Le parole di sangue di Pino Roveredo, scrittore degli ultimi… - Francesca de Carolis
Un pensiero allo scrittore triestino che, da quando ne
ho conosciuto le pagine, ho sempre trovato straordinario. Pino Roveredo, che se
ne è andato nell’alba gelida e ventosa di sabato. Di lui leggerete dei
racconti, dei romanzi, dei testi teatrali, dei premi, del Campiello, della sua
vita “in salita”, spesso difficile fra traumi e dolore, che racconta con quel
misto di durezza e dolcezza di cui era capace ne “I ragazzi della via Pascoli”.
Tanto ci sarebbe da dire sui suoi libri (che tutti invito a leggere), sulla sua
vita, del suo occuparsi sempre del mondo degli ultimi, di chi vive ai margini…
è stato fra l’altro garante dei detenuti del Friuli-Venezia Giulia.
Ma oggi voglio ricordarlo per la generosità con la quale rispose a una cortesia
che mi permisi di chiedergli, sapendolo tanto sensibile ai problemi del mondo
carcerario.
Pino Roveredo l’ho conosciuto grazie a Monica Murru, avvocato, che sapeva del
mio progetto di fare qualcosa per Davide Emmanuello, detenuto da una ventina
d’anni e più, al 41-bis, di cui da un po’ di tempo seguivo le vicende. Di
Emmanuello avevo lettere, tante, scritte ad un amico in altro carcere, e che
questo di volta in volta mi girava. Lettere tremende… non potevano restare solo
il fascicolo sulla mia scrivania cui a tratti, nei mesi, continuavano ad
aggiungersi fogli… Ero alla ricerca di qualcuno che fosse in grado di ascoltare
davvero quest’urlo e, consigliata da Monica, alla fine le avevo spedite a
Roveredo che, certo, se ne sarebbe lasciato straziare.
E Pino all’urlo di quelle lettere ha risposto con le parole di sangue di cui è
capace. Come solo chi il carcere l’ha conosciuto e … “ho iniziato a occuparmi
degli altri, gli ultimi in classifica. Con grande egoismo, perché in verità ho
cominciato a farlo per occuparmi di me stesso”.
Emmanuello e Roveredo mai si sono fisicamente incontrati. Ma fra loro è nato un
dialogo che è diventato un libro che squarcia il velo dell’ipocrisia che
nasconde l’inferno del “regime di tortura del 41bis”. “Diversamente vivo,
lettere dal nulla del 41-bis”.
E nulla parla meglio della sua scrittura.
Aveva scritto, Pino (in “Ferro batte ferro”), uno straordinario atto d’accusa
contro una società che “ha bisogno di delinquenti su cui puntare il dito, per
sentirsi migliore. Il Sert ha bisogno dei tossici per dare un motivo alla sua
esistenza. Le rivendite alcoliche hanno bisogno degli alcolizzati per mantenersi
in vita. I tabaccai e il monopolio di Stato ha bisogno dei fumatori per
riempirsi le tasche con la disgrazia altrui”, raccontando della sua pur lontana
esperienza in carcere, e di come l’angoscia fu la sua salvezza…
E “fu proprio quell’angoscia a scuotermi e darmi la forza di mettere la testa
fuori dall’inferno carcerario, ed afferrare con una rabbia che non conoscevo…
la coda della vita”.
Pino che dedica a Emmanuello ancora parole di sangue, ma che pure con dolcezza,
come in un abbraccio, scrive:
“Se potessi, scavalcando le schiere rigide dei moralisti, forcaioli,
giustizieri, giustizialisti, salteri oltre i muri della costrizione, poi
entrerei nella galleria scura del 41bis, dove è vietato parlare, urlare,
vivere, e tirerei fuori dal mio desiderio l’invenzione di una chiave. La
infilerei nella serratura della porta blindata e con un giro di mano, libererei
il passaggio e mi concederei il piacere di un invito.
-Dai Davide, sbrigati che abbiamo solo un’ora di tempo! –
Se potessi lo prenderei per mano, e imbrogliandogli la misura stretta di un
passo che dura da più di vent’anni, gli farei indossare i passi larghi della
fretta e poi lo trascinerei oltre i cancelli, lungo i corridoi, fuori dal
portone.
Una volta fuori, gli regalerei un’ora di sole, gli farei respirare un’ora di
aria, quella che non sbatte tra le mura dei reclusi. Per un’ora lo guarderei
accarezzare un albero, baciare un fiore, sentire il profumo di una manciata di
terra, gli indicherei la direzione del volo delle rondini, la riga lontana dell’orizzonte,
e poi lo inciterei a liberare le gambe verso una corsa lunga sessanta minuti,
proprio come si faceva da bambini, andare, correre, fino a quando non ti
scoppiano i polmoni.
Ripeto, un’ora, non se ne accorgerebbe nessuno.
Dopo, giuro, che lo riporterei dentro la sua abituale castrazione, felice di
avergli dato, non un’ora di libertà, quanto la forza per lui sconosciuta di un
piccolo, minimo fiato di… umanità!”
E un abbraccio a Pino, ché la bellezza e la forza delle sue parole, contro ogni
ipocrisia, sempre ci accompagneranno…
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