Ottanta
giorni di sciopero della fame. Il caso Alfredo Cospito e «i buoni» - Wu Ming
Dopo decenni di «scioperi della fame» per modo di dire
– all’acqua di rose, meramente simbolici, spesso solo mediatici, annunciati
anche per questioni di dubbia rilevanza – non ci impressiona più sentire che
una persona è in sciopero della fame. Almeno dalle nostre parti, il
concetto è inflazionato, e una pessima informazione fa il resto.
La maggior parte di noi non si immagina com’è, un vero
sciopero della fame.
E allora bisogna farlo capire.
Ecco un paio di esempi, due vicende accadute qui in
Europa.
1. La storia e
il corpo di Holger Meins
Holger Klaus Meins, militante
della Rote Armee Fraktion, viene arrestato a Francoforte l’1 giugno 1972 e
messo in isolamento totale nel carcere di Coblenza. Tutte le celle intorno alla
sua sono vuote.
Nel gennaio 1973 Holger comincia il primo sciopero
della fame. Uno sciopero collettivo, dichiarato da tutti i membri della RAF
incarcerati e sospeso dopo cinque settimane.
Holger è trasferito nel carcere di Wittlich, dove nel
maggio 1973 riprende lo sciopero. Già magro di suo, non mangiando deperisce a
vista d’occhio. Dopo cinque settimane lo mettono in regime di alimentazione
forzata: due volte al giorno i secondini gli infilano un tubo in gola, come si
fa con le oche da foie gras, e gli pompano cibi liquidi nello
stomaco.
L’alimentazione forzata è una pratica violenta, che
induce nausea e senso di soffocamento, produce lacerazioni e infezioni nel cavo
orale e nell’esofago, e per il frequente contatto tra sangue, muco e pus può
causare malattie di vario genere. Non serve a salvarti, ma a prendere tempo.
Assicura il protrarsi di una nuda vita, e intanto ti devasta più
della fame.
Dopo altre due settimane, ancora una volta la RAF
sospende lo sciopero.
Il 13 settembre 1974 parte il terzo sciopero, a cui
aderisce una quarantina di detenute e detenuti e che durerà cinque mesi. Per
Holger l’alimentazione forzata scatta dopo tre settimane. Gli danno appena
quattrocento calorie al giorno, si scoprirà in seguito. Sufficienti solo a
farlo vegetare. Il suo fisico è in grave dissesto, non più in grado di reggere
né il digiuno né il tubo.
L’8 novembre Holger non ha più forze. Chiede di vedere
il suo avvocato, Siegfried Haag. Quest’ultimo
deve penare per essere ammesso nel carcere e visitare il suo assistito. Nel
vederlo, rimane sconvolto: Holger è in condizioni terminali, uno scheletro con
la pelle. Alto più di un metro e ottanta, pesa poco più di trentanove chili.
È un venerdì sera e non c’è nemmeno il medico del
carcere, che si è preso il weekend libero. Haag telefona al magistrato
competente per chiedere una visita medica urgente. Non la ottiene.
Holger si spegne poche ore dopo, all’alba di sabato 9
novembre, dopo 57 giorni di sciopero. Aveva appena compiuto 33 anni.
La foto del corpo sul tavolo autoptico – avvertenza: immagine orribile, insopportabile, che tocca
persino l’olfatto – trapela e fa grande scalpore. Con la sua
pubblicazione, lo sciopero della fame cessa di essere qualcosa di vago. Per un
istante risulta evidente il cinismo delle autorità della Repubblica Federale
Tedesca, che hanno permesso un simile esito.
Proprio quella foto spinge decine di persone ad
arruolarsi nella RAF. Hans Joachim
Klein, militante del gruppo Revolutionäre Zellen, la tiene nel portafogli e ogni tanto la guarda. «Per mantenere affilato
il mio odio», dirà.
Anche sull’onda dell’emozione suscitata dal caso, nel
1975 l’Associazione Medica Mondiale dichiara che
l’alimentazione forzata dei detenuti è affine alla tortura e la include tra le
pratiche di cui un medico non deve farsi complice.
«Quando un detenuto rifiuta di nutrirsi ed è ritenuto
dal medico in grado di formarsi un giudizio integro e razionale sulle
conseguenze di tale rifiuto volontario, non deve essere nutrito artificialmente
[…] La decisione sulla capacità del detenuto di formarsi tale giudizio deve
essere confermata da almeno un altro medico indipendente. Le conseguenze del
rifiuto di nutrirsi devono essere spiegate dal medico al detenuto.»
Certo, si può aggirare l’ostacolo facendo dichiarare
il detenuto incapace di intendere e di volere.
E in ogni caso, in mezzo mondo si continuerà a usare
il tubo. Anche nel nostro occidente. Spesso «in difesa» dell’occidente medesimo
e, come suol dirsi, dei «suoi valori». Come a Guantanamo.
2. La vicenda
più celebre: Bobby Sands
Il più noto sciopero della fame della storia europea
ha luogo nel 1981 nel carcere di Long Kesh – detto «The Maze», il dedalo – in
Irlanda del Nord.
Tra marzo e giugno muoiono dieci militanti dell’IRA e
dell’INLA.
Il primo a spegnersi è il ventisettenne Bobby Sands, che diverrà il più famoso martire legato a questa
forma di lotta.
La storia della battaglia di Sands in carcere e della
sua morte è raccontata con impressionante realismo nel film Hunger di Steve McQueen (2008).
Chi vuole capire cos’è uno sciopero della fame, guardi
la foto del corpo di Holger Meins e l’interpretazione di Michael Fassbender in Hunger.
3. L’Italia,
Alfredo Cospito e «la sinistra»
Anche nell’Italia di questi anni sono morti detenuti
in sciopero della fame. I tre casi più recenti sono quelli di Salvatore
“Doddore” Meloni (2017), Gabriele
Milito (2018) e Carmelo
Caminiti (2020). Tutti e tre deceduti nell’indifferenza
quasi generale.
Grazie a una mobilitazione continua e capillare, del
caso del compagno anarchico Alfredo Cospito si è invece riusciti a far parlare. Non abbastanza, ma più di quanto
ci si poteva attendere.
Cospito è all’ottantesimo giorno di sciopero della
fame. Del suo caso abbiamo già scritto a dicembre, e ne abbiamo più volte parlato in pubblico. L’ultima presentazione
di Ufo 78 prima della pausa festiva, alla Biblioteca Classense
di Ravenna, l’abbiamo cominciata leggendo quest’articolo di Adriano Sofri uscito sul Foglio. Testata che normalmente deprechiamo, ma l’articolo
è perfetto, soprattutto il finale. È tuttora una delle cose più chiare e forti
scritte su questa vicenda.
Nei giorni scorsi un vasto gruppo di giuristi e
intellettuali ha rivolto un appello al ministro della giustizia Carlo Nordio, chiedendo che Cospito sia tolto dal regime di detenzione 41bis. Da più
parti abbiamo visto commentare: «Con ‘sto governo di fascisti, figurarsi…»
Solo che ad appioppare a Cospito il 41bis, e a
difendere pubblicamente la scelta, è stato il ministro della giustizia del
governo Draghi, Marta Cartabia. E i primi allarmi su una
possibile estensione del 41bis dai boss mafiosi ai detenuti politici e in
generale ai dissenzienti risalgono ai tempi del governo Gentiloni, il cui
guardasigilli era Andrea Orlando del PD.
Chi non conosce la storia della repressione poliziesca
e giudiziaria in Italia tende a peccare di «recentismo» – o «presentismo» che
dir si voglia – e a pensare che la controparte sia solo questo governo, cioè la
destra dichiarata.
In realtà la vicenda Cospito è il culmine di un lungo
processo che ha visto più spesso protagonista l’altra destra,
quella che è stata al governo più volte e più a lungo, quella che si fa
chiamare «la sinistra»: dirigenti e opinionisti del Partito Democratico e di
sue formazioni-satellite; firme e firmette del partito-giornale Repubblica e
di altre testate liberal-de-noantri; procuratori e giudici aderenti
a Magistratura Democratica, e in generale – qui prendiamo in prestito il titolo
di un romanzo di Luca Rastello – «i buoni».
È stata «la sinistra» a innescare le peggiori
recrudescenze autoritarie e repressive. È nel mondo dei «buoni» che si è
gonfiato a mo’ di blob un purulento mischione di rimasugli stalinisti,
mentalità “manettara”, apologia delle «regole», feticismo della «legalità» come
valore in sé, adesione al There Is No Alternative neoliberale
ecc.
Ricostruire i processi che hanno reso egemone “a
sinistra” una simile subcultura è ben più di quanto possiamo fare in
quest’articolo.
Bisognerebbe risalire agli anni Settanta, alla
stagione dell’Emergenza e delle leggi speciali, alla linea del «rigore» durante
il sequestro Moro.
Poi si dovrebbe smontare un certo legalitarismo statolatrico che
ha sfruttato i simboli dell’antimafia per diventare incontestabile e
poter invadere sempre più ambiti.
Dopodiché andrebbe spiegato il ruolo che ebbero Mani
Pulite e subito a seguire l’«antiberlusconismo», strumentale postura usata per
imporre il «menopeggismo» che ci ha devastati.
Lungo questa linea andrebbero collocati
concetti-slogan quali «degrado», «decoro» e «sicurezza», magistralmente
sviscerati da Wolf Bukowski nel
suo La buona
educazione degli oppressi (Alegre, 2019).
Si arriverebbe infine alla gestione dell’emergenza
pandemica, che “a sinistra” – anche in quella che suol dirsi «radicale» – è il
grande tabù.
Oltre quarant’anni di devolution ideologica.
Ricostruirli è al di sopra delle nostre forze. Noi possiamo solo mettere la
pulce nell’orecchio a chi fa ricerca storica. E fare esempi.
4. «I buoni» e
la repressione: il caso Torino
Non è stato forse un «buono» tra i più celebri e incontestabili a creare un «pool anti-No Tav» dentro la Procura di Torino?
Tale «pool», come già raccontavamo in Un viaggio
che non promettiamo breve (Einaudi,
2016), ha condotto esperimenti giuridico-mediatici a tutto campo, a partire da
un’estensione ad libitum del concetto di «terrorismo» e da un
uso piuttosto disinibito delle imputazioni per reati associativi.
Esperimenti grazie a cui, come spiegato da Xenia
Chiaramonte, ha preso forma non solo un repertorio di strategie
di criminalizzazione ed escamotages vari, ma anche un nuovo modello «neopositivistico»,
un vero e proprio «diritto penale di lotta», basato sulla profilazione del
nemico politico e addirittura culturale.
In pochi anni la “democratica” Torino è diventata la
capitale morale della repressione, con grande soddisfazione ed entusiasmo del
PD e dal suo mondo. Si pensi ai toni con cui l’oggi ex-deputato Stefano
Esposito acclamava ogni carica di celere, ogni arresto,
ogni condanna in tribunale. Ci è subito venuto in mente lui, ma non era certo
il solo.
La guerra al movimento No Tav e, in subordine, ai centri sociali cittadini ha fatto
scuola e suggerito modi di affrontare o prevenire altre insorgenze.
È stata la Procura di Torino a rinverdire l’istituto della sorveglianza speciale – ultima discendente del confino fascista, con cui ha molti elementi
in comune – per soggetti «socialmente pericolosi». Oggi quello strumento è
usato per colpire le nuove lotte su ambiente e clima. Pochi giorni fa è stata chiesta la sorveglianza speciale per Simone Ficicchia, 20 anni, di
Voghera, attivista di Ultima Generazione.
È stata sempre la Procura di Torino a chiedere la
riqualificazione del reato risalente al 2006 per cui Cospito stava già
scontando la pena: aver piazzato un ordigno a basso potenziale di fronte alla
Scuola Allievi Carabineri di Fossano (CN). Il reato è così trasmigrato
dall’articolo 422 all’articolo 285 del codice penale: non più tentata strage
contro «la pubblica incolumità», ma contro «la sicurezza dello stato», benché
non ci siano stati morti né feriti né contusi.
La differenza è quella che passa tra vent’anni di
galera e la galera per sempre, cioè l’ergastolo «ostativo», ufficialmente
incostituzionale eppure ancora tra noi e difeso – proprio come il 41 bis – da
molti «buoni».
Gli stessi che dello sciopero di Cospito, e della sua
possibile sorte, hanno già ampiamente dimostrato di fregarsene.
5. Il
«macchinario» vs. il corpo di Alfredo
Alfredo Cospito regge ancora perché, a differenza di
Holger Meins e Bobby Sands, aveva in partenza un fisico robusto, ma ha già
perso trentasei chili ed è in una situazione forse non disperata ma certo molto
grave.
Come ha scritto Adriano Sofri nell’articolo già
segnalato,
«Cospito poteva tornare a essere una persona solo
decidendo di destinare il proprio corpo a una morte non dilazionata secondo la
regola del fine-pena-mai. Il suo è uno sciopero della fame duro, che l’ha già
portato in una condizione allarmante. In apparenza, due oltranzismi si
fronteggiano: il rincaro della “giustizia”, che è anonimo o è come se lo fosse,
è un macchinario, assicurato dell’irresponsabilità personale, e la volontà di
andare “fino in fondo” del detenuto. Tutti vedono, non possono non vedere, che
non c’è niente di simmetrico nelle due oltranze.»
Di fronte al macchinario, Cospito ha solo il proprio
corpo.
Noi però non vorremmo vedere quel corpo in una foto
come quella scattata a Wittlich.
Noi vogliamo che Alfredo viva.
Non vogliamo un martire, ma la fine del 41 bis e una
nuova consapevolezza su giustizia e carcere in Italia.
Punire il pensiero è la vera
ragione del 41 bis per Alfredo Cospito – Paolo Persichetti
Un appello siglato da intellettuali, giuristi e
personalità ha chiesto la revoca del regime penitenziario 41 bis a cui è stato
sottoposto l’anarchico Alfredo Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre
scorso. Tra i firmatari Alex Zanotelli, Donatella Di Cesare, Moni Ovadia,
Massimo Cacciari, Luigi Ferrajoli, ma anche ex magistrati in pensione: tra
questi Gherardo Colombo, Beniamino Deidda, Domenico Gallo, Nello Rossi, Livio
Pepino, Franco Ippolito e l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni
Maria Flick. E’ un fatto di indubbia novità che alcune di queste figure abbiano
preso pubblicamente posizione su un tema del genere.
Un salto nella escalation repressiva
L’applicazione del 41 bis a Cospito rappresenta un nuovo stadio nella
escalation repressiva, un ulteriore passaggio nella politica di
differenziazione penitenziaria. In questo caso infatti mancano tutti i
requisiti generalmente indicati per l’applicazione di queste misura:
l’interruzione del legame organizzativo con gli associati e la possibilità di
ottenere informazioni.
All’inizio del decennio 90 il 41 bis (l’abolizione di ogni spazio vitale in
carcere e l’ostatività a permessi, lavoro esterno, semilibertà e liberazione
condizionale, evoluzione del precedente articolo 90) venne introdotto per
interrompere i legami organizzativi mantenuti tra reclusi appartenenti a gruppi
mafiosi e le associazioni criminali esterne di appartenenza. Successivamente
nei primi anni 2000 la stessa misura venne estesa anche a tre militanti delle
cosiddette “nuove Br”, condannati per degli attentati realizzati nel 1999 e nel
2002.
Nessun legame organizzativo da interrompere
Ciò che colpisce nella vicenda di Cospito è l’assenza del legame organizzativo.
Cospito è in carcere da dieci anni per fatti che al momento della condanna non
comportarono il ricorso al 41 bis, misura che gli è stata applicata solo nel
2022, a 16 anni di distanza. Dai fatti reato che gli sono attribuiti è trascorso
un lungo periodo, nel frattempo non ci sono stati nuovi reati né una nuova
organizzazione sovversiva è emersa che lo veda coinvolto, né ci sono state
azioni illegali della stessa portata o dimensione per cui era finito in
carcere, tali da giustificare un nuovo allarme sociale. A ciò si deve
aggiungere che il settore anarchico di riferimento (Federazione anarchica
informale) non era una organizzazione con una gerarchia, un organigramma, dei
legami definiti e strutturati ma una pulviscolo di singole persone o nuclei
separati e indipendenti l’uno dall’altro. Secondo la loro ideologia ognuno
poteva agire come meglio credeva a prescindere dall’azione dell’altro. La
misura del 41 bis pertanto non potrebbe interrompere nessun flusso
informativo/organizzativo presunto o possibile in entrata e in uscita per il
semplice fatto che semmai questa area – silente ormai da molti anni – dovesse
agire, lo farebbe a prescindere dalla esistenza di Cospito e dalle sue
personali posizioni. Alla resa dei fatti la misura del 41 bis risulta del tutto
ineffettuale: non interromperebbe legami organizzativi che non sussistono; non
bloccherebbe flussi informativi non previsti.
La permanenza del 41 bis anche in assenza del legame organizzativo non è una
singolarità che riguarda solo Cospito. Anche per i tre ex appartenenti alle
“nuove Br”, Marco Mezzasalma, Nadia Lioce e Roberto Morandi, il regime
detentivo in 41 bis si protrate da circa 20 anni nonostante la scomparsa
dell’originario gruppo politico di appartenenza.
Spezzare il legame con la società
Secondo la retorica riabilitativa la pena deve essere volta alla
risocializzazione e questo perché gran parte dei comportamenti devianti sono
ritenuti una conseguenza della marginalizzazione sociale. Nel caso dei detenuti
politici la punizione ha l’obiettivo opposto: la militanza politica presuppone
la presenza di reti sociali, connessioni e forte socializzazione. In questo
caso è l’internità sociale che va rotta: desocializzare, isolare, spezzare i
legami sociali è il vero obiettivo della sanzione che porta alla
differenziazione carceraria, ai diversi regimi di isolamento in alta sicurezza
ed ora in 41 bis.
Estorcere dichiarazioni
L’altra ragione richiamata per l’applicazione del 41 bis è la collaborazione
con la giustizia, indurre il recluso a rivelare fatti e circostanze: altrimenti
detto estorcere dichiarazioni. Una tortura bianca più lenta e
silenziosa, diluita nel tempo e meno impattante per la sensibilità pubblica.
Nella vicenda di Cospito anche questa possibilità viene a mancare poiché i
fatti-reato per i quali è stato condannato sono stati accertati e sanzionati e
lo stesso Cospito li ha riconosciuti. Oltretutto gli episodi-reato per i quali
è stato condannato risultano di modesta gravità nonostante l’entità delle pene
ricevute: una gambizzazione (lesioni), degli attentati dinamitardi che hanno
prodotto danni lievi a cose. L’ipersanzione non è dovuta quindi alla portata
effettuale dei fatti commessi ma alla loro valenza simbolico-politica:
antistatale e antisistema. Non sfugge in questo caso la disparità di
trattamento penale e penitenziario rispetto chi ha realizzato in questi anni
reati di natura stragista, aggravati dal movente razziale, sanzionati con pene
molto lievi che non prevedono il medesimo trattamento carcerario.
Il 41 bis serve a punire il pensiero
Appare chiaro che l’applicazione del 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito
mira a colpire la sua personalità, il suo pensiero, opinioni espresse
pubblicamente, per altro senza aver mai violato le regole carcerarie poiché
fino a ieri non era sottoposto censura o altra limitazione ma esercitava del
tutto legittimamente la sua libertà di pensiero. Nel caso l’autorità
penitenziaria avesse ravvisato la presenza di pericolosità nelle sue esternazioni,
avrebbe avuto la facoltà di intervenire attraverso i normali strumenti del
codice penale, denunciando eventuali reati di istigazione o apologia per i
quali, se effettivamente riscontrati dalla magistratura, comunque non è
prevista nessuna reclusione in regime di 41 bis ma un eventuale aggravio di
pena. L’applicazione del regime di 41 bis costituisce in questo caso un attacco
diretto ed esclusivo all’identità politica del detenuto.
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