Dagli attacchi all’Ue a quelli a Bankitalia e giudici: ecco i pericoli dell’insofferenza del governo alle istituzioni di garanzia. Molte, e in tante lingue, sono le parole che contengono le due consonanti “st”. Molto spesso indicano qualcosa che “sta” stabilmente (così in greco il verbo ístemi): per esempio Stato, costituzione, esistenza, constare, sostenere e sostenibile, eccetera.
Tra queste
c’è establishment. Questa parola nel discorso corrente è un modo generico di
indicare un coagulo di poteri costituiti di vario genere: economico-finanziari,
culturali e politici che fanno sistema e che, a chi ne è escluso, appare come
un aggregato di interessi compatto e autoreferenziale. Magari al suo interno
esistono tensioni e rivalità ma, alla resa dei conti, è concorde nella difesa
della propria conservazione contro le minacce che possano provenire
dall’esterno. Naturalmente, dicendo establishment o, se si vuole, oligarchie si
usano parole generiche. Esiste varietà. Per esempio, alcuni possono ispirarsi
al governo moderato, alla separazione dei poteri, al pluralismo, al rispetto
dei diritti, in una parola ai principi del costituzionalismo; oppure, altri,
non sapendo nemmeno che cosa ciò significhi, sono onnivori, ambiscono a un
potere illimitato che scorra senza ostacoli. Tuttavia, comune è una caratteristica:
vi si accede per cooptazione perché la cooptazione è garanzia di consonanza e
compattezza contro le ingerenze eccentriche che possono minare dall’interno la
solidità. Che piaccia o non piaccia (e a chi ne è escluso di certo non piace),
l’establishment esiste dappertutto, in ogni organizzazione sociale stabile e
capace di garantire stabilità. Si potrebbe dire: è un male, ma è necessario o,
almeno, inevitabile. È questa quella che fu definita la “ferrea legge” delle
oligarchie.
Con
l’establishment ci sono le istituzioni. Esse sono garanzie di stabilità e di
durata per mezzo, a dir così, delle loro funzioni di filtro o di selezione.
Separano il lecito dall’illecito, ciò che è ammesso e incoraggiato da ciò che è
escluso e represso. La “istituzionalizzazione” della vita politica e sociale è
nell’interesse non solo dell’establishment, ma anche nell’interesse, che è di
tutti, alla sicurezza e alla tranquillità. Da questo punto di vista, le
istituzioni svolgono un compito che va al di là degli interessi particolare di
chi si è impiantato nell’establishment. Esse sono, per dire così,
nell’establishment ma, per poter svolgere i loro compiti, non devono essere
dell’establishment. Devono, in altri termini, pensare e agire per il presente e
per il futuro, indipendentemente da interessi mutevoli e contingenti. Se ne
dipendessero, verrebbero meno ai propri compiti. Non sarebbero più istituzioni.
Sarebbero vuoti simulacri. Tradirebbero la fiducia cui devono aspirare come
humus indispensabile all’esercizio della loro funzione “istituzionale”. Nessuno
più si fiderebbe di loro.
Poi, è
venuta la democrazia. Con la democrazia abbiamo elezioni, maggioranze che
cambiano e rappresentanza di interessi nuovi. Nuove aggregazioni di potere si
possono affacciare e, nel caso che si prefiggano cambiamenti radicali, mirano
alla discontinuità attraverso nuove istituzioni o attraverso il controllo e
l’assoggettamento delle precedenti. In quanto portatrici di nuova legittimità
sono onnivore delle istituzioni che provengono dalla precedente legalità.
Queste sono percepite come impedimenti e devono essere, se non abolite, almeno
“messe in riga” e conformate al nuovo che avanza. Questa è la vicenda nella
quale siamo immersi, già da ora. Così, con queste premesse, comprendiamo che è
iniziata una partita che ha un’altissima posta in gioco. Chi ne risulterà
vincitore dipenderà da molti fattori tra i quali l’attenzione dell’opinione
pubblica resa consapevole dalla libera stampa che non sottovaluti e interpreti
i segnali che sono davanti ai nostri occhi. Essi, per ora, riguardano le
istituzioni europee, la Banca d’Italia e la magistratura, cause
dell’insofferenza di chi, avendo “vinto le elezioni”, si considera per
principio svincolato da limiti, controlli, contrappesi.
Le
istituzioni europee. Erano passati pochi giorni dalle elezioni e già si era
messo in discussione il “primato” del diritto della Ue sul diritto nazionale
che è la colonna portante della costruzione della comunità degli Stati
d’Europa. Non c’è motivo per credere che i motivi di questa contestazione non
si estenderanno alla Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo e le Libertà
fondamentali, nonché alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, a sua volta
colonna portante della difesa in Europa dei principi della democrazia liberale.
La Banca
d’Italia. Essa è chiamata a compiti essenziali per la stabilità del sistema
economico attraverso la supervisione dei mercati finanziari e il controllo
della politica monetaria e quindi dell’inflazione (all’interno del circuito
delle banche centrali europeo). Ha voce sugli equilibri del bilancio, quindi
sul debito pubblico e sulla lotta all’evasione fiscale e sull’efficienza del
sistema tributario. È autorità di vigilanza sulle banche e sull’intermediazione
bancaria (di nuovo entro un sistema di relazioni europee) a tutela della
clientela bancaria e finanziaria. Controlla le operazioni di fusione,
partecipazione e ristrutturazione del sistema creditizio. Esprime pareri e
relazioni tecniche su questi temi e la sua autorevolezza è direttamente
proporzionale al grado d’indipendenza dagli interessi politici, spesso di
natura elettoralistica. Insomma, una parte importante del governo dell’economia
passa attraverso gli uffici della Banca d’Italia. Problematico è il
bilanciamento tra i suoi compiti tecnici e la loro rilevanza politica. In
questa tensione s’inserisce l’insofferenza del Governo (“sono stufa”, qualcuno
ha detto), specie quando la spesa e l’indebitamento sono concepiti dal mondo
politico come strumento di consenso elettorale. Da sempre (siamo nel 1893, in
età giolittiana), il rapporto Banca-politica è un tema “caldo”. Ingerenze
politiche, da un lato; eccessiva immedesimazione col mondo bancario,
dall’altro.
La
magistratura. La bestia nera d’ogni classe politica non aliena dalla
corruzione, intrisa di senso d’onnipotenza, è l’indipendenza della magistratura
e l’efficienza dei suoi poteri di controllo di legalità. Si annunciano tante
riforme e, fin qui, nulla di male. Ciascuna di esse può contenere del buono,
del meno buono, del cattivo e del pessimo: si deve discuterne e lo si farà, se
la discussione potrà esserci, aperta e onesta, nelle sedi preposte. Ma, se si
guarda all’insieme non si può far finta di non vedere fin da ora che il
risultato può essere ciò che si diceva prima: “mettere in riga” un’istituzione
che, bene o male a seconda dei casi, ha rappresentato un argine all’impunità
alla quale molte persone di potere aspirano.
L’elenco
finisce qui, per ora. Ma, che cosa accadrà quando la Corte costituzionale
“osasse”? Osasse annullare, in nome della Costituzione, decisioni del Governo,
forte del suo mandato elettorale. E se il presidente della Repubblica facesse
qualcosa di analogo in nome dell’unità nazionale? E se poi si arrivasse
all’investitura elettorale diretta del presidente stesso, in questo quadro di
garanzie scricchiolanti? Per non parlare, poi, della cultura che può essere
messa in riga facilmente e tacitamente, togliendo finanziamenti o orientandoli
dove si vuole. Per ora abbiamo sintomi, conati. Ne abbiamo già visti in
passato. Con una espressione generica, troppo generica, sono stati riassunti
nella parola “populismo”. Diciamo, per ora, sindrome d’onnipotenza condita da
rozzo nazionalismo, intolleranza, linguaggio e simbologia varia: tutte cose che
contraddicono un percorso che si aprì con la fine del fascismo e l’avvio della
democrazia, facendo intravedere un mondo ricco di speranza per un futuro
sognato e consegnato alle parole della Costituzione.
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