I riders latinoamericani lanciano lo sciopero globale - Paolo Marinaro
Con la pandemia sono stati classificati
lavoratori essenziali. Aumentano i profitti del settore, non i salari e la sicurezza.
Dopo scioperi in Messico, Perù, Ecuador, Colombia, Cile, Argentina e Brasile,
arriva una data globale: 8 ottobre
Lo sciopero internazionale è un grido di soccorso di noi riders. Il rischio
che corriamo quotidianamente lavorando in bicicletta o in moto nel traffico di
grandi metropoli, ora si è aggravato a causa della pandemia. È molto importante
che ci uniamo, con tutta la classe lavoratrice, anche in altri paesi,
includendo i clienti che usano le applicazioni. Questa è una lotta di tutti. (Rider
di San Paolo, Brasile)
Il 25 di agosto, una delegazione di riders dal Messico, Argentina, Brasile,
Colombia, Cile ed Ecuador ha organizzato un’assemblea online per annunciare una
giornata di sciopero e mobilizzazione globale programmata per l’8 Ottobre. Alla
riunione hanno partecipato anche il collettivo spagnolo Riders Por Derechos,
delegati dell’organizzazione sindacale inglese dei Lavoratori Indipendenti
della Gran Bretagna (Iwgb) e la sezione californiana del sindacato nord
americano dei lavoratori del settore dei servizi (Seiu Local 721).
Maximiliano Martinez, o Massi, come lo chiamano i compagni, è uno dei
leader del movimento in Argentina. «Il nostro obiettivo oggi è quello di
rinforzare l’unità internazionale dei riders. Da quando è stata dichiarata la
pandemia ci siamo accorti che la precarizzazione non è un problema nazionale, è
un processo che si sta riproducendo come un calco in tutto il mondo. I bassi
salari, le giornate di lavoro lunghissime, la quantità di incidenti e la totale
mancanza di risposta da parte della controparte padronale ci hanno incoraggiato
a iniziare una conversazione con le compagne e i compagni che fanno questo
lavoro nella regione latinoamericana, ma anche negli Stati uniti, in Giappone,
in India, in Inghilterra, in Spagna e in diversi altri paesi. Vogliamo definire
un programma comune di rivendicazioni e costruire consenso internazionale
intorno a una posizione politica chiara rispetto alle imprese e ai governi che
stanno facilitando lo sfruttamento dei riders in una situazione d’emergenza
come quella della crisi sanitaria del Covid-19».
Dall’inizio della pandemia, i governi dei paesi colpiti hanno classificato
i riders come lavoratori essenziali. Le imprese che operano attraverso
piattaforme digitali hanno incrementato esponenzialmente i profitti, esponendo
i riders a una grave minaccia per la salute. D’altra parte, il riconoscimento
dell’essenzialità del servizio di delivery per il funzionamento della società
non si è accompagnato a una ricompensa economica, né a un incremento delle
protezioni sociali e delle misure di sicurezza per tutelare la salute dei
riders e delle loro famiglie. Al contrario, la pandemia ha esacerbato la vulnerabilitá di queste lavoratrici e lavoratori
in tutto il mondo, e le imprese in molti paesi hanno ridotto in modo univoco e
arbitrario i pagamenti di chi fa le consegne.
Come suggerisce Massi, la lotta di classe all’epoca del capitalismo pandemico deve trascendere i confini nazionali
e articolare le richieste delle lavoratrici e dei lavoratori su scala
transnazionale. Infatti, i riders latino-americani, che hanno promosso la
riunione globale, hanno già organizzato tre scioperi internazionali dall’inizio
della pandemia. Il 29 maggio, l’1 e il 25 luglio, decine di migliaia di riders
hanno sfilato in moto e in bicicletta verso i ministeri del lavoro in Messico,
Guatemala, Costa Rica, Ecuador, Perú, Brasile, Cile e Argentina. Da
Brasilia a Buenos Aires, da Santiago a Città del Messico, i riders
latinoamericani si sono organizzati per reclamare maggiori protezioni sociali e
l’accesso ai diritti del lavoro garantiti dalle leggi nazionali, oltre a una
serie di misure più puntuali che rispondono all’emergenza Coronavirus. Alcune
delle richieste riguardano i dispositivi di protezione personale, il congedo
per malattia, l’assicurazione sulla vita, il risarcimento per le famiglie dei
compagni e le compagne cadute sul lavoro, la sospensione del sistema di ranking
che obbliga a lavorare sette giorni a settimana per dodici ore al giorno, oltre
a un aumento del pagamento per consegna e per km durante la contingenza
sanitaria.
Una nuova forma di internazionalismo
Gli scioperi internazionali e le giornate di azione globale sono state
promosse da diversi collettivi di base latinoamericani: Agrupación Trabajadores
de Reparto (Aggruppamento Ciclo-fattorini) in
Argentina, #NiUnRepartidorMenos Internacional (Non Un Rider Di Meno
Internazionale) che ha membri in Messico, Perù, Ecuador, Colombia, Cile e
Argentina, gli Entregadores Antifascistas (Riders Anti-fascisti)
e Treta No Trampo in Brasile, Glovers Ecuador, Darle Vuelta
A Todo (Capovolgere Tutto) in Argentina, Riders Unidos e
Ya (Riders Uniti Ora) in Cile. Un vero e proprio laboratorio di classe,
come ha suggerito Rafael Groham, che promuove importanti innovazioni
strategiche per il futuro del movimento delle lavoratrici e dei
lavoratori.
La centralità di organizzazioni e collettivi di base nella creazione di
reti di attivismo internazionale e nella promozione di strategie di
comunicazione che permettono di superare le frontiere nazionali e le barriere
linguistiche, è una novità significativa per la militanza globale delle
lavoratrici e dei lavoratori. A partire dagli anni Novanta, con l’obiettivo di
affrontare le imprese multinazionali su scala globale, i sindacati, le Ong e
altre organizzazioni internazionali hanno giocato un ruolo centrale nella
politica delle alleanze transnazionali dei lavoratori. Nel caso dei riders,
invece, sono proprio le lavoratrici e i lavoratori, in modo autonomo e
autogestito che stanno costruendo una risposta globale alle imprese
multinazionali della gig-economy.
Il regime del falso autonomo
D’altra parte, la marginalità dei sindacati nel movimento dei riders
latinoamericani non è solamente una scelta strategica, una forma di rifiuto
della burocrazia sindacale e delle diplomazie internazionali. Si tratta di una
questione di necessità, imposta dalle politiche industriali delle piattaforme
digitali che assumono i riders come lavoratori e lavoratrici
indipendenti.
A Febbraio, a Città del Messico, ho conosciuto Daniel, che ha 56 anni e
lavora con Rappi, l’impresa di food delivery colombiana leader nel mercato
latinoamericano. Daniel vive con sua moglie e due figlie a Tlahuac, che si
trova a tre ore di distanza da Città del Messico. Ogni mattina parte alle
cinque da Tlahuac con la sua bicicletta, la carica sul bus e poi sulla metro
affollata della capitale messicana, per raggiungere i quartieri coperti dalle
applicazioni in tempo per consegnare le prime colazioni. Daniel dice che questo
lavoro gli piace perché alla sua età è importante tenersi in forma e pedalare
gli fa bene, ma allo stesso tempo non ha dubbi rispetto alla sua condizione che
definisce di falso-autonomo.
Un lavoratore indipendente può decidere dove, quando e per quanto lavorare,
ma con le piattaforme questo non è possibile, altrimenti non farei sei ore di
viaggio al giorno per venire in centro. Fin dal momento della formazione che
offre l’impresa, ti dicono in modo molto chiaro: tu non lavori per noi, tu usi
l’applicazione per guadagnare, ma non sei un dipendente. In realtà lavori
proprio per loro e sei un dipendente a tutti gli effetti. Infatti, con il
sistema di punti che hanno implementato, devi collegarti in certe fasce orarie
e per una quantità minima di ore, altrimenti ti disconnettono e perdi il
lavoro.
Secondo i collettivi che hanno promosso la giornata d’azione globale, il
regime del falso-autonomo è una manipolazione legale delle imprese per evitare
i costi del lavoro ed evadere le responsabilità stabilite dalle leggi
nazionali. La classificazione come lavoratore autonomo o dipendente ha
importanti conseguenze legali, in quanto coincide con diversi doveri per le
imprese e diritti per chi lavora. I lavoratori dipendenti hanno diritto alla
previdenza sociale e all’assicurazione sanitaria, mentre i lavoratori autonomi,
o falsamente-autonomi, perdono l’accesso a una serie di diritti garantiti dalle
leggi nazionali, includendo il diritto a organizzarsi in un sindacato che
rappresenti i propri interessi con le imprese e alla negoziazione
collettiva.
La classificazione della relazione di lavoro è una delle richieste centrali
della giornata d’azione globale. Infatti, proprio a Ottobre, in California, si
voterà per una proposta di legge, che minaccia di annullare le recenti
conquiste dei lavoratori e le lavoratrici californiane della gig-economy. In
California, a partire dal primo gennaio del 2020 è entrata in vigore la legge
AB5, che facilita il riconoscimento come lavoratrici e lavoratori dipendenti di
coloro che prestano servizi per imprese che operano attraverso piattaforme
digitali. Il nuovo disegno di legge, invece, pretende ritornare alla formula
del lavoratore autonomo stabilendo un precedente legale che potrebbe avere
ripercussioni in tutto il mondo.
«In Messico, se muoio sul lavoro, se perdo la vita mentre esco per
guadagnare due pesos, nessuno aiuta la mia famiglia, nessuno obbliga l’impresa
a farsi carico del rapporto di lavoro o a garantire un indennizzo. L’8 Ottobre
dobbiamo unirci per colpire le imprese dell’economia digitale a casa loro, in
un territorio simbolico, dove questo modello economico è nato solamente pochi
anni fa», ha concluso durante l’assemblea Saul Gómez, uno dei fondatori del
collettivo Ni Un Repartidor Menos.
Non Un Rider di Meno
Saul ha 33 anni e lavora per diverse imprese di food-delivery a Città del
Messico. L’ho incontrato con la sua bici, per la prima volta, a ottobre del
2019. Ci siamo visti di fronte a una caffetteria di Coyoacán, il quartiere dove
hanno vissuto Frida Khalo e Diego Rivera, nel sud di Città del Messico, a pochi
isolati dalla casa in cui León Trotsky trovò rifugio durante il suo esilio. Ci
siamo seduti su una panchina, mentre Saul mi ha raccontato di Ni Un
Repartidor Menos. «Il collettivo nasce il 27 di Novembre del 2018, quando
alle due del pomeriggio, un camion dell’immondizia ha investito e ucciso un
compagno repartidor, Jose Manuel Matías. Era il suo primo giorno di
lavoro per UberEats e l’impresa ha negato qualsiasi responsabilità».
Da allora, solamente in Messico, oltre sessanta giovani uomini e donne
hanno perso la vita mentre stavano lavorando per le imprese del food-delivery,
e in nessun caso le multinazionali hanno offerto una forma di risarcimento
economico alle famiglie. In una città densa di contraddizioni, dove ogni giorno
oltre 22 milioni di persone si muovono a ritmi frenetici, gli incidenti
stradali, gli assalti, le rapine e le sparatorie sono all’ordine del giorno, e
chi lavora per strada è particolarmente vulnerabile.
Una compagna del collettivo Ni Un Repartidor Menos mi ha
raccontato l’esperienza delle donne che fanno questo lavoro in una città
come la capitale messicana: «Sfortunatamente viviamo in una società violenta e
maschilista. Qui la violenza sessuale è qualcosa che viviamo tutte, bambine,
bambini, e persone adulte. Non c’è distinzione. E con questo lavoro siamo
particolarmente esposte. Poco tempo fa, nel centro finanziario della città, un
cliente ha ricevuto una compagna sull’uscio di casa, completamente nudo e con
un’erezione. Noi lo abbiamo segnalato all’impresa, ma loro non hanno fatto
niente, non c’è stato nessun tipo di conseguenza per i clienti. Altre compagne
sono state violentate, ma le imprese non rispondono alle segnalazioni».
Neanche di fronte a ripetute denunce per molestie sessuali, le imprese
hanno preso provvedimenti per denunciare i clienti alle autorità o per lo meno
per evitare di mandare altre vittime a consegnare al loro domicilio. UberEats,
Rappi, Glovo e le altre piattaforme nascondono la responsabilità legale per le
centinaia di morti sul lavoro dietro la manipolazione del «falso-autonomo». E
purtroppo, con la pandemia, le vittime del capitalismo digitale continuano ad
aumentare.
Una lotta di Tutti
D’altra parte, la completa mancanza di protezione dei lavoratori non è una
novità introdotta dall’organizzazione digitale del lavoro. Storicamente, il
processo di decostruzione delle protezioni sociali e dei diritti del lavoro
conquistati nel dopoguerra, risale almeno alla fine degli anni Settanta. In
Italia, lo abbiamo conosciuto con la categoria «flessibilità», ed è il percorso
che progressivamente ci ha portato dai tradizionali contratti a tempo
indeterminato, con i quali si andava in pensione e si comprava la casa, ai
contratti interinali, che hanno incenerito le prospettive di stabilità di
intere generazioni. Nelle megalopoli latinoamericane invece, il lavoro
informale, o in nero, cioè senza contratto, è una delle principali fonti di
precarietà. In Messico, per esempio, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica
e Geografia, più del 53% della popolazione è impiegata nel mercato informale. E
dal 2016, quando le multinazionali della gig-economy sono arrivate nel paese,
sono in molti i lavoratori informali che sono passati a offrire i propri
servizi alle imprese che operano attraverso le app.
Il capitalismo digitale rappresenta una nuova fase dell’inesorabile
processo di precarizzazione e decostruzione delle protezioni sociali, che si
avvale degli algoritmi, l’automazione e l’intelligenza artificiale per ridurre
i costi del lavoro, aumentare il profitto di pochi azionisti e fuggire alla
responsabilità sociale delle imprese.
Poco prima dell’assemblea internazionale, ho avuto la possibilitá di
discutere di questi processi con Galo, che ha 31 anni ed è uno dei leader del
collettivo Entregadores Anti-Fascistas di San Paolo, in
Brasile. Per Galo, è chiaro che la lotta per la dignitá del lavoro deve
necessariamente essere antifascista, soprattutto in un contesto come quello del
Brasile governato da Jair Bolsonaro. Durante la nostra chiacchierata, Galo si è
riferito alla precarizzazione imposta dalle piattaforme del food-delivery con
la categoria «uberizzazione», che definisce come una
forma di controllo e organizzazione del lavoro risultato dell’evoluzione
tecnologica del capitalismo:
Con la rivoluzione industriale è stata introdotta una nuova tecnologia: la
macchina. Il padrone si è reso conto che una macchina poteva fare il lavoro di
dieci operai e gli permetteva di ridurre i costi di produzione, aumentando i
profitti. L’uberizzazione è un ulteriore sviluppo tecnologico del capitalismo
che sta avendo un enorme impatto sui diritti dei lavoratori. È importante
allora che tutti i lavoratori si uniscano per lottare contro l’uberizzazione
del lavoro, non solamente i riders, perché è un processo che si sta già
estendendo ad altri settori, come la rivoluzione industriale si è estesa dalle
fabbriche ai campi ed ha raggiunto tutti i lavoratori. Tutta la classe si deve
unire in questa lotta. Dobbiamo lottare perché la tecnologia sia al servizio
della classe lavoratrice, non del profitto dei padroni.
Galo suggerisce che l’esperienza dei riders è un modello per la classe
lavoratrice in generale. La gig-economy e la gamma di servizi offerti
attraverso piattaforme digitali si è ormai estesa a una quantità incalcolabile
di mansioni e professioni: dai lavori domestici ai servizi di traduzione e
consulenza. Per qualsiasi necessità del mercato, dalle operazioni più semplici
a quelle che richiedono sofisticate competenze professionali, esiste una
piattaforma digitale che offre personale qualificato a basso costo e senza
protezioni sociali, che può lavorare da casa o a domicilio, senza un contratto
di lavoro.
La pandemia ha accelerato il processo di «uberizzazione» o
«piattaformizzazione» del lavoro, a causa dell’introduzione di misure di
quarantena e distanziamento sociale. Servizi come quelli offerti dai riders,
che si avvalgono dell’utilizzo di tecnologie digitali per organizzare il lavoro
e il rapporto fra domanda e offerta, sono diventati uno strumento di
sopravvivenza nel nuovo scenario globale pandemico. Attraverso queste
tecnologie, la «nuova normalità», come si è iniziata a definire la
ristrutturazione pandemica del capitale, ha sferrato un ulteriore attacco ai
diritti del lavoro.
Una manipolazione ideologica così profonda – spiega Galo – che molti di noi
non si riconoscono più come lavoratori. L’obiettivo degli Entregadores
Antifascistas è di promuovere nuovamente l’identità e la dignità del lavoro a
partire dalla strada. Vogliamo fare della strada uno spazio politico come lo
sono state la fabbrica e la catena di montaggio. La lotta è una sola, ed è una
lotta politica, antifascista e antirazzista.
In questa fase storica, i riders sono un’avanguardia della resistenza
anticapitalista. Dobbiamo imparare dalla loro esperienza per identificare le
strategie attraverso cui ricostruire globalmente il potere dei lavoratori e
delle lavoratrici, senza contare sulle organizzazioni e le leggi che
tradizionalmente ne hanno rappresentato gli interessi, avvalendoci della la
tecnologia per costruire solidarietá, resistenza e antagonismo.
*Paolo Marinaro è un ricercatore che lavora con l’università della California a Los Angeles e il Center for Global Workers’ Rights. Si occupa di lavoro e movimenti sociali in Messico e negli Stati Uniti. La foto di apertura dell’articolo è di Julia Thompson e Renato Maretti.
Messico e riders: lavorare senza tutele ai tempi del
Covid-19 - Caterina Morbiato
Con la pandemia i riders affrontano un carico di lavoro maggiore.
Il sistema di valutazione delle app però non è andato in quarantena: ritardi o
ordini incompleti significano meno clienti. Avanza il Covid-19 e aumenta
anche l’insicurezza lavorativa.
(traduzione di Alessandro Bricco e Caterina Morbiato)
Circa quattro giorni fa, Mauricio Fluss é andato a
caccia di mascherine. Era notte fonda e aveva completato una parte dell’ordine
che un cliente aveva fatto attraverso l’applicazione di food delivery Rappi:
tonno in scatola, maionese, carta igienica. È stato facile, ha trovato un
SevenEleven (catena di negozi aperti 24 ore, ndr) aperto e si è
rifornito.
Mancava però un’altra parte dell’ordine: cinque
mascherine. E cosí ha pedalato per otto chilometri alla ricerca di una farmacia
aperta e, dopo averla trovata, ha pedalato per altri quattro chilometri per
trovarne una che non solo fosse aperta ma che avesse anche delle mascherine.
Un’ora e mezza dopo, vittorioso, aveva completato il suo ordine.
Ha guadagnato 33 pesos (1,25 euro).
La precarietà lavorativa alle stelle
Con l’avanzare della pandemia, gli ordini sono
diventati più lenti e più difficili da completare, come quando si tratta di
ottenere mascherine e guanti. E anche più pesanti dato che i riders che fanno
le consegne in bici possono trasportare fino a 25 kg tra frutta, verdura e
prodotti vari del supermercato.
D’altra parte, non portare a termine un ordine o
rifiutarlo non è un’opzione che tutti possono permettersi.
Il sistema di punteggio e valutazione delle
applicazioni non è andato in quarantena: i riders vengono valutati dai clienti
e una scelta “sbagliata”, come interrompere un ordine perché lo sforzo e il
tempo necessari non valgono i pochi pesos di profitto, può tradursi in
ritorsioni automatiche.
Se il tuo punteggio diminuisce, l’algoritmo ne prende
nota e prepara il tuo castigo: meno clienti per te. Se hai acquistato la
maggior parte della merce dell’ordine ma te lo annullano perché ci hai messo
troppo tempo a consegnarlo, dovrai pagare di tasca tua.
Nel mezzo della pandemia, l’abituale precarietà
lavorativa sale alle stelle.
Quindi, ti proteggi come puoi: decidi di lavorare
per Didi Food, Rappi, UberEATS. Mauricio è ora collegato a ognuna
di queste tre applicazioni: vuole provare a guadagnare quello che guadagnava
prima. Anche se non si fida degli aiuti che potrebbero dargli le imprese nel
caso si contagi di covid-19, lavorare come rider è la sua
unica fonte di ingresso e non ha intenzione di smettere.
“Devi continuare a lavorare perché o ti uccide il
virus o ti uccide la fame, questo è il problema”, dice scrollando le spalle.
Dallo stato di Sinaloa, nel nord del Messico, il
portavoce del collettivo Ni Un Repartidor Menos Culiacán, Gerardo
Antonio Valenzuela Lizarraga, gli fa eco.
“Se non lavoriamo, non mangiamo. Viviamo alla
giornata”, commenta in un’intervista telefonica.
Gerardo spiega che, ad oggi, le applicazioni attive
nella città di Culiacán (la capitale dello stato di Sinaloa, ndr) non
hanno fornito alcun tipo di protezione ai riders. Per questa ragione, lui e i
suoi compagni di collettivo vogliono chiedere aiuto ad istituzioni come la
Croce Rossa o la Protezione Civile. L’altra opzione sarebbe comprare glicerina
e alcool per preparare gel antibatterico e distribuirlo ai riders che lavorano in
città; se la spesa diventa eccessiva, potrebbero organizzare una colletta
insieme ai loro colleghi.
“Normalmente quando chiediamo una cooperazione è per
qualcuno che ha avuto un incidente: gli diamo il denaro raccolto così può
sopravvivere durante il periodo di degenza —osserva—. Ora sarebbe bene unirsi
vista l’emergenza. L’iniziativa andrebbe a beneficio dei riders, ma anche dei
clienti: proteggendo noi, proteggiamo anche loro”.
Azioni collettive
Sono le tre e mezza del pomeriggio di mercoledì 9
aprile. Mauricio e altri membri dei collettivi Ni Un Repartidor Menos e Deliverlibres da
poco più di un’ora sono arrivati al Parco della Bombilla, nel sud
di Città del Messico. Hanno cercato riparo all’ombra di alcuni alberi a pochi
metri dal monumento ad Álvaro Obregón; da qui ricevono i riders che
arrivano.
Di fronte all’assalto della pandemia, i collettivi di
riders fanno quello che sono abituati a fare in situazioni di
emergenza: praticare un aiuto mutuo con le poche risorse disponibili.
Una settimana fa hanno ottenuto una donazione di 30
litri di gel antibatterico dall’Unità di Soccorso e Urgenze Mediche (ERUM)
della Secretaría de Seguridad Ciudadana (agenzia del governo
incaricata della supervisione della sicurezza pubblica) e hanno iniziato la
distribuzione in vari punti della città dove sanno che transitano i riders.
Oggi pomeriggio si occupano anche di disinfettare gli
zaini con prodotti sanitari che hanno donato i membri dell’organizzazione di
cicloattivisti División del Sur: “sono biologici e resistono sulle
superfici per 24 ore”, assicurano.
Disinfetta, igienizza, pulisci. Insieme al virus, in
Messico si diffonde anche la paura.
“Ora che siamo senza protezioni ed esposti al virus le
applicazioni si sono dimenticate di noi —afferma Mauricio—. Per fortuna però ci
stiamo organizzando: se nessuno lo fa, chi meglio di noi?”
Disinfetta, igienizza, pulisci. Ti proteggi come puoi.
Cosa succede se mi ammalo?
Finora le applicazioni hanno reagito diversamente
all’emergenza. Al di là dei messaggi sulle misure di igiene che inviano
costantemente ai riders, non tutte hanno comunicato chiaramente quali misure
verranno applicate durante la crisi sanitaria.
Alcune, come Didi Food, distribuiscono kit
di protezione sanitaria —una bottiglietta di gel antibatterico, 50 paia di
guanti e 10 mascherine— ai loro riders che devono ritirarli negli uffici
dell’azienda.
Altre, come Rappi, sono evasive.
Attraverso un comunicato stampa rilasciato il 23 marzo, l’impresa ha annunciato
un investimento in “apparecchiature e processi per garantire che i riders
rispettino tutti i protocolli di sicurezza durante il trasporto e al momento
della consegna degli ordini, distribuendo oltre 200mila gel antibatterici e
mascherine come parte delle misure”. L’impresa, inoltre, annuncia di star
finanziando campagne di educazione e prevenzione per garantire la fiducia degli
utenti in merito alle misure di controllo e igiene.
Abbiamo cercato l’azienda Rappi per
sapere quando e come inizierà la distribuzione di gel antibatterici, nonché i
metodi per diffondere queste campagne di prevenzione. Al momento di questa
pubblicazione, non si é ottenuta nessuna risposta.
C’è però un’incertezza ancora più grande. Diverse
applicazioni —Rappi, Didi, UberEATS— hanno annunciato un aiuto economico
nel caso in cui i riders dimostrino, con un certificato medico, di
essere positivi al covid-19. Le misure annunciate parlano di un fondo di
emergenza di cui però non si stabilisce né l’importo né la modalità di
erogazione.
Inoltre, non tutti gli istituti di sanità pubblica
stanno conducendo test e il costo di un test privato è di circa 3.500 pesos.
“Didi coprirà fino a un mese di guadagno,
ma solo parzialmente. Se ti ammali e lo dimostri, Rappi e Uber fanno
una stima di quello che che guadagni normalmente e te ne assicurano solo una
certa percentuale”, spiega Mauricio. Si sforza di fare chiarezza su un
procedimento che fin dall’inizio è stato comunicato con ambiguità.
“Ho contattato il centralino di Rappi e
mi hanno detto che dovevo isolarmi e che non potevo più uscire a fare le
consegne”, spiega Maximiliano, un giovane rider che è in isolamento
da più di una settimana con quelli che sembrano essere i sintomi del
coronavirus.
“Hanno detto che mi monitoreranno e aspetteranno di
sapere come si sviluppa la mia situazione, ma quando ho chiamato non hanno
menzionato nulla del fondo di sostegno economico: l’ho scoperto da solo perché
ho letto i metodi di prevenzione che ha comunicato Rappi a noi
riders”.
Eroi usa e getta
Come già accaduto in paesi come l’Italia, gli Stati
Uniti o l’Argentina, i servizi di consegna a domicilio sono diventati un
settore essenziale durante la pandemia. Da un lato, questo può rappresentare un
vantaggio per quelle persone che non possono uscire di casa e riescono così ad
ottenere provviste o medicine. D’altra parte, non tutto ciò che viene ordinato
tramite le applicazioni rappresenta un bene di prima necessità.
Dall’Italia, diversi gruppi di riders sostengono con
determinazione che una pizza o un hamburger consegnati a domicilio non sono
l’equivalente di un servizio indispensabile, non sono un diritto. È aberrante
che i riders debbano rischiare la propria salute, oltre che guadagnare una
miseria.
Nel paese mediterraneo, finora il più solito dal virus
—alle ore 18:00 del 9 aprile, i dati ufficiali riportano
la morte di 18.279 persone—, i riders hanno protestato per più di
un mese attraverso i social networks con comunicati congiunti e campagne
virtuali di sensibilizzazione della popolazione in cui ripetono: “non abbiamo
bisogno di eroi, vogliamo uno stipendio di quarantena”, “sicurezza per tutti” e
“anche noi vogliamo il diritto alla quarantena”.
Diversi gruppi come Deliverance Milano, Riders
Union Bologna, Riders per Napoli-Pirate Union, non solo denunciano
l’inadempienza delle applicazioni —che per legge dovrebbero fornire i
dispositivi di protezione ai riders— ma chiedono anche che venga
garantito un contributo economico durante il periodo di emergenza per non
doversi trovare a scegliere se rischiare la vita lavorando o smettere di
lavorare restando senza soldi per vivere.
Accusano il governo di considerarli come eroi usa e
getta: figure utili per alimentare una retorica nazionalista romanticizzata che
inneggia alla solidarietà nazionale mentre si dimenticano le disuguaglianze che
attraversano il tessuto socio-economico del paese.
Secondo il ricercatore Marco Marrone, studente di
post-dottorato del Centro per le Discipline Umanistiche e il Cambiamento
Sociale dell’Università Cà Foscari di Venezia, il governo italiano ha
affrontato la crisi attraverso la costruzione di un nuovo regime di lavoro
basato sullo sfruttamento dei lavoratori più deboli. Questi includono, ad
esempio, i dipendenti del settore della logistica e dell’agricoltura, dove
prevale il lavoro migrante.
“Quello che stiamo vedendo è una nuova polarizzazione
del mercato del lavoro —sottolinea Marrone—: c’è una parte dei lavoratori che
possono rimanere a casa protetti e un’altra parte che è costretta a rimanere
per strada. Il governo non smetterà di parlare di solidarietà nazionale, ma che
tipo di paese è quello in cui la sopravvivenza di un lavoratore si basa sullo
sfruttamento di un altro?”
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