Da piccola ho imparato molte cose da mio fratello. L’aspetto più bello che ricordo di quel tempo passato gomito a gomito è l’aver appreso molto senza la pretesa di farlo né di richiederlo, guardando e provando. Sono stata introdotta presto nel mondo di Windows ‘95 e ho imparato quali fossero i componenti e il funzionamento di un computer. Poi ho iniziato ad utilizzare la connessione ADSL, i forum, e ho scaricato film online. Nei pomeriggi al ritorno da scuola mio fratello mi introdusse anche nel mondo di mIRC, di BitTorrent e di eMule: il primo è un client di messaggistica istantanea così spartano che sembrava già di per sé misterioso. Vi accedevamo principalmente per leggere e contribuire a conversazioni su videogame. Cose da nerd insomma. Gli altri due servono invece per condividere con altre persone file di qualsiasi tipo come film, libri, musica. Utilizzarli non è illegale, ma scambiare materiale protetto da copyright è un illecito.
Mio fratello è nato nel 1986, quando venne fotografata la prima volta la
cometa di Halley, si aprì il maxiprocesso contro la mafia, e avvenne
l’incidente al reattore nucleare n. 4 della centrale di Černobyl’ in Ucraina.
Un anno che, a guardarlo con il senno di poi, dice molto anche su informatica e
Internet: i PC non erano ancora normalità nelle famiglie ma entra in scena
(c)Brain, il primo virus diffuso sul sistema operativo MS-DOS di Microsoft, al
tempo il più popolare al mondo. E nello stesso anno nasce Aaron Swartz.
Programmatore sin dalla giovanissima età, Swartz è morto suicida
esattamente dieci anni fa, l’11 gennaio 2013. Certo mio fratello non ha
incontrato Lawrence Lessig e Tim Berners-Lee mentre stavano creando
l’infrastruttura grafica del moderno Internet e le licenze Creative Commons, ma
nel suo piccolo aveva anche lui l’idea di trasmettermi conoscenza attraverso la
filosofia hacker e l’open access. Anni dopo, all’università, non avevo sempre
accesso ai paper scientifici che mi servivano per studiare o per curiosità. In
questi casi è stato fondamentale quanto insegnatomi da mio fratello, che
sembrava riuscire ad avere accesso a quasi tutto. Ma la questione era molto più
ampia dell’esigenza di un singolo o delle soluzioni individuali. Lo avrebbe
capito bene Swartz, pagando però in prima persona.
Aaron Swartz era una persona dotata non solo di intelligenza e dedizione,
ma anche di empatia e attivismo politico. Nel suo racconto almeno una parola
deve essere subito chiarita: chi sia un hacker. Hacker è colui o colei che non
intende arrendersi davanti a un sistema confezionato, e partendo da ciò che si
vede lo smonta pezzo per pezzo per scoprirne vulnerabilità o potenziali
espansioni. Questo processo si può associare a molti altri campi oltre
all’informatica ed è strettamente correlato al pensiero creativo di una
persona.
Lo sforzo di Swartz di “aggiustare il mondo” e la condivisione della
conoscenza
Il percorso di Aaron Swartz è esemplificativo di tutto ciò. Lo spiega bene
il libro di Giovanni Ziccardi pubblicato lo scorso novembre da Milano
University Press, Aggiustare il mondo. La vita, il processo e l’eredità
di Aaron Swartz, disponibile in open access (ad accesso
aperto e libero) proprio come avrebbe voluto lui.
Ziccardi, professore associato di filosofia del diritto alla Statale di
Milano, ha ricostruito, utilizzando documenti e informazioni pubbliche, la
breve ma intensa vita di un programmatore, hacker e attivista politico che ha
combattuto per alcune battaglie cruciali per la libertà di Internet. A
costellare la breve vita di Swartz si possono elencare progetti tuttora importanti
e attuali: Dive into anything è lo slogan di Reddit, sito di
social news e forum di fama mondiale creato da Swartz con altri amici nei primi
anni del 2000. E poi il suo contributo alle licenze Creative Commons, a
Wikipedia e alla creazione del software cifrato per giornalisti SecureDrop (dal
quale ha preso ispirazione l’italiano Globaleaks).
Se da una parte per Swartz i punti cardine di tutta la sua attività erano
la trasparenza e la condivisione come forma di potere contro l’oppressione,
dall’altra vi era il concetto di anonimato. La creazione quindi di strumenti a
protezione delle fonti che veicolano informazioni non gradite a governi,
multinazionali o al sistema in generale, questione che lo lega all’attivismo
politico di cui si rende partecipe seguendo le orme di Tim Berners-Lee. In anni in cui
molti dei primi programmatori e menti dietro alla tecnologia informatica
iniziavano ad arricchirsi nella Silicon Valley, l’inventore del World Wide Web
decideva di regalare al mondo ciò che aveva creato insieme a un altro
informatico belga. L’intenzione di Berners-Lee era quella di consegnare alle
persone uno strumento emancipatorio, che favorisse una ricaduta sociale
mondiale che a quel tempo non poteva nemmeno essere immaginata.
Il Guerrilla Open Access Manifesto e la guerra contro Swartz
Quando è stato trovato morto, nel 2013, Swartz stava affrontando un
procedimento legale molto duro che lo avrebbe potuto portare in carcere per 35
anni e che riguardava proprio l’accesso ad articoli scientifici. Come raccontato
nel libro di Ziccardi, il fatto drammatico è preceduto dalla pubblicazione
del Guerrilla Open Access Manifesto circa
5 anni prima. Lo scritto, molto breve, mette in chiaro due questioni
principali: il fatto che “l’intero patrimonio scientifico e culturale del
mondo, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, viene sempre più
digitalizzato e bloccato da una manciata di società private”; e la necessità di
un vero e proprio diritto ad accedere al lavoro accademico e scientifico
pubblicato online.
La figura di Aaron Swartz l’ho conosciuta proprio nel 2013, quando mentre
cercavo ricerche e trattati online sono incappata nell’Open access movement.
“L’informazione è potere. Ma come ogni potere, c’è chi lo vuole tenere per sé”,
si legge nel manifesto. Il termine spagnolo guerrilla colse
l’attenzione dell’FBI, nota ancora Ziccardi parlando della storia nel podcast di Valigia Blu sul
caso Swartz, e fu il primo passo delle indagini nei suoi confronti.
D’altronde Swartz invitava anche scienziati e ricercatori ad agire per liberare
contenuti, a prescindere da quanto disponesse la legge.
“A quasi undici anni di distanza, in alcune, grandi università il quadro è
cambiato, ma rimangono ancora, in tanti ambiti, muri molto difficili da
abbattere; lo scritto di Aaron, riletto ai giorni nostri, è quanto mai
attuale”, scrive Ziccardi nella biografia dell’attivista.
Nell’ultimo anno della vita del giovane succede però il peggio. Quando alla
conoscenza tecnica e informatica di sistemi molto complessi si affianca anche
l’attivismo politico, il governo statunitense comincia a usare i mezzi
legali. Nell’autunno 2010 Swartz aveva scaricato in modo automatizzato dalla rete
del Massachusetts Institute of Technology milioni di articoli scientifici,
rendendoli accessibili a chiunque. La banca dati violata è la conosciuta JSTOR,
nata nel 1995 a New York, che ospita libri e contenuti accademici prodotti da
8.000 istituzioni internazionali. Explore the world’s knowledge,
cultures, and ideas è il motto, e certo è vero. Al contempo però JSTOR
non è accessibile a chiunque per via del costo al quale sono venduti i
contenuti accademici. Un’esperienza comune per molti studenti. Infatti, nemmeno
con le credenziali universitarie avevo accesso a tutto ciò che mi serviva per
studiare. Alla fine era spesso il professore a passarci i suoi studi e le sue
ricerche.
Ma quell’azione di Swartz è stata la goccia che ha fatto traboccare
il vaso, in due modi. Da una parte, c’è stata la dura reazione di
JSTOR e dei vertici del MIT per eventuali violazioni di contratto e dei termini
di servizio (posizioni modificatesi nel tempo). Se la ricerca è a pagamento, non è
possibile scaricare i contenuti per poi renderli liberi online. Ma è indubbio
siano i ricercatori a fare il lavoro vero e proprio: inventano una domanda di
ricerca, eseguono esperimenti e scrivono paper scientifici al fine di
spiegarli. A quel punto la conoscenza si scontra con un sistema che
predilige il profitto alla libera circolazione di idee. Per ottenere
riconoscimenti dalla comunità di riferimento, i ricercatori sono obbligati a
pubblicare il lavoro su riviste accademiche di fama mondiale e sottostare alle
loro regole.
Dall’altra parte, si è attivata anche la procura, l’attore più rilevante e
che ha portato alle conseguenze più gravi. Negli Stati Uniti esiste infatti una
normativa penale, il Computer Fraud and Abuse Act, che regola i reati
informatici e gli accessi abusivi alle reti private, come le frodi informatiche. Quando
venne ritrovato, in uno sgabuzzino del MIT, il PC di Swartz collegato alla rete
dell’università e intento a scaricare centinaia di migliaia di articoli
scientifici, la situazione precipitò.
Ben due processi, uno statale e uno federale, caddero sulle spalle del
giovane. Il patteggiamento tra accusa e difesa non stava andando per il meglio,
e Swartz aveva paura soprattutto per il suo futuro politico: voleva
entrare nel sistema che combatteva per cambiarlo in meglio, per far sì che una
reale trasparenza data dalla disponibilità aperta e senza vincoli di articoli e
fonti potesse migliorare la conoscenza di tutti.
Prima di decidere di togliersi la vita, sotto le pesanti accuse di una
normativa statunitense ampiamente criticata, Swartz ha scritto un testo
chiamato “legacy”. “Il primo consiglio che Aaron lascia, riflettendo anche
sulla sua persona e sul suo ruolo nel mondo è, in conclusione, quello di fare
tutto ciò che gli altri non cercano di fare”, scrive Ziccardi nella biografia.
Cambiare il sistema, non cercare di seguirlo, cambiare l’università e la sua
natura, essere indipendenti dalla politica.
Sci-Hub, le controversie legali, e l’accesso al sapere scientifico
E quindi a distanza di dieci anni ancora una volta oggi dobbiamo
chiederci: qual è l’eredità di Aaron Swartz? Quanto successo e sta succedendo
dopo la sua morte non promette bene, ma certamente ciò che ha lasciato il
giovane programmatore smuove ancora l’iniziativa (politica) di molti.
Sci-Hub è una di queste: un enorme archivio che contiene più di 80 milioni
di articoli scientifici, libri, riviste e articoli di giornale protetti da
copyright e non. Fondato due anni prima della morte di Swartz, nel 2011, dalla
sviluppatrice kazaka Alexandra Elbakyan, è irraggiungibile in molti Stati del
mondo per via delle azioni legali intraprese da grandi editori come Elsevier,
Wiley e American Chemical Society. A differenza di Swartz, Elbakyan ha chiesto
a ricercatori e accademici di entrare con le loro credenziali nelle grandi
banche dati scientifiche e di scaricare il materiale. In questo modo l’attività
di download sarebbe stata legale, anche se la successiva divulgazione gratuita
sul portale di Sci-Hub avrebbe poi aperto cause legali in più di uno Stato.
Dopo sole due settimane dall’esposto presentato all’AGCOM da un editore, nel
luglio 2018, anche l’autorità italiana ha intimato ai provider
internet il blocco dei DNS del sito originale di Sci-Hub e del suo sito mirror.
In ogni caso The pirate bay of science, come viene spesso chiamato, è un
esempio attuale di quanto ricercatori, accademici e studiosi accedano
quotidianamente a materiale scientifico aggirando il paywall imposto dagli
editori per svolgere ricerca, o anche semplicemente studiare durante il
percorso di dottorato.
Lo scorso maggio Elbakyan ha reso pubblico su Twitter il fatto che l’FBI
avesse richiesto l’accesso ai dati del suo account Apple attraverso un vecchio
indirizzo Gmail. Da un anno a questa parte il social network ora di proprietà del
miliardario Elon Musk ha sospeso l’account dell’archivio per aver violato la
policy sulla contraffazione, che comprende anche “l’offerta, la promozione, la
vendita o la facilitazione dell’accesso non autorizzato ai contenuti, compresi
i beni digitali”. I rischi corsi da Sci-Hub e dalla sua fondatrice
sono tuttora in atto e rappresentano il motivo per il quale la donna vive
nascosta.
La differenza più sostanziale a dieci anni dalla morte di Swartz è che non
sono solo attivisti e hacker a sostenere l’open access come diritto di
tutti: il sito Sci-Hub è utilizzato da molti studiosi in tutto il mondo e in
alcuni Stati come ad esempio l’India, in cui è in corso tuttora una causa
legale, è stato difeso da decine di accademici, secondo il reportage di Rest of The World. La libertà di
accedere a contenuti scientifici è infatti direttamente proporzionale alla
possibilità economica di ognuno, e perciò un archivio di questo tipo è cruciale
in paesi con grandi disparità economiche. Motivo per il quale la causa
contro Elbakyan in questo paese non è semplice come in altri, e non si è ancora
conclusa. L’eredità di Swartz è racchiusa anche in un altro progetto: il
sito di file sharing Library Genesis (LibGen), sotto indagine da anni e che,
essendo registrato sia in Russia che in Olanda, rende difficile definire quale
giurisdizione debba essere applicata per l’accusa di violazione di copyright.
“Dobbiamo adottare il Guerilla Open Access Manifesto per invertire
l’asimmetria informativa tra cittadini e Big Tech-Big Government. Questo può
accadere solo se costruiamo reti alternative di infrastrutture informative che
sostengano queste idee. Queste reti informative non possono essere costruite
dall’oggi al domani, ma dobbiamo impegnarci per ottenerle. Sci-Hub e
LibGen sono alcuni esempi di queste infrastrutture informative e non solo
dobbiamo sostenerle, ma dobbiamo costruirne altre”, ha scritto recentemente il
ricercatore e hacktivista indiano Srinivas Kodali commentando proprio l’eredità
di Swartz.
Il futuro dell’open access
La battaglia per l’open access di Aaron Swartz è di fatto portata avanti
anche da altri progetti come Open Library (progetto di Internet Archive), che mette a
disposizione circa 20 milioni di titoli di libri in formato digitale
accessibili a chiunque gratis. E poi ci sono progetti come BioMed e PLOS One, ovvero archivi e journal che contengono paper
scientifici senza paywall sostenuti da ricercatori e studiosi di fama mondiale
nel loro settore, provenienti da università come Harvard, Stanford e
Oxford. Caratteristica importante nella battaglia per l’open access,
come di tutte quelle che nascono dal basso, è la possibilità di stringere alleanze
e fare rete: Right to Research Coalition (R2RC) ne è l’emblema,
includendo più di 90 organizzazioni di studenti universitari nel mondo
accomunati dalla promozione dell’open access anche attraverso azioni di
advocacy. Senza contare poi OpenCon, una
serie di conferenze sparse per tutto il mondo.
Il futuro dell’open access è nelle mani di chi la ricerca la produce e in
maniera simile anche di tutti noi che vogliamo usufruire della conoscenza che
creano. Nonostante le cause legali portate avanti negli anni successivi alla
morte di Swartz in molte parti del mondo, alcuni passi avanti fanno ben
sperare: negli Usa il progetto di legge Fair Access to Science and
Technology Research Act imporrebbe a tutte le agenzie federali che hanno speso
più di 100 milioni di dollari in ricerca di pubblicare i contenuti in formato
aperto; un disegno di legge statale californiano approvato nel 2018, lascia
invece ai ricercatori la possibilità di pubblicare gli articoli su riviste
accademiche ma li obbliga anche a diffonderli in archivi pubblici ad accesso
aperto entro e non oltre un anno dalla pubblicazione. A luglio dello scorso
anno l’Internet Archive, un archivio non profit americano che fornisce accesso
a molti contenuti in formato digitale e gratuito, ha chiesto ad un giudice
federale di pronunciarsi nell’ambito di una causa intentata dagli editori
Hachette, HarperCollins, Wiley e Penguin Random House. Questi ultimi contestano
il programma Controlled Digital Lending (CDL) dell’archivio, che però, sostiene
Internet Archive, presta scansioni digitali di libri già acquistati e per i
quali autori ed editori sarebbero già stati compensati.
La battaglia per l’anonimato e la libertà di informazione
L’eredità di Aaron Swartz è anche legata a doppio filo con il mondo del
giornalismo, e alla diffusione di piattaforme e strumenti per la tutela delle
fonti e dell’anonimato online. In Aggiustare il mondo. La
vita, il processo e l’eredità di Aaron Swartz, Ziccardi riassume in poche
frasi la posizione di Swartz: “Trasparenza e segreto, che sembrano due
concetti in conflitto, erano interpretati da Aaron come entrambi essenziali in
una democrazia. La trasparenza coinvolgeva i vertici, a cascata fino al singolo
ufficio periferico, e i loro documenti. Il segreto era un potere da conferire
al cittadino, unitamente all’anonimato, per operare in sicurezza anche in
azioni di attivismo. E la tecnologia, in entrambi i casi, poteva e doveva
essere la leva per garantire questi due diritti”. Nel novembre 2010 il
caso Cablegate, ovvero
la pubblicazione da parte di Wikileaks di centinaia di migliaia di documenti
riservati sull’operato del governo americano, ha fatto da spartiacque e da
scintilla per la creazione di strumenti che favorissero la diffusione di
informazioni garantendo però l’anonimato di chi si esponeva.
In merito abbiamo già citato il contributo di Swartz nella creazione
di SecureDrop, un software libero sviluppato
dalla Freedom of the Press Foundation e rilasciato per la prima volta nel 2013,
alcuni mesi dopo la sua morte, e raggiungibile attraverso il network Tor. La
prima istanza SecureDrop è stata lanciata da The New Yorker per
favorire la comunicazione della testata con fonti che, per la tipologia di
informazioni che volevano fornire al giornale, richiedevano il massimo grado di
protezione e anonimato. Una volta sulla piattaforma la fonte può inviare
informazioni e allegati di qualsiasi tipo e riceve in cambio un numero casuale
da conservare per accedere nuovamente alla segnalazione, ed eventualmente
rispondere ai messaggi dei giornalisti. Dall’altra parte, negli uffici della
testata sono presenti due PC: il primo è connesso a Internet e permette il
download crittato delle informazioni fornite dalla fonte in una penna Usb; il
secondo PC è utilizzato invece per visualizzare i contenuti inviati dalla fonte
attraverso il codice di decrittazione presente in una seconda chiave Usb. Ad
ogni utilizzo il secondo PC, mai connesso alla rete Internet, è svuotato delle
informazioni e spento.
A catena, nei mesi e anni successivi, altre testate internazionali
integrano SecureDrop nel lavoro giornalistico: Forbes, ProPublica, The
Intercept, Washington Post, The Guardian sono solo alcuni.
La particolarità di questa piattaforma è quella di non permettere a
nessuno, nemmeno ai giornalisti che ricevono l’informazione o il documento, di
poter risalire all’autore della soffiata. E in un mondo estremamente connesso
attraverso tecnologie digitali che permettono la comunicazione ma non quella
segreta, questi strumenti assumono una rilevanza strategica per la trasparenza
e l’accountability di governi e aziende. Questo è anche il motivo che ha
spinto, nello stesso periodo, alla creazione del software libero e open source GlobaLeaks.
Tradotta in più di 90 lingue, la piattaforma italiana di whistleblowing creata
da sviluppatori e hacker permette di veicolare informazioni in modo sicuro e
anonimo, assicurando che queste non siano riconducibili a una o più persone che
hanno deciso di esporsi. A differenza di SecureDrop, è raggiungibile dalla
fonte e dal giornalista attraverso qualsiasi PC e non necessita di chiavi Usb
per funzionare.
Come ha twittato di
recente proprio l’account di SecureDrop: “Aaron, che ha sviluppato la
versione originale di SecureDrop, continua a ispirare ogni giorno i nostri
sforzi per proteggere giornalisti e informatori”. E ancora ispira gli
sforzi di molti altri.
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