altri citavano
come fattori “terapeutici” l’essersi riuniti in gruppi locali,
nazionali e internazionali in cui condividere il dolore, denunciare l’accaduto
e attraverso la ricerca della verità, della memoria e della giustizia dare
senso, nel nome della solidarietà e della reciprocità, a quel che senso sembra
non avere.
Ritorno a una vecchia esperienza che ho più volte raccontato: chiamato anni
fa in consulenza in pronto soccorso per una minaccia di suicidio incontrai un
operaio sui 50 anni, che mi raccontò di essere disperato perché stava
finendo la cassa integrazione e non riusciva a trovare lavoro, tutti gli
dicevano che aveva troppa esperienza e costava troppo, meglio assumere un
giovane, magari con contratto di apprendistato. Anche il rapporto con la
moglie, che lo aveva sempre sostenuto, era contaminato dallo spettro della
disoccupazione, con l’angoscia di due figli che stavano frequentando
l’università e che non sapeva come poter mantenere in futuro. Cosa posso fare,
vogliono che mi ammazzi così tolgo il disturbo, aveva concluso. Avrei potuto
dargli un antidepressivo, magari un ansiolitico, ma non era la soluzione.
Quell’uomo era disperato, arrabbiato e triste, non certamente affetto da
sindrome depressiva. Il primo passo fu la richiesta del medico di turno
che mi chiese quale diagnosi segnare per la dimissione, io risposi
“disoccupazione” al che lei mi fece notare che non era presente negli
algoritmi e nei protocolli. Ci accordammo su un generico “crisi di angoscia
legata alla disoccupazione incipiente” e fu il primo passo.
L’episodio di questo signore e quello delle madri di cui sopra mi hanno
spinto a una riflessione sul ruolo della psichiatria che non può
liquidare una situazione complessa con una diagnosi semplicistica e
banalizzante. Se usiamo la lente della psichiatria rischiamo di
patologizzare quello che è il risultato di un sistema economico criminale e
disumanizzante, quello neoliberista. Se prescrivo un antidepressivo a
quel signore cassa integrato o alle madri in cerca del figlio desaparecido,
convinco queste persone di essere malate, con tutto quel che ne consegue.
Se pongo il focus sul contesto, mi chiedo se è malato il cassaintegrato che a
54 anni è gettato via come una cosa inutile o se è malato un sistema in cui
Valletta, amministratore delegato della Fiat negli anni ’60 guadagnava 30 volte
lo stipendio di un operaio, mentre Marchionne, nello stesso ruolo ma negli anni
2000 guadagnava oltre 500 volte lo stipendio di un operaio! E allo stesso modo
è malata una donna intristita per la scomparsa del figlio o è malata una
società che produce migranti in fuga dalla povertà, dalle crisi climatiche,
dalla violenza che servono ad arricchire le multinazionali e i paesi ricchi?
Non si possono creare i presupposti per incidere in maniera devastante
sulla salute mentale e poi chiedere ai servizi di salute mentale, già in
sofferenza, di occuparsene. Occorre uscire dalla logica binaria malattia/assenza
di malattia esplorando territori complessi nel segno della partecipazione,
della reciprocità, della solidarietà, delle soluzioni condivise.
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