Ci
sono musei e musei, puoi dirlo per ogni cosa, la premessa è facile
ma non lo sono altrettanto le conseguenze. Altrimenti, sarebbe tutto diverso.
Altrimenti, vivremmo noi per primi in un paese diverso.
Tuttavia, per amor di semplicità, potremmo affermare che i musei sono di due
soli tipi, a uso e consumo di questa breve storiella.
Per primi vi sono quelli al chiuso, banalmente. E tra essi, nel
ramo coloniale – ovvero anti – cito tra tutti la mostra From Local to Global in questi giorni allestita presso la Galleria
d’Arte di Scarborough, nella medesima cittadina inglese dello
Yorkshire del Nord.
Nella presentazione dell’evento sul sito ufficiale della galleria c’è
una fondamentale nota , la quale avverte i visitatori di essere
consapevoli che la mostra presenta una collezione di oggetti che
contengono immagini e descrizioni dello sfruttamento razziale. Nel resto
del messaggio gli organizzatori spiegano che hanno preso questa
decisione per aiutare il pubblico a comprendere meglio gli atteggiamenti
razzisti britannici quale eredità del passato coloniale.
Abbiamo cercato di avvicinarci a questo materiale con sensibilità, è la
conclusione, ma i visitatori potrebbero trovare alcuni elementi
scioccanti. Altri, nel Regno Unito come nel resto del mondo, potrebbero
invece ritenerli più che normali, aggiungo io. Ma che dico, assolutamente
accettabili, più che tollerabili e perfino giusti.
In altre parole, vi sono musei e musei, nonché memorie e memorie, e
come decidere di gestirle, affrontarle e imparare da esse.
Quando hanno rinvenuto tali reperti circa dieci anni fa dietro una porta
bloccata da tempo, gli organizzatori avrebbero potuto lasciare tutto come stava e
ignorare tale imbarazzante scoperta, ma invece la scelta è stata quella di
portare in quel polveroso e opportunamente oscurato angolo della comune memoria
la luce del ricordo e magari della condanna, qualora la coscienza lo richieda.
Per non ripetere in futuro gli stessi errori, potremmo dire ripetendo la solita
canzoncina, ma credo che il vero problema non riguardi il domani, bensì tutto
ciò che si è continuato a fare indisturbati ieri e l’altro ieri sino a oggi
compreso.
Nel dettaglio, la mostra contiene soprattutto oggetti dell’archivio personale
del colonnello James Harrison e racconta i modi con i quali
il museo stesso e altre istituzioni hanno tratto profitto dal colonialismo.
Vi sono trofei di caccia come zanne d’elefante, oltre a fotografie e
annotazioni celebrative di tali presunte imprese nel continente sulla carta
nero, ma nei fatti rosso di sangue versato da vittime innocenti di ogni specie,
umana o meno.
L’aneddoto che trovo maggiormente orribile riguarda l’idea di Harrison di
rapire – usiamo le parole giuste – quattro uomini e due donne di etnia Mbuti per portarli in
giro per il paese in una sorta di zoo umano, come l’ha definito la curatrice della mostra,
Dorcas Taylor.
Pare che a siffatto abominio abbia assistito e immagino applaudito almeno un
milione di persone. Perché, ripeto, tale orrendo spettacolo, un infernale
incubo per le vittime sacrificate al ludibrio dei colonialisti, era considerato
normale, così come un’infinità di aberrazioni ai danni delle genti ritenute
inferiori viene tutt’oggi accettata come ordinaria amministrazione.
Quale ultima tragica postilla a codesto infame circo, una delle donne, di
nome Amuriape, pare fosse incinta e nel 1906 diede alla
luce una bimba, la quale purtroppo nacque già morta. La madre era stata
costretta a esibirsi di fronte a mostri travestiti da spettatori sino a due
giorni prima.
Ci sarebbe molto altro da dire sull’importanza di questi musei, ma mi preme
portare l’attenzione sull’altro tipo, quello delle mostre a cielo
aperto, perché ci riguardano tutti, a prescindere dalle origini. Da queste
parti le chiamiamo città, come la capitale in cui vivo,
ovvero centri storici di storia scritta forse troppo di
fretta, senza prendersi il necessario tempo per scoprire dove conducevano le
tracce di sangue lasciate dal proprio ottuso marciare sulla vita altrui; di
corsi illustri e lustrati e piazze ornate e celebrate; di strade, targhe e
monumenti a incensare il presunto valor militare di chi è partito per
conquistare e depredare. E all’occorrenza, torturare e sterminare.
Nel nostro caso a scarseggiare, a mio modesto parere, sono gli aspiranti
curatori della mostra, con il difficile compito di portare un po’ di luce oltre
la porta sbarrata della nostra comune memoria. Ma prima di tutto occorre buttar
giù quest’ultima, altrimenti lo sforzo è vano.
Nel mio piccolo ci sto provando, anche se so di non essere né il
primo e tanto meno il solo, ma c’è bisogno di tutto l'aiuto possibile, perché
il passato o lo ricordiamo tutti allo stesso modo, altrimenti vivremo in
presenti separati e lontani, e saremo condannati a costruire futuri che non
potranno fare a meno di scontrarsi l’uno con l’altro...
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