L’oppressione non è un orizzonte. La libertà arriverà, inevitabilmente. Se è giunto il momento per me di pagare il prezzo dei miei impegni, a nome della tormentata giovane generazione nata tra il vecchio regime di Hassan II e il cosiddetto nuovo regime di Maometto VI, sono pronto a pagarlo con coraggio. Andrò verso il mio destino rassicurato, sorridente e con la coscienza pulita.
Omar Radi giugno 2020
Omar Radi, conosciuto in Marocco e all’estero per
il suo impegno sociale e in difesa delle libertà, è stato arrestato il 29 luglio 2020.
Le accuse nei suoi confronto sono duplici: “aver ricevuto soldi
provenienti dall’estero per attaccare la sicurezza interna dello stato e avere
contatti con agenti di paesi stranieri per nuocere alle attività diplomatiche
del Marocco” oltre che “aver attentato al pudore
con la violenza e lo stupro”, dopo l’accusa contro di lui fatta da
una donna.
Sono accuse gravi che trovano spiegazione solo in
una chiara volontà di vero e proprio accanimento repressivo ad ogni
costo, attraverso false accuse giudiziarie e denigrazioni
accompagnate da campagne di diffamazione, nei confronti di chi non smette
di essere una voce critica nel paese.
Omar di trova ora nel carcere di Oukacha a Casablanca. In attesa della
prima udienza in tribunale il 22 settembre. Intanto in tutto il mondo ci si sta mobilitando per la sua immediata
libertà.
Chi è Omar Radi?
Fin dal 2011 è impegnato nelle mobilitazioni per la libertà e i diritti.
La chiarezza delle sue analisi sul "Movimento del 20 febbraio" , nato in
Marocco sull’onda della Primavera Araba, lo fanno conoscere non solo localmente
ma anche a livello internazionale.
Un impegno che non smette in questi anni e che continua con articoli e
reportage di denuncia, come quelli attuali per il sito ledesk sul tema del landgrabbing o sulle disfunzioni e
malversazioni nella gestione governativa del Covid 19.
A dicembre 2019 è arrestato per aver pubblicato un
commento di dura critica al giudice che aveva condannato i manifestanti durante
le proteste del 2016/2017 portate avanti
da movimenti sociali nella zona del RIF a nord del paese.
A marzo 2020 viene condannato per oltraggio a 4 mesi
di carcere e a pagare una multa. ma la pena viene sospesa. Attorno al suo
arresto si crea una ampia campagna di mobilitazione sia in Marocco che
all’estero.
Cyberspionaggio e diffamazioni dietro l’arresto di
Omar Radi?
Il 10 ottobre 2019 Amnesty International pubblica un rapporto in cui denuncia
un’operazione di cyberspionaggio contro due attivisti
marocchini.
Sono Maati Monjib, universitario e attivista impegnato sulle
questioni della libertà d’espressione già perseguitato per il suo
impegno nella diffusione del giornalismo indipendente e Abdessadak El Bouchattaoui, avvocato specializzato in
diritti umani già condannato per il suo
impegno nella difesa dei manifestanti del movimento Hirak, sviluppatosi nella
regione del Rif tra il 2016 e il 2017.
L’intrusione telematica è opera dell’impresa israeliana Nso group, specializzata nello
sviluppo di software di sorveglianza,
utilizzato in molti casi dai governi per spiare attivisti ed oppositori. Si
tratta di Pegasus quello che in gergo è chiamato “network injection”, cioè la deviazione della
connessione di un dispositivo verso un indirizzo controllato.
Un’operazione chiaramente voluta dal governo marocchino, che
ovviamente nega ogni responsabilità.
A giugno 2020 sempre Amnesty International denuncia che anche Omar è sottoposto allo stesso trattamento di cyber controllo,
come viene raccontato in numerosi articoli di testate internazionali come Le monde e Internazionale
E’ lo stesso Omar a parlarne in una intervista il 22 giugno 2020
sempre su Le monde in cui sottolinea che “le loro tecnologie sono di gran lunga superiori a tutte le
possibilità della comunità di hacker o degli attivisti impegnati nella
protezione della privacy e dei giornalisti. Quindi la cosa migliore è rendere
il tutto difficile, aggiornando, cambiando i dispositivi e cercando
specialmente di evitare di usarli”.
Alla domanda della giornalista su chi pensa siano i
responsabili risponde: “ Il DST (un servizio
segreto marocchino) interviene molto ... È come il DGSI (servizio segreto
francese). Dovrebbero monitorare il territorio, ma intervengono anche molto in
campo politico … Fanno un sacco di lavoro sporco”.
Guarda caso proprio a pochi giorni da questa denuncia,
che chiaramente mette sotto i riflettori le pratiche non certo limpide del
Governo marocchino, Omar è convocato per diversi interrogatori presso la
“Brigade Nationale de la Police Judiciaire”.
Formalmente si tratta di una inchiesta preliminare per
la sua presunta implicazione nell’aver ricevuto fondi esteri
attraverso collegamenti con servizi segreti stranieri.
Ogni interrogatorio dura dalle 6 alle 9 ore.
Una forma di pressione psicologica a cui Omar risponde dicendo: “io non sono e non sarò mai al servizio di un potere
straniero, non sono né una spia né un agente pagato da fondi stranieri” ed
aggiunge “i giornalisti che criticano l’approccio securitario del Marocco
sono i più vulnerabili alle rappresaglie” .
Si tratta di una vera e propria persecuzione,
come denunciano numerose organizzazioni in difesa dei diritti umani, come si
può leggere nel comunicato della FIDH (Féderation
Internationale pour les droits Humains).
A questo si aggiunge l’infamante accusa di violenza sessuale.
Omar, prima di essere definitivamente incarcerato invia una nota per fare chiarezza su questa
squallida montatura.
In questo caso ci addentriamo in un’altra pratica sporca che viene
utilizzata contro gli oppositori, una vera e propria “macchina del fango”.
Costruire false accuse che si intrecciano a una campagna
di denigrazione portata avanti anche da strumenti di
comunicazione asserviti al potere.
Non è una pratica nuova nel paese, un mix di denunce formali e porcherie
informative volte a soffocare chi si oppone. Sul versante degli
strumenti di comunicazione la cosa è così evidente che proprio lo scorso
giugno 110 giornalisti avevano lanciato un
appello alle autorità marocchine perchè si prendano delle misure contro il
modo diffamatorio e calunnioso con cui diversi media mainstream attuano contro
le voci critiche come Omar. Nell’appello si dice: "ogni volta che le autorità hanno perseguito una voce
critica, certi siti e giornali si sono sbrigati a scrivere degli articoli
diffamatori senza alcuna etica professionale che dovrebbe guidare, secondo le
leggi, la stampa in Marocco”.
Tra cyberspionaggio, intrusione nella privacy, false accuse e
denigrazioni, la gamma delle misure sporche e sordide non ha limiti.
Omar Radi non è l’unico caso di persecuzione contro la
libertà d’espressione.
Formalmente il Marocco dal 2016 ha adottato un nuovo
Codice della stampa, che in teoria, contrariamente a prima, non
prevede il carcere per delitti collegati alla espressione delle proprie idee.
Ma nel Codice Penale continuano ad esserci reati quali la “mancanza di rispetto al re”, “l’offesa alle istituzioni
dello stato” e l’”oltraggio a funzionari pubblici”, definiti così genericamente che permettono un’ampio raggio
d’azione alle autorità.
Human Right Wacth nel febbraio 2020 in
un ampio rapporto intitolato “Marocco: una campagna di repressione contro chi utilizza i social
network” analizza 11 casi emblematici, tra cui
anche Omar Radi.
Soufian Al-Nguad accusato di
incitazione ad una manifestazione non autorizzata per aver postato in FB un
appello a manifestare sul caso di un giovane ucciso dalla guardia costiera
marocchina mentre cercava di migrare su una barca a Gibilterra e condannato a 2
anni di carcere per “incitamento a manifestazione non autorizzata”.
Mohamed Mounir (Gnawi) rapper dopo aver
realizzato con altri musicisti il pezzo 3ach cha3b di critica al re e al potere, che
raggiunge 22 milioni di visite su You Tube, viene arrestato e condannato ad un
anno per “oltraggio a pubblico ufficiale”, perchè qualche giorno prima
dell’uscita del brano aveva criticato la polizia.
Mohamed Sekkaki (Moul Kaskita) pubblica on line
un video di critiche al re, viene arrestato, accusato anche di possesso di
cannabis (accusa che lui nega) e condannato a 4 anni di prigione.
Mohamed Ben Boudouh (Moul Hanout) accusato di aver
pubblicato in FB video di critiche al re, viene condannato a tre anni per
“offesa alle istituzioni costituzionali e oltraggio a pubblico ufficiale”.
Youssef Moujahid accusato di aver
pubblicato estratti di un video su You Tube di Ben Boudoh è condannato di
complicità a tre anni per “offesa alle istituzioni costituzionali e oltraggio a
pubblico ufficiale”.
Hamza Sabbaar giovane liceale
rapper è accusato di aver fatto circolare contenuti ritenuti “offensivi delle
istituzioni costituzionali” è condannato in primo grado a 4 anni, riidotti poi
in appello a 8 mesi.
Said Chakour accusato di aver
postato delle critiche al servizio sanitario e al sistema è condannato per
"oltraggio a funzionario pubblico” e condannato a due anni di prigione.
Abdelali Bahmad (Bouda) accusato di
“offesa alla bandiera e ai simboli della nazione per aver postato una foto di
un drappo con l’immagine di Che Guevara preferendolo alla bandiera marocchina,
è condannato a 2 anni di carcere.
Ayoub Mahfoud giovane liceale
di 18 anni è condannato ad un anno per ”oltraggio a funzionario pubblico per
aver ripreso su FB frasi dalla canzone rap 3ach cha3b.
Adnan Ahmadoun è accusato di
incitazione alla ribellione per aver invitato a partecipare a manifestazioni di
protesta ed è condannato a 4 mesi.
Marocco la "modernità"?
Intanto chiariamoci subito: nel terzo millennio stiamo
ancora parlando di una monarchia a successione blindata.
Sul trono siede dal 30 luglio 1999 Mohammed VI,
appartenente ovviamente alla dinastia degli sceicchi Alawide, succeduto al
padre re Hassan II.
Fin dalla sua ascesa al trono viene definito un “modernizzatore”.
Giusto per capirci il suo patrimonio personale è stimato, in
numerosi rapporti, per il 2019 attorno al 2 miliardi di dollari.
Essere re permette di assumere automaticamente la carica di capo dello stato, dell’esercito marocchino e massima autorità
islamica del paese.
Di fronte alle mobilitazioni nell’epoca della Primavera Araba del 2011, di cui nel paese è stato
protagonista il Movimento 20 febbraio, il giovane re reagisce in
maniera formalmente aperturista: viene approvata una nuova
Costituzione che amplia i poteri del primo ministro e del Parlamento e limita,
per così dire, i poteri del re che ora può scegliere, all’interno del partito
vincitore delle elezioni, il capo del governo.
Le ultime elezioni sono nel 2016, con un affluenza di
circa il 40%. Si riconferma in testa il Partito della giustizia e dello
sviluppo (PJD) seguito dal Partito Autenticità e Modernità, considerato vicino
al Re. Fatto sta che la mancanza di una maggioranza
chiara porta alla solita grande coalizione, dove i soliti noti si
spartiscono quote di potere tra vari rimpasti e crisi.
Nel paese, nonostante un controllo repressivo capillare,
magari meno vistoso del passato ma altrettanto implacabile, si alternano
proteste sociali e mobilitazioni per i diritti.
Aumenta costantemente la forbice sociale tra chi beneficia
della “modernizzazione”, fatta di grandi opere e investimenti strutturali,
visti di buon occhio dal FMI, e chi, nelle zone rurali e nelle periferie,
continua a far fatica a sbarcare il lunario ed in molti casi si trova
disoccupato ed emarginato.
Il Marocco nel suo processo di “modernizzazione” diventa anche una sorte
di frontiera esternalizzata dell’Europa con un
trattamento durissimo, accompagnato da un razzismo crescente, contro gli
africani che dal centro del continente cercano di raggiungere i confini
spagnoli, nell’enclave di Ceuta e Melilla.
Non può mancare nella corsa alla “modernità” una
scaltra relazione con la Cina.
Nel 2016, con la visita di Mohammed VI in Cina e l’incontro con
Xi Jinping vengono siglati 15 accordi commerciali,
che riguardano le energie rinnovabili, l’alta velocità, i trasporti, la
logistica ed il settore bancario ed un memorandum di intesa per la
costruzione di una Zona Franca, una cittadella industriale di 2000
ettari a Tangeri.
Tutto procede velocemente, tanto è vero che gli investimenti diretti cinesi nel paese passano dai
6,6 milioni di dollari nel 2009/2013, ai 2 milioni nel 2014 e ai 200 milioni nel 2019.
Poi arriva il Covid 19 ed ora la situazione è in stallo.
Ma non c’è dubbio che questa “moderna”, e fruttuosa relazione , come ben
descritto nel articolo di Limes on line curato
da Alessandro Balduzzi è destinata a continuare.
Il Marocco offre alla Repubblica Popolare Cinese, alle prese con la
costruzione della nuova Via della seta, alcune cose imperdibili come
una collocazione intermedia tra Africa e Europa, la possibilità che il Porto di
Tangeri diventi un Hub da cui smerciare in tutta l’Africa, la disponibilità di
una buona rete di banche in tutto il continente.
Una “modernizzazione” a tutto tondo
perfettamente inserita nelle dinamiche dell’attuale sistema del capitale
finanziario.
Una “modernizzazione” che permette alle elite al
potere, comprese quelle legate alle forme di Islam politico cosidetto
“moderato”, di vedere aumentare i propri profitti, perpetrare nei meccanismi di
corruzione, mantenendo intatto il makhzen (definizione
della struttura di controllo politico ed economico capillare su cui si regge il
regime).
Una “modernizzazione” che non porta nessun
miglioramento strutturale alle dinamiche sociali complessive che spingono ampie
fette della popolazione sempre più nella marginalità.
Se a questa “modernizzazione” aggiungiamo un
maquillage solo di facciata, per altro ben attenta a non dispiacere ai dettami
religiosi, dei diritti legati alle libertà d’espressione collettive e
personali, il gioco è fatto e siamo entrati a pieno titolo nella “modernità”.
Che fare?
E’ una stretta strangolante che non
riguarda solo il Marocco ma tante altre zone del Maghreb e non solo.
Dopo la Primavera Araba, pur con mille differenze, nelle maglie di giochi per il comando di vecchi e nuovi poteri,
abbiamo visto costruire troppe false alternative politiche/istituzionali, che
hanno riperpetrato lo status quo, forze prima impegnate con i movimenti non
solo scendere a patti ma farsi conniventi, il ripetersi di tentativi di
ingabbiare le mobilitazioni in clichè già definitivi e la strumentalizzazioni
dei conflitti sociali, acuiti dalla miseria, da parte di organizzazioni del
radicalismo religioso.
Di fronte a questa “modernità” appoggiare e sostenere
Omar Radi, gli attivisti in Marocco, come in Tunisia, in Algeria, in Iraq e di tanti altri
paesi è fondamentale.
Solo da donne e uomini che cercano percorsi
innovativi, fuori dagli schemi, mettendosi in gioco nel trovare
nuove sinergie, può forse nascere un cambiamento radicale,
di cui si ha bisogno non solo in questa parte di mondo ma ovunque.
Per tornare da dove siamo partiti lasciamo la parola a Omar Radi, nel lontano 2012,
prima di essere invitato l’anno successivo in Italia per parlare di quel che
succedeva dopo la Primavera Araba, insieme ad altri attivisti tunisini ed
egiziani.
“In Marocco la maggioranza della popolazione nasconde
un’indignazione profonda, un malessere sociale e un sentimento di frustrazione
che né la riforma della costituzione né le iniziative filantropiche promosse
dalle fondazioni reali sono riuscite ad intaccare. Tuttavia, solo quando a
questi fattori riusciremo ad aggiungere il coraggio e la consapevolezza
collettiva, avremo la maturità e la forza necessaria per raggiungere gli
obiettivi prefissi.”
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