domenica 13 settembre 2020

Marocco: in carcere l’attivista Omar Radi - Associazione Ya Basta Padova


L’oppressione non è un orizzonte. La libertà arriverà, inevitabilmente. Se è giunto il momento per me di pagare il prezzo dei miei impegni, a nome della tormentata giovane generazione nata tra il vecchio regime di Hassan II e il cosiddetto nuovo regime di Maometto VI, sono pronto a pagarlo con coraggio. Andrò verso il mio destino rassicurato, sorridente e con la coscienza pulita.

Omar Radi giugno 2020


Omar Radi, conosciuto in Marocco e all’estero per il suo impegno sociale e in difesa delle libertà, è stato arrestato il 29 luglio 2020.
Le accuse nei suoi confronto sono duplici: “aver ricevuto soldi provenienti dall’estero per attaccare la sicurezza interna dello stato e avere contatti con agenti di paesi stranieri per nuocere alle attività diplomatiche del Marocco” oltre che “aver attentato al pudore con la violenza e lo stupro”, dopo l’accusa contro di lui fatta da una donna.
Sono accuse gravi che trovano spiegazione solo in una chiara volontà di vero e proprio accanimento repressivo ad ogni costo, attraverso false accuse giudiziarie e denigrazioni accompagnate da campagne di diffamazione, nei confronti di chi non smette di essere una voce critica nel paese.

Omar di trova ora nel carcere di Oukacha a Casablanca. In attesa della prima udienza in tribunale il 22 settembre. Intanto in tutto il mondo ci si sta mobilitando per la sua immediata libertà.

Chi è Omar Radi?

Fin dal 2011 è impegnato nelle mobilitazioni per la libertà e i diritti. La chiarezza delle sue analisi sul "Movimento del 20 febbraio" , nato in Marocco sull’onda della Primavera Araba, lo fanno conoscere non solo localmente ma anche a livello internazionale.
Un impegno che non smette in questi anni e che continua con articoli e reportage di denuncia, come quelli attuali per il sito ledesk sul tema del landgrabbing o sulle disfunzioni e malversazioni nella gestione governativa del Covid 19.
dicembre 2019 è arrestato per aver pubblicato un commento di dura critica al giudice che aveva condannato i manifestanti durante le proteste del 2016/2017 portate avanti da movimenti sociali nella zona del RIF a nord del paese.
marzo 2020 viene condannato per oltraggio a 4 mesi di carcere e a pagare una multa. ma la pena viene sospesa. Attorno al suo arresto si crea una ampia campagna di mobilitazione sia in Marocco che all’estero.

 

Cyberspionaggio e diffamazioni dietro l’arresto di Omar Radi?

Il 10 ottobre 2019 Amnesty International pubblica un rapporto in cui denuncia un’operazione di cyberspionaggio contro due attivisti marocchini.
Sono Maati Monjib, universitario e attivista impegnato sulle questioni della libertà d’espressione già perseguitato per il suo impegno nella diffusione del giornalismo indipendente e Abdessadak El Bouchattaoui, avvocato specializzato in diritti umani già condannato per il suo impegno nella difesa dei manifestanti del movimento Hirak, sviluppatosi nella regione del Rif tra il 2016 e il 2017.

L’intrusione telematica è opera dell’impresa israeliana Nso group, specializzata nello sviluppo di software di sorveglianza, utilizzato in molti casi dai governi per spiare attivisti ed oppositori. Si tratta di Pegasus quello che in gergo è chiamato “network injection”, cioè la deviazione della connessione di un dispositivo verso un indirizzo controllato.
Un’operazione chiaramente voluta dal governo marocchino, che ovviamente nega ogni responsabilità.

 

A giugno 2020 sempre Amnesty International denuncia che anche Omar è sottoposto allo stesso trattamento di cyber controllo, come viene raccontato in numerosi articoli di testate internazionali come Le monde e Internazionale

E’ lo stesso Omar a parlarne in una intervista il 22 giugno 2020 sempre su Le monde in cui sottolinea che “le loro tecnologie sono di gran lunga superiori a tutte le possibilità della comunità di hacker o degli attivisti impegnati nella protezione della privacy e dei giornalisti. Quindi la cosa migliore è rendere il tutto difficile, aggiornando, cambiando i dispositivi e cercando specialmente di evitare di usarli”.
Alla domanda della giornalista su chi pensa siano i responsabili risponde: “ Il DST (un servizio segreto marocchino) interviene molto ... È come il DGSI (servizio segreto francese). Dovrebbero monitorare il territorio, ma intervengono anche molto in campo politico … Fanno un sacco di lavoro sporco”.

Guarda caso proprio a pochi giorni da questa denuncia, che chiaramente mette sotto i riflettori le pratiche non certo limpide del Governo marocchino, Omar è convocato per diversi interrogatori presso la “Brigade Nationale de la Police Judiciaire”.
Formalmente si tratta di una inchiesta preliminare per la sua presunta implicazione nell’aver ricevuto fondi esteri attraverso collegamenti con servizi segreti stranieri.
Ogni interrogatorio dura dalle 6 alle 9 ore.
Una forma di pressione psicologica a cui Omar risponde dicendo: “io non sono e non sarò mai al servizio di un potere straniero, non sono né una spia né un agente pagato da fondi stranieri” ed aggiunge “i giornalisti che criticano l’approccio securitario del Marocco sono i più vulnerabili alle rappresaglie” .

Si tratta di una vera e propria persecuzione, come denunciano numerose organizzazioni in difesa dei diritti umani, come si può leggere nel comunicato della FIDH (Féderation Internationale pour les droits Humains).

A questo si aggiunge l’infamante accusa di violenza sessuale. Omar, prima di essere definitivamente incarcerato invia una nota per fare chiarezza su questa squallida montatura.

In questo caso ci addentriamo in un’altra pratica sporca che viene utilizzata contro gli oppositori, una vera e propria “macchina del fango”.
Costruire false accuse che si intrecciano a una campagna di denigrazione portata avanti anche da strumenti di comunicazione asserviti al potere.
Non è una pratica nuova nel paese, un mix di denunce formali e porcherie informative volte a soffocare chi si oppone. Sul versante degli strumenti di comunicazione la cosa è così evidente che proprio lo scorso giugno 110 giornalisti avevano lanciato un appello alle autorità marocchine perchè si prendano delle misure contro il modo diffamatorio e calunnioso con cui diversi media mainstream attuano contro le voci critiche come Omar. Nell’appello si dice: "ogni volta che le autorità hanno perseguito una voce critica, certi siti e giornali si sono sbrigati a scrivere degli articoli diffamatori senza alcuna etica professionale che dovrebbe guidare, secondo le leggi, la stampa in Marocco”.
Tra cyberspionaggio, intrusione nella privacy, false accuse e denigrazioni, la gamma delle misure sporche e sordide non ha limiti.

Omar Radi non è l’unico caso di persecuzione contro la libertà d’espressione.

Formalmente il Marocco dal 2016 ha adottato un nuovo Codice della stampa, che in teoria, contrariamente a prima, non prevede il carcere per delitti collegati alla espressione delle proprie idee. Ma nel Codice Penale continuano ad esserci reati quali la “mancanza di rispetto al re”, “l’offesa alle istituzioni dello stato” e l’”oltraggio a funzionari pubblici”, definiti così genericamente che permettono un’ampio raggio d’azione alle autorità.

Human Right Wacth nel febbraio 2020 in un ampio rapporto intitolato “Marocco: una campagna di repressione contro chi utilizza i social network” analizza 11 casi emblematici, tra cui anche Omar Radi.

Soufian Al-Nguad accusato di incitazione ad una manifestazione non autorizzata per aver postato in FB un appello a manifestare sul caso di un giovane ucciso dalla guardia costiera marocchina mentre cercava di migrare su una barca a Gibilterra e condannato a 2 anni di carcere per “incitamento a manifestazione non autorizzata”.

Mohamed Mounir (Gnawi) rapper dopo aver realizzato con altri musicisti il pezzo 3ach cha3b di critica al re e al potere, che raggiunge 22 milioni di visite su You Tube, viene arrestato e condannato ad un anno per “oltraggio a pubblico ufficiale”, perchè qualche giorno prima dell’uscita del brano aveva criticato la polizia.

Mohamed Sekkaki (Moul Kaskita) pubblica on line un video di critiche al re, viene arrestato, accusato anche di possesso di cannabis (accusa che lui nega) e condannato a 4 anni di prigione.

Mohamed Ben Boudouh (Moul Hanout) accusato di aver pubblicato in FB video di critiche al re, viene condannato a tre anni per “offesa alle istituzioni costituzionali e oltraggio a pubblico ufficiale”.

Youssef Moujahid accusato di aver pubblicato estratti di un video su You Tube di Ben Boudoh è condannato di complicità a tre anni per “offesa alle istituzioni costituzionali e oltraggio a pubblico ufficiale”.

Hamza Sabbaar giovane liceale rapper è accusato di aver fatto circolare contenuti ritenuti “offensivi delle istituzioni costituzionali” è condannato in primo grado a 4 anni, riidotti poi in appello a 8 mesi.

Said Chakour accusato di aver postato delle critiche al servizio sanitario e al sistema è condannato per "oltraggio a funzionario pubblico” e condannato a due anni di prigione.

Abdelali Bahmad (Bouda) accusato di “offesa alla bandiera e ai simboli della nazione per aver postato una foto di un drappo con l’immagine di Che Guevara preferendolo alla bandiera marocchina, è condannato a 2 anni di carcere.

Ayoub Mahfoud giovane liceale di 18 anni è condannato ad un anno per ”oltraggio a funzionario pubblico per aver ripreso su FB frasi dalla canzone rap 3ach cha3b.

Adnan Ahmadoun è accusato di incitazione alla ribellione per aver invitato a partecipare a manifestazioni di protesta ed è condannato a 4 mesi.

Marocco la "modernità"?

Intanto chiariamoci subito: nel terzo millennio stiamo ancora parlando di una monarchia a successione blindata.
Sul trono siede dal 30 luglio 1999 Mohammed VI, appartenente ovviamente alla dinastia degli sceicchi Alawide, succeduto al padre re Hassan II.
Fin dalla sua ascesa al trono viene definito un “modernizzatore”.
Giusto per capirci il suo patrimonio personale è stimato, in numerosi rapporti, per il 2019 attorno al 2 miliardi di dollari.
Essere re permette di assumere automaticamente la carica di capo dello stato, dell’esercito marocchino e massima autorità islamica del paese.

Di fronte alle mobilitazioni nell’epoca della Primavera Araba del 2011, di cui nel paese è stato protagonista il Movimento 20 febbraio, il giovane re reagisce in maniera formalmente aperturista: viene approvata una nuova Costituzione che amplia i poteri del primo ministro e del Parlamento e limita, per così dire, i poteri del re che ora può scegliere, all’interno del partito vincitore delle elezioni, il capo del governo.
Le ultime elezioni sono nel 2016, con un affluenza di circa il 40%. Si riconferma in testa il Partito della giustizia e dello sviluppo (PJD) seguito dal Partito Autenticità e Modernità, considerato vicino al Re. Fatto sta che la mancanza di una maggioranza chiara porta alla solita grande coalizione, dove i soliti noti si spartiscono quote di potere tra vari rimpasti e crisi.

Nel paese, nonostante un controllo repressivo capillare, magari meno vistoso del passato ma altrettanto implacabile, si alternano proteste sociali e mobilitazioni per i diritti.

Aumenta costantemente la forbice sociale tra chi beneficia della “modernizzazione”, fatta di grandi opere e investimenti strutturali, visti di buon occhio dal FMI, e chi, nelle zone rurali e nelle periferie, continua a far fatica a sbarcare il lunario ed in molti casi si trova disoccupato ed emarginato.

Il Marocco nel suo processo di “modernizzazione” diventa anche una sorte di frontiera esternalizzata dell’Europa con un trattamento durissimo, accompagnato da un razzismo crescente, contro gli africani che dal centro del continente cercano di raggiungere i confini spagnoli, nell’enclave di Ceuta e Melilla.

Non può mancare nella corsa alla “modernità” una scaltra relazione con la Cina.
Nel 2016, con la visita di Mohammed VI in Cina e l’incontro con Xi Jinping vengono siglati 15 accordi commerciali, che riguardano le energie rinnovabili, l’alta velocità, i trasporti, la logistica ed il settore bancario ed un memorandum di intesa per la costruzione di una Zona Franca, una cittadella industriale di 2000 ettari a Tangeri.

Tutto procede velocemente, tanto è vero che gli investimenti diretti cinesi nel paese passano dai 6,6 milioni di dollari nel 2009/2013, ai 2 milioni nel 2014 e ai 200 milioni nel 2019.
Poi arriva il Covid 19 ed ora la situazione è in stallo.

Ma non c’è dubbio che questa “moderna”, e fruttuosa relazione , come ben descritto nel articolo di Limes on line curato da Alessandro Balduzzi è destinata a continuare.
Il Marocco offre alla Repubblica Popolare Cinese, alle prese con la costruzione della nuova Via della seta, alcune cose imperdibili come una collocazione intermedia tra Africa e Europa, la possibilità che il Porto di Tangeri diventi un Hub da cui smerciare in tutta l’Africa, la disponibilità di una buona rete di banche in tutto il continente.

Una “modernizzazione” a tutto tondo perfettamente inserita nelle dinamiche dell’attuale sistema del capitale finanziario.
Una “modernizzazione” che permette alle elite al potere, comprese quelle legate alle forme di Islam politico cosidetto “moderato”, di vedere aumentare i propri profitti, perpetrare nei meccanismi di corruzione, mantenendo intatto il makhzen (definizione della struttura di controllo politico ed economico capillare su cui si regge il regime).
Una “modernizzazione” che non porta nessun miglioramento strutturale alle dinamiche sociali complessive che spingono ampie fette della popolazione sempre più nella marginalità.

Se a questa “modernizzazione” aggiungiamo un maquillage solo di facciata, per altro ben attenta a non dispiacere ai dettami religiosi, dei diritti legati alle libertà d’espressione collettive e personali, il gioco è fatto e siamo entrati a pieno titolo nella “modernità”.

Che fare?

E’ una stretta strangolante che non riguarda solo il Marocco ma tante altre zone del Maghreb e non solo.
Dopo la Primavera Araba, pur con mille differenze, nelle maglie di giochi per il comando di vecchi e nuovi poteri, abbiamo visto costruire troppe false alternative politiche/istituzionali, che hanno riperpetrato lo status quo, forze prima impegnate con i movimenti non solo scendere a patti ma farsi conniventi, il ripetersi di tentativi di ingabbiare le mobilitazioni in clichè già definitivi e la strumentalizzazioni dei conflitti sociali, acuiti dalla miseria, da parte di organizzazioni del radicalismo religioso.

Di fronte a questa “modernità” appoggiare e sostenere Omar Radi, gli attivisti in Marocco, come in Tunisia, in Algeria, in Iraq e di tanti altri paesi è fondamentale.

Solo da donne e uomini che cercano percorsi innovativi, fuori dagli schemi, mettendosi in gioco nel trovare nuove sinergie, può forse nascere un cambiamento radicale, di cui si ha bisogno non solo in questa parte di mondo ma ovunque.

Per tornare da dove siamo partiti lasciamo la parola a Omar Radi, nel lontano 2012, prima di essere invitato l’anno successivo in Italia per parlare di quel che succedeva dopo la Primavera Araba, insieme ad altri attivisti tunisini ed egiziani.

“In Marocco la maggioranza della popolazione nasconde un’indignazione profonda, un malessere sociale e un sentimento di frustrazione che né la riforma della costituzione né le iniziative filantropiche promosse dalle fondazioni reali sono riuscite ad intaccare. Tuttavia, solo quando a questi fattori riusciremo ad aggiungere il coraggio e la consapevolezza collettiva, avremo la maturità e la forza necessaria per raggiungere gli obiettivi prefissi.”

da qui

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