Come cambiare il corso della storia umana - David Graeber e David Wengrow
La storia che ci siamo raccontati sulle nostre origini perpetua l'idea
che la disuguaglianza sociale sia inevitabile, una conseguenza della civiltà, e
tuttavia molti studi smentiscono questa tesi. David Graeber e David
Wengrow su Eurozine si chiedono perché il mito della
"rivoluzione agricola" sia così persistente e sostengono che ci sia
molto di più da imparare dai nostri antenati, che siano esistite in passato
società sorprendentemente egualitarie, e che dunque un'alternativa è possibile.
Per spiegare le origini della disuguaglianza sociale, da secoli ci raccontiamo
una storia piuttosto semplice. Per la maggior parte della loro esistenza, gli
esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori.
Poi è arrivata l’agricoltura, che ha portato con sé la proprietà privata, e
sono apparse le città. Questo ha determinato la nascita della civiltà
propriamente detta. La civiltà ha significato molte cose brutte (guerre,
tasse, burocrazia, patriarcato, schiavitù), ma ha anche reso possibile la
letteratura scritta, la scienza, la filosofia e tante altre grandi conquiste
umane.
Quasi tutti conoscono questa storia nelle linee generali. Almeno dai tempi di
Jean-Jacques Rousseau, riassume le nostre idee sul disegno generale e la
direzione della storia dell’umanità. Ed è un fatto importante, perché questa
narrazione definisce anche il nostro senso della possibilità politica. Molti
considerano la civiltà, e quindi la disuguaglianza, una tragica necessità.
Alcuni sognano di tornare a un passato utopico, di trovare un equivalente
industriale del “comunismo primitivo” o addirittura, in casi estremi, di
distruggere tutto e ricominciare a essere cacciatori e raccoglitori. Ma nessuno
mette in discussione la struttura di base della storia. Eppure c’è un problema
di fondo in questa narrazione: non è vera.
L’archeologia, l’antropologia e le discipline affini offrono prove
schiaccianti che cominciano a delineare un quadro piuttosto chiaro degli ultimi
quarantamila anni della storia umana, e questo quadro non somiglia affatto alla
narrazione convenzionale. In realtà la nostra specie non ha passato gran parte
della sua storia in minuscoli gruppi; l’agricoltura non ha segnato una svolta irreversibile
nell’evoluzione sociale; le prime città spesso furono profondamente ugualitarie.
Anche se i ricercatori sono gradualmente arrivati a un consenso generale su
questi temi, gli autori che riflettono sui “grandi problemi” della storia umana
– Jared Diamond, Francis Fukuyama, Ian Morris e altri – continuano a prendere
come punto di partenza l’interrogativo di Rousseau (“Qual è l’origine della
disuguaglianza sociale?”) e danno per scontato che la grande storia cominci
con una sorta di perdita dell’innocenza primordiale.
Già solo inquadrare la questione in questi termini significa partire da una
serie di presupposti: che esiste una cosa che si chiama disuguaglianza, che la
disuguaglianza è un problema e che c’è stato un tempo in cui la disuguaglianza
non esisteva. Con la crisi finanziaria del 2008 e gli sconvolgimenti che ne
sono seguiti, il “problema della disuguaglianza sociale” è diventato centrale
nel dibattito pubblico. Negli ambienti politici e intellettuali sembra dominare
la convinzione che i livelli di disuguaglianza sociale siano aumentati a
dismisura sfuggendo a ogni controllo e che da questo, in un modo o nell’altro,
dipendano quasi tutti i problemi del mondo. Oggi denunciare questa realtà è
considerato una sfida alle strutture di potere globale, ma pensate a come
questi problemi sarebbero stati discussi una generazione fa. A differenza di
termini come “capitale” o “potere di classe”, la parola “disuguaglianza”
sembra fatta apposta per condurre a mezze misure e compromessi. Si può
immaginare di rovesciare il capitalismo o di abbattere il potere dello stato,
ma è molto difficile immaginare di cancellare la “disuguaglianza”. Di fatto,
non è neppure chiaro cosa significhi, perché le persone non sono tutte uguali e
nessuno vorrebbe davvero che lo fossero.
“Disuguaglianza” è un modo di inquadrare i problemi sociali adatto ai tecnocrati
riformisti, i quali partono dal presupposto che qualunque reale trasformazione
sociale è esclusa dal dibattito politico da molto tempo. Consente di armeggiare
con i numeri, ragionare sui coefficienti di Gini, ricalibrare i regimi fiscali
e lo stato sociale, consente perfino di spaventare l’opinione pubblica con
cifre che dimostrano quanto è peggiorata la situazione (“Ci pensate? Lo 0,1 per
cento della popolazione mondiale controlla più del 50 per cento della ricchezza!”),
e tutto ciò senza affrontare nessuno degli aspetti che la gente critica
realmente di questi ordinamenti sociali così “disuguali”: per esempio il fatto
che alcuni riescono a trasformare la loro ricchezza in potere, mentre altre
persone si sentono dire che le loro esigenze non sono importanti e la loro
vita non ha un valore in sé. Tutto questo sarebbe solo l’effetto inevitabile
della disuguaglianza, e la disuguaglianza sarebbe la conseguenza ineludibile
del vivere in qualunque società grande, complessa, urbana e tecnologicamente
sofisticata.
Le scienze sociali dominanti oggi sembrano voler rafforzare questo senso d’impotenza.
Quasi ogni mese ci troviamo davanti a pubblicazioni che cercano di proiettare
sull’età della pietra l’attuale ossessione per la distribuzione della
proprietà, e ci spingono a una falsa ricerca di “società ugualitarie” definite
in termini che ne rendono impossibile l’esistenza al di fuori di qualche
minuscolo gruppo di cacciatori-raccoglitori (e forse neanche in quelli).
L’opinione comune sul corso generale della storia umana si può riassumere più o
meno così: circa duecentomila anni fa, alla comparsa dell’Homo
sapiens anatomicamente moderno, la nostra specie viveva in gruppi piccoli
e mobili che comprendevano tra i venti e i quaranta individui. Cercavano i
territori migliori per cacciare e procurarsi da mangiare, seguendo i branchi,
raccogliendo noci e bacche. Quando le risorse cominciavano a scarseggiare o
emergevano tensioni sociali, reagivano spostandosi altrove. Per questi primi
esseri umani – potremmo parlare di infanzia dell’umanità – la vita era piena di
pericoli, ma anche di possibilità. C’erano pochi beni materiali, ma il mondo
era un posto incontaminato e invitante. La maggior parte di loro lavorava solo
poche ore al giorno, e le dimensioni ridotte dei gruppi sociali permettevano
di mantenere un disinvolto cameratismo, senza strutture formali di dominio.
Nel settecento Rousseau lo definì “stato di natura”, ma oggi si presume che sia
durato per la maggior parte della nostra storia. Si presume anche che quella fu
l’unica era in cui gli umani riuscirono a vivere in autentiche società di
uguali, senza classi, caste, capi ereditari o governi centralizzati.
Purtroppo questo idillio era destinato a finire. La versione convenzionale
della storia mondiale colloca questo momento intorno a diecimila anni fa, al
termine dell’ultima era glaciale. A quel punto, i nostri immaginari attori
umani erano sparsi in tutti i continenti, e cominciarono a coltivare la terra
e ad allevare il bestiame. Quali che fossero le ragioni a livello locale (l’argomento
è oggetto di discussione), gli effetti furono epocali, e sostanzialmente identici
dappertutto. L’attaccamento al territorio e la proprietà privata dei beni acquistarono
un’importanza prima sconosciuta, e cominciarono scontri sporadici e guerre.
L’agricoltura garantiva un’eccedenza di cibo, che permise ad alcuni di
accumulare ricchezza e potere al di là del ristretto gruppo familiare. Altri
usarono l’affrancamento dalla ricerca di cibo per sviluppare nuove abilità,
come costruire armi, utensili, veicoli e fortificazioni o per dedicarsi alla
politica e alla religione organizzata. Di conseguenza, questi “agricoltori
del neolitico” ebbero presto la meglio sui loro vicini cacciatori-raccoglitori
e cominciarono a eliminarli o assorbirli in un nuovo stile di vita, superiore
ma meno ugualitario.
A complicare ulteriormente le cose, così continua la storia, l’agricoltura
provocò un aumento globale della popolazione. Man mano che si univano in
concentrazioni sempre più grandi, i nostri progenitori fecero un altro passo
irreversibile verso la disuguaglianza e circa seimila anni fa comparvero le
città: a quel punto il nostro destino fu segnato. Con le città arrivò
l’esigenza di un governo centrale. Nuove classi di burocrati, sacerdoti e
politici-guerrieri assunsero cariche permanenti per mantenere l’ordine e
garantire i servizi pubblici e la regolarità degli approvvigionamenti. Le
donne, che un tempo avevano un ruolo preminente negli affari umani, furono isolate
o imprigionate negli harem. I prigionieri di guerra diventarono schiavi.
Arrivò la vera e propria disuguaglianza, e non ci fu modo di liberarsene.
Eppure, ci assicurano sempre i narratori, la nascita della civiltà urbana ebbe
anche aspetti positivi. Fu inventata la scrittura, in un primo momento per
tenere la contabilità dello stato, che consentì progressi straordinari nella
scienza, nella tecnologia e nelle arti. A prezzo dell’innocenza siamo
diventati moderni, e ora possiamo solo guardare con compassione e invidia a
quelle poche società “tradizionali” o “primitive” che in qualche modo hanno
perso il treno.
Dalle bande agli imperi
Questa è la storia che, come abbiamo detto, costituisce la base di tutto il
dibattito contemporaneo sulla disuguaglianza. Se un esperto di relazioni
internazionali o uno psicologo vogliono riflettere su questi temi, probabilmente
daranno per scontato che per gran parte della loro storia gli esseri umani
hanno vissuto in piccoli gruppi ugualitari o che la nascita delle città ha
determinato la nascita dello stato. Lo stesso vale per i libri più recenti che
guardano alla preistoria per trarre conclusioni politiche attinenti alla
realtà contemporanea. Prendiamo The origins of political order (2011)
del politologo Francis Fukuyama:
"Nelle sue prime fasi, l’organizzazione politica umana è simile alla
società in bande che si può osservare nei primati superiori come gli scimpanzé.
Può essere considerata come una forma quasi automatica di organizzazione
sociale. Rousseau ha sottolineato che l’origine della disuguaglianza politica
va ricercata nello sviluppo dell’agricoltura, e ha in larga misura
ragione."
Il biologo Jared Diamond, nel suo saggio Il mondo fino a ieri (Einaudi
2012), suggerisce che queste bande (in cui ritiene che gli esseri umani
abbiano vissuto “fino ad appena undicimila anni fa”) comprendevano solo “poche
decine di individui”, per lo più biologicamente imparentati, e conclude che
solo in questi gruppi primordiali la specie umana ha raggiunto un grado
significativo di uguaglianza sociale.
Per Diamond e Fukuyama, come per Rousseau qualche secolo prima, a mettere fine
a quell’uguaglianza – ovunque e per sempre – furono l’invenzione dell’agricoltura
e il conseguente aumento della popolazione. L’agricoltura provocò una
transizione dalle “bande” alle “tribù”. Le eccedenze alimentari consentirono
la crescita della popolazione, portando alcune “tribù” a svilupparsi in
società gerarchiche governate da un capotribù.
Ben presto i capitribù si proclamarono re e perfino imperatori. Resistere non
aveva senso. Una volta adottate forme di organizzazione grandi e complesse le
conseguenze erano inevitabili. E quando i capi cominciarono a comportarsi male
– appropriandosi delle eccedenze di cibo per favorire parenti e lacchè,
rendendo la loro posizione permanente ed ereditaria, collezionando crani come
trofei e harem di schiave o strappando il cuore dei rivali con coltelli di
ossidiana – era troppo tardi per tornare indietro. “Le popolazioni numerose”,
sostiene Diamond, “non possono funzionare senza capi che prendono le
decisioni, esecutori che le attuano e burocrati che amministrano le decisioni
e le leggi”.
Anche gli antropologi e gli archeologi, quando cercano di dare un quadro
complessivo, finiscono molto spesso per ripetere la versione di Rousseau, con
qualche piccola variazione. In The creation of inequality (2012),
Kent Flannery e Joyce Marcus impiegano circa cinquecento pagine di studi
etnografici e archeologici per cercare di risolvere il mistero. L’aspetto
curioso del libro di Flannery e Marcus è che tutti gli aspetti davvero cruciali
della loro ricostruzione delle “origini della disuguaglianza” si basano su
osservazioni relativamente recenti di raccoglitori, allevatori e coltivatori su
piccola scala, come gli hadza della Rift valley in
Africa orientale o i nambikwara della foresta pluviale amazzonica.
Le descrizioni di queste “società tradizionali” sono trattate come se fossero
finestre sull’era del paleolitico o del neolitico. Il problema è che non è
affatto così. Gli hadza e i nambikwara non
sono fossili viventi. Sono in contatto da millenni con stati agrari e imperi,
razziatori e mercanti, e le loro istituzioni sociali si sono formate in seguito
ai tentativi di trattare con loro o di evitarli. Solo l’archeologia può dirci
se hanno qualcosa in comune con le società preistoriche. Anche se Flannery e
Marcus offrono molti spunti interessanti su come potrebbero nascere le
disuguaglianze nelle società umane, non ci danno molte ragioni per credere che
le cose siano andate realmente così.
Il paradosso di Rousseau
La cosa veramente bizzarra di tutte queste evocazioni dello stato di natura di
Rousseau e della perdita dell’innocenza è che lo stesso Rousseau non ha mai
sostenuto che lo stato di natura fosse esistito davvero. Era solo un esercizio
teorico. Nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti
dell’ineguaglianza tra gli uomini del 1754, su cui si basa gran parte
della storia che ci siamo raccontati, Rousseau scrive:
"Le ricerche che possiamo fare in questa occasione non vanno prese per
verità storiche, ma solo come ragionamenti ipotetici e condizionali, più
adatte a chiarire la natura delle cose che a svelarne la vera origine."
Lo stato di natura di Rousseau non è mai stato concepito come una fase dello
sviluppo. Era piuttosto un racconto allegorico. Come ha sottolineato la
politologa Judith Shklar, in realtà Rousseau stava cercando di approfondire
quello che considerava il paradosso fondamentale della politica umana, e cioè
che la nostra innata ricerca della libertà in qualche modo ci porta ogni volta
a una “spontanea marcia verso la disuguaglianza”.
Dobbiamo concludere che i rivoluzionari non si sono dimostrati molto ricchi
d’immaginazione, soprattutto quando si tratta di collegare passato, presente e
futuro. Tutti continuano a raccontare la stessa storia. Probabilmente non è un
caso se oggi, agli albori del nuovo millennio, i movimenti rivoluzionari più
vitali e creativi, come gli zapatisti del Chiapas e i curdi del Rojava, sono
quelli che si radicano in un passato profondamente tradizionale. Invece di immaginare
una qualche utopia primordiale, possono ispirarsi a una narrazione più complessa.
Di fatto sembra esserci una consapevolezza sempre maggiore, negli ambienti
rivoluzionari, che la libertà, la tradizione e l’immaginazione sono state e
saranno sempre intrecciate in modi che non comprendiamo fino in fondo. È
arrivato il momento che anche tutti gli altri si aggiornino e comincino a
considerare una versione non biblica della storia umana.
Quindi cosa ci hanno insegnato davvero le ricerche archeologiche e antropologiche
condotte dopo Rousseau? Per prima cosa, che probabilmente interrogarsi sulle
“origini della disuguaglianza sociale” è un punto di partenza sbagliato. La
verità è che non abbiamo idea di come fosse la vita sociale umana prima
dell’inizio di quello che chiamiamo paleolitico superiore.
Le più antiche prove concrete sull’organizzazione sociale umana nel
paleolitico vengono soprattutto dall’Europa, dove la nostra specie visse a
fianco dell’Homo neanderthalensis fino all’estinzione di quest’ultimo
circa quarantamila anni fa. A quell’epoca, e per tutto l’ultimo massimo
glaciale, le zone abitabili dell’Europa somigliavano più al parco del Serengeti
in Tanzania che a un qualunque habitat europeo di oggi. A sud delle calotte
glaciali, fra la tundra e le sponde del Mediterraneo, si stendevano vallate
popolate da animali selvatici e steppe attraversate da mandrie di cervi,
bisonti e mammut. Gli studiosi della preistoria ribadiscono da decenni – a
quanto sembra con scarsi risultati – che gli abitanti di questi ambienti non
avevano niente in comune con quelle bande ugualitarie e semplici di
cacciatori-raccoglitori che immaginiamo come nostri lontani progenitori.
Tanto per cominciare c’è l’esistenza indiscussa di ricche sepolture, che
risalgono fino al culmine dell’era glaciale. Nel permafrost sotto
l’insediamento paleolitico di Sunghir, a est di Mosca, è stata
trovata la tomba di un uomo di mezza età sepolto – come osserva Felipe
Fernándes-Armesto nella sua recensione di The creation of inequality sul Wall
Street Journal – con “stupefacenti segni di prestigio sociale:
braccialetti d’avorio, un diadema di denti di volpe e quasi tremila perle
d’avorio laboriosamente scolpite e levigate”. A pochi metri di distanza,
in una tomba identica, “giacevano due bambini di 10 e 13 anni, adorni di
doni funerari dello stesso tipo, comprese circa cinquemila perle e una lancia
d’avorio”.
Sepolture altrettanto ricche sono state scoperte nelle grotte e negli
insediamenti del paleolitico superiore in gran parte dell’Eurasia occidentale.
Per esempio, la “signora di Saint-Germain-de-la-Rivière”,
risalente a 16mila anni fa, che indossava ornamenti realizzati con i denti di
giovani cervi cacciati a trecento chilometri di distanza, nel paese basco
spagnolo, e le sepolture della costa ligure, come quella del “giovane
principe”, che nel suo corredo funerario ha una lunga lama di selce, bastoni
di corna di alce e un elaborato copricapo di conchiglie traforate e denti di
cervo. Questi ritrovamenti pongono sfide interpretative stimolanti. Ha ragione
Fernández-Armesto nel sostenere che sono le prove di un “potere ereditato”?
Qual era lo status di questi individui?
Non meno misteriose sono le sporadiche ma affascinanti tracce di architettura
monumentale che risalgono all’ultimo massimo glaciale. Il pleistocene non ha
nulla di paragonabile per dimensioni alle piramidi di Giza o al Colosseo.
Però ha costruzioni che, per gli standard dell’epoca, potevano essere
considerate solo opere pubbliche, perché implicano una progettazione
sofisticata e un impressionante coordinamento della manodopera. Tra queste ci
sono le straordinarie “case dei mammut”, costituite da una struttura di zanne
rivestita di pelli, di cui si possono trovare esempi databili intorno a 15mila
anni fa nella fascia tra Cracovia e Kiev.
Ancora più stupefacenti sono i templi di pietra di Göbekli Tepe,
rinvenuti più di vent’anni fa alla frontiera tra Siria e Turchia e tuttora al
centro di un vivace dibattito scientifico. Databili intorno a 11mila anni fa,
proprio alla fine dell’ultima era glaciale, comprendono almeno venti recinti
megalitici. Ognuno era formato da pilastri di calcare alti più di cinque
metri e pesanti fino a una tonnellata. Quasi ogni megalite di Göbekli Tepe è
un’impressionante opera d’arte, ornata da bassorilievi di animali feroci con i
genitali maschili orgogliosamente in mostra. Uccelli rapaci si alternano a immagini
di teste umane mozzate. Le incisioni danno prova di capacità scultoree che
erano state certamente affinate sul più malleabile legno. Malgrado le loro
dimensioni, ciascuna di queste enormi strutture ebbe una vita relativamente
breve, che si concluse con un grande banchetto e l’interramento delle sue mura:
gerarchie innalzate per essere subito abbattute. I protagonisti di questo
spettacolo di costruzione e distruzione erano, per quanto ci è dato sapere,
cacciatori-raccoglitori che vivevano dei frutti della natura.
Cosa dovremmo dedurne allora? Alcuni studiosi suggeriscono di abbandonare
completamente l’idea di un’età dell’oro ugualitaria e concludere che
l’interesse egoistico e l’accumulazione del potere sono le forze che da sempre
sottendono lo sviluppo sociale umano. Ma neanche questo funziona davvero. I
segni di disuguaglianza strutturale nelle società dell’era glaciale sono solo
sporadici. Le sepolture appaiono a secoli e spesso a centinaia di chilometri di
distanza.
Regni stagionali
Anche se questo fosse dovuto alla frammentarietà delle prove, dobbiamo chiederci
perché le prove sono così frammentarie: se questi “principi” dell’era glaciale
si fossero comportati come i principi dell’età del bronzo, troveremmo anche
fortificazioni, magazzini, palazzi e tutti i segni degli stati emergenti.
Invece, per decine di millenni vediamo monumenti e sepolture magnifiche, ma
poco altro che indichi la comparsa di società gerarchiche. Poi ci sono elementi
ancora più strani, come il fatto che la maggioranza delle sepolture “principesche”
contiene individui con impressionanti anomalie fisiche che oggi sarebbero
considerati giganti, gobbi o nani.
Un’analisi più ampia dei reperti archeologici suggerisce una risposta che
riguarda i ritmi stagionali della vita sociale preistorica. Gran parte dei
siti paleolitici citati fin qui sono associati a segni di aggregazioni annuali
o biennali, legate alle migrazioni degli animali – che si tratti di mammut,
bisonti della steppa, renne o (nel caso di Göbekli Tepe) gazzelle –
o alle migrazioni cicliche dei pesci e ai raccolti di noci.
In periodi meno favorevoli dell’anno, almeno alcuni dei nostri antenati
dell’era glaciale sicuramente vivevano e si procuravano da mangiare in piccoli
gruppi. Ma ci sono prove schiaccianti che in altri momenti si riunivano in
massa in micro-città come quelle trovate a Dolni Vĕstonice, nella Repubblica
Ceca, per approfittare della sovrabbondanza di risorse naturali, impegnarsi in
complessi rituali e imprese artistiche e scambiare minerali, conchiglie e
pelli di animali, coprendo distanze impressionanti. Gli equivalenti di questi
siti di aggregazione stagionale in Europa occidentale sarebbero i grandi
rifugi rupestri del Périgord francese e della costa cantabrica,
con i loro famosi dipinti e le celebri incisioni, che facevano anch’essi parte
di un ciclo annuale di aggregazione e dispersione.
Questi modelli stagionali di vita sociale sopravvissero a lungo dopo
l’“invenzione dell’agricoltura”, che in teoria avrebbe dovuto cambiare tutto.
Nuove prove dimostrano che questo genere di ciclicità potrebbe essere la
chiave per comprendere i famosi monumenti neolitici della piana di Salisbury. Stonehenge sarebbe
solo l’ultima di una lunghissima sequenza di strutture rituali in legno o in
pietra che venivano erette quando la gente arrivava nella pianura dagli angoli
più remoti delle isole britanniche in certi periodi dell’anno. Gli scavi hanno
dimostrato che molte di queste strutture – ora interpretate plausibilmente
come monumenti ai progenitori di potenti dinastie del neolitico – furono
smantellate poche generazioni dopo la loro costruzione.
La cosa impressionante è che questa abitudine di erigere e smantellare monumenti
grandiosi coincide con un periodo in cui i popoli del Regno Unito, che avevano
importato l’economia agricola del neolitico dall’Europa continentale,
sembravano aver abbandonato un aspetto essenziale, interrompendo la
coltivazione dei cereali e tornando – intorno al 3300 aC – alla raccolta di
nocciole come risorsa alimentare di base. I costruttori di Stonehenge continuavano
ad allevare bovini e probabilmente non erano né agricoltori né cacciatori-raccoglitori,
ma una via di mezzo. E se nella stagione festiva, quando si radunavano in
massa, s’instaurava qualcosa di simile a una corte reale, questa non poteva che
dissolversi per buona parte dell’anno, quando le stesse persone tornavano a
sparpagliarsi in tutta l’isola.
Perché queste variazioni stagionali sono importanti? Perché rivelano che fin
dall’inizio gli esseri umani hanno consapevolmente sperimentato diverse
possibilità sociali. Secondo gli antropologi le società di questo tipo erano
caratterizzate da una “doppia morfologia”. All’inizio del novecento Marcel
Mauss osservò che gli inuit dell’Artico “e analogamente molte
altre società hanno due strutture sociali, una d’estate e l’altra d’inverno, e
due sistemi di legge e di religione paralleli”. Nei mesi estivi gli inuit si
disperdevano in piccole bande patriarcali, ciascuna sotto l’autorità di un
unico maschio anziano, alla ricerca di pesci d’acqua dolce, caribù e renne. La
proprietà privata era chiaramente contrassegnata e i patriarchi esercitavano
un potere coercitivo, a volte addirittura tirannico, sui loro familiari. Ma nei
lunghi mesi invernali, quando foche e trichechi affollavano il litorale
artico, subentrava un’altra struttura sociale e gli inuit si
riunivano per costruire grandi case comuni di legno, ossa di balena e pietra.
In queste case regnavano i princìpi dell’uguaglianza, dell’altruismo e della
vita collettiva; la ricchezza veniva condivisa; mariti e mogli si scambiavano i
partner sotto l’egida della dea Sedna.
Ancora più sorprendenti, in termini di capovolgimenti politici, erano le
pratiche stagionali delle confederazioni tribali dell’ottocento nelle grandi
pianure americane: agricoltori occasionali o ex agricoltori che avevano
adottato una vita nomade dedita alla caccia. Alla fine dell’estate, piccole
bande di cheyenne e lakota si riunivano in grandi
insediamenti per prepararsi alla caccia al bisonte. In questo importantissimo
periodo dell’anno creavano una forza di polizia che aveva poteri coercitivi
assoluti, compreso il diritto di imprigionare, frustare o multare qualunque
trasgressore ostacolasse i preparativi. Eppure, come ha osservato
l’antropologo Robert Lowie, questo “indubbio autoritarismo” era temporaneo, e
cedeva il posto a forme di organizzazione più “anarchiche” una volta conclusa
la stagione della caccia e i rituali collettivi che la seguivano.
Avanti e indietro
I reperti archeologici suggeriscono che negli ambienti molto stagionali
dell’ultima era glaciale i nostri progenitori si comportavano in modi assai
simili: alternando ordinamenti sociali molto diversi, consentendo la comparsa
di strutture autoritarie in certi periodi dell’anno a condizione che non potessero
durare, e con l’intesa che nessun particolare ordine sociale era mai fisso o
immutabile. All’interno della stessa popolazione si poteva vivere in quella
che a volte sembra una banda, altre volte una tribù e altre volte ancora una
società con molte delle caratteristiche che oggi attribuiamo agli stati.
Questa flessibilità istituzionale offre la possibilità di uscire dai confini di
una certa struttura sociale e riflettere, di fare e disfare i mondi politici in
cui si vive. Se non altro, questo spiega i “principi” e le “principesse”
dell’ultima era glaciale, che sembrano i personaggi di una fiaba o di un
dramma in costume. Forse lo erano, quasi letteralmente. Se mai hanno regnato,
forse è stato – come per i re e le regine di Stonehenge – per
una sola stagione.
Gli autori moderni tendono a usare la preistoria per riflettere su problemi
filosofici: gli esseri umani sono sostanzialmente buoni o cattivi,
collaborativi o competitivi, ugualitari o gerarchici? Quindi tendono a scrivere
come se per il 95 per cento della storia della nostra specie le società siano
state in larga misura sempre uguali. Ma quarantamila anni sono un periodo
lungo, lunghissimo. Sembra altamente probabile, e le prove lo confermano, che
quegli stessi pionieri umani che colonizzarono gran parte del pianeta abbiano
anche sperimentato un’enorme varietà di ordinamenti sociali.
Come spesso ha sottolineato Claude Lévi-Strauss, i primi Homo
sapiens non erano uguali agli umani moderni solo fisicamente, ma anche a
livello intellettuale. Molto probabilmente erano più consapevoli del
potenziale della società di quanto generalmente lo siamo oggi, visto che ogni
anno passavano da una forma di organizzazione all’altra. Invece di oziare in
un’innocenza primordiale finché il genio della disuguaglianza è riuscito in
qualche modo a liberarsi, i nostri antenati preistorici sembrano essere
riusciti ad aprire e chiudere regolarmente la bottiglia, confinando la
disuguaglianza nei drammi in costume rituali, costruendo divinità e regni come
costruivano i loro monumenti per poi smantellarli allegramente.
Se è così allora non dovremmo chiederci quali sono le origini delle
disuguaglianze sociali, ma perché – dato che abbiamo passato una parte così
grande della nostra storia facendo avanti e indietro fra sistemi politici
diversi – a un certo punto siamo rimasti bloccati. Tutto questo è molto distante
dalla nozione che le società preistoriche siano scivolate ciecamente verso le
catene istituzionali che le hanno legate. E anche dalle cupe profezie di
Fukuyama, Diamond e altri, secondo cui ogni forma di organizzazione sociale
complessa comporta necessariamente che piccole élite prendano il controllo
delle risorse chiave e comincino a calpestare tutti gli altri. La maggior parte
delle scienze sociali le considera verità autoevidenti, ma sono infondate.
Quindi potremmo chiederci quali altre verità acclarate dovrebbero essere
gettate nella pattumiera della storia.
L’idea che l’agricoltura abbia segnato una grande transizione nelle società umane
non è più sostenuta da prove concrete. Nelle parti del mondo dove animali e
piante furono addomesticati per la prima volta, non c’è stato un passaggio
repentino e riconoscibile dal cacciatore-raccoglitore del paleolitico
all’agricoltore del neolitico. La “transizione” da un’esistenza basata sulle
risorse spontanee a una basata sulla produzione del cibo di regola ha
richiesto qualcosa come tremila anni. Anche se l’agricoltura consentiva la possibilità
di una più disuguale concentrazione di ricchezza, nella maggioranza dei casi
questo cominciò a succedere millenni dopo la sua comparsa.
Nel frattempo, gli umani che vivevano in zone lontanissime come l’Amazzonia e
la mezzaluna fertile in Medio Oriente facevano esperimenti con l’agricoltura,
“giocavano agli agricoltori”, in un certo senso, cambiando ogni anno i modi
di produzione proprio come alternavano le loro strutture sociali. Inoltre, la
“diffusione dell’agricoltura” in aree secondarie come l’Europa – spesso
descritta in termini trionfalistici come l’inevitabile declino della caccia e
della raccolta – in realtà è stata un processo estremamente delicato che a
volte è fallito, portando a un crollo demografico tra gli agricoltori ma non
tra i cacciatori-raccoglitori.
Chiaramente, non ha più senso usare espressioni come “la rivoluzione dell’agricoltura”
quando parliamo di processi di così straordinaria lunghezza e complessità. E
poiché non esisteva un eden da cui i primi agricoltori potessero cominciare il
percorso verso la disuguaglianza, ha ancora meno senso sostenere che
l’agricoltura ha posto le basi della gerarchia o della proprietà privata.
Almeno in alcuni casi, come in Medio Oriente, i primi agricoltori sembrano
aver consapevolmente sviluppato forme alternative di comunità per adattarsi a
uno stile di vita che richiedeva più lavoro. Queste società neolitiche
appaiono sorprendentemente ugualitarie rispetto ai loro vicini
cacciatori-raccoglitori, con un sensibile aumento dell’importanza economica e
sociale delle donne, che si riflette chiaramente nell’arte e nei rituali (basta
confrontare le figurine femminili di Gerico o Çatalhöyük con
le sculture ipermascoline di Göbekli Tepe).
Piccole ingiustizie
La civiltà non è un pacchetto preconfezionato. Le prime città non apparirono
dal nulla insieme a sistemi di governo centralizzato e di controllo
burocratico. Oggi sappiamo che in Cina nel 2500 aC esistevano già insediamenti
di più di trecento ettari lungo il corso inferiore del fiume Giallo, più di
mille anni prima della fondazione della prima dinastia reale (Shang).
Sull’altra sponda del Pacifico, nella valle del rio Supe, in Perù,
sono stati scoperti centri cerimoniali di dimensioni impressionanti che
risalgono più o meno allo stesso periodo: rovine enigmatiche di piazze e
piattaforme monumentali, che precedono di quattromila anni l’impero
degli inca.
Queste recenti scoperte dimostrano quanto poco sappiamo realmente sulla distribuzione
e l’origine delle prime città, che potrebbero essere molto più antiche dei
sistemi di governo autoritario e di amministrazione basata sulla scrittura che
un tempo ritenevamo necessari alla loro fondazione. E in quelli che conosciamo
come i maggiori centri della prima urbanizzazione – la Mesopotamia, la valle
dell’Indo, il bacino del Messico – sono sempre più numerosi i segni che le
prime città erano organizzate secondo princìpi deliberatamente ugualitari,
con i consigli municipali che avevano una significativa autonomia dal governo
centrale. Nei primi due casi, per oltre cinquecento anni fiorirono città con
sofisticate infrastrutture civiche ma senza traccia di sepolture reali e di
monumenti, senza eserciti permanenti o altri mezzi di coercizione su larga
scala e senza neppure un accenno di controllo burocratico diretto sulla vita
dei cittadini.
Ci sono tutti i tasselli per creare una storia del mondo completamente diversa.
È solo che siamo troppo accecati dai nostri pregiudizi per vederne le
implicazioni. Per esempio, quasi tutti oggi ripetono che la democrazia
partecipativa e l’uguaglianza sociale possono funzionare in una piccola
comunità o in un gruppo di attivisti, ma non possono essere applicate a una
città, a una regione o a uno stato. Ma l’evidenza davanti ai nostri occhi, se
ci decidiamo a guardarla, suggerisce il contrario. Le città ugualitarie, e
perfino le confederazioni regionali, sono storicamente piuttosto comuni. Le
famiglie e le case ugualitarie non lo sono.
Quando sarà pronunciato il verdetto della storia, capiremo che la perdita più
dolorosa delle libertà umane è cominciata su piccola scala, a livello di
relazioni tra sessi, gruppi di età e servitù domestica: il genere di rapporti
che esprimono allo stesso tempo la massima intimità e le forme più profonde di
violenza strutturale. Se vogliamo davvero capire come diventò accettabile per
la prima volta che alcuni trasformassero la ricchezza in potere mentre altri
finivano col sentirsi dire che le loro esigenze e la loro vita non contavano, è
qui che dovremmo guardare. Ed è sempre qui che dovrà svolgersi il
difficilissimo lavoro di creare una società libera.
L’utopia delle regole - David Graeber
David Graeber era un antropologo statunitense. Insegnava alla London school
of economics ed è stato tra i promotori del movimento Occupy Wall street. È
morto a Venezia il 2 settembre 2020, a 59 anni. Questo articolo è stato
pubblicato il 29 maggio 2015 sul numero
1104 di Internazionale.
La burocrazia non piace a nessuno, eppure sembra che in un modo o
nell’altro ce ne sia sempre di più. Ne vediamo gli effetti in ogni aspetto
della nostra vita. La burocrazia è diventata l’acqua in cui nuotiamo: ci
riempie le giornate con le sue scartoffie e con i suoi moduli sempre più lunghi
e complicati. Semplici bollette, multe e moduli d’iscrizione sono ormai
regolarmente accompagnati da pagine e pagine di documentazione in legalese.
Almeno fino all’ottocento, l’idea che l’economia di mercato fosse
indipendente e contrapposta al governo è stata usata per giustificare misure
economiche improntate al laissez faire, con
l’obiettivo di limitare il ruolo dello stato. Questo effetto, però, non c’è mai
stato. Tanto per cominciare, il liberismo inglese non ha portato a una
riduzione della burocrazia statale. Anzi, è stata la proliferazione di
consulenti legali, cancellieri, ispettori, notai e funzionari di polizia a
rendere possibile il sogno liberale di un mondo di liberi contratti tra
individui autonomi. E non ci sono ormai molti dubbi sul fatto che per mandare
avanti un’economia di mercato servono mille volte più scartoffie che nella
monarchia assoluta di Luigi XIV. Viviamo in un’epoca di “burocratizzazione
totale”. Non sarà che molte condanne senza appello della burocrazia sono in
realtà in malafede? E se l’esperienza di vivere e lavorare all’interno di un
sistema di norme e regole formalizzate, all’ombra di gerarchie di anonimi
funzionari, avesse un suo fascino nascosto?
C’è una scuola di pensiero secondo cui la burocrazia tende a espandersi
seguendo una logica interna, perversa ma inesorabile. L’argomentazione è la
seguente: se per risolvere un problema si crea una struttura burocratica,
questa struttura invariabilmente finirà per creare altri problemi che, a loro
volta, sembreranno risolvibili solo per via burocratica. Nel mondo accademico
questo fenomeno è descritto in termini informali come il problema di “creare
commissioni per risolvere il problema delle troppe commissioni”.
Una variante di questa teoria dice che una burocrazia, una volta creata,
farà in modo di rendersi indispensabile, cercando di esercitare un potere a
prescindere da quello che vuole farne. Il modo migliore per raggiungere questo
obiettivo è monopolizzare l’accesso a un certo tipo di informazioni chiave.
Come scrive Max Weber, uno dei maggiori intellettuali tedeschi vissuti tra
l’ottocento e il novecento, “ogni burocrazia si adopera per rafforzare la
superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue
intenzioni. Nella misura in cui ne è capace nasconde le sue informazioni e le
sue azioni allo scrutinio critico”.
Come osserva lo stesso Weber, un effetto collaterale è che quando si crea
una burocrazia è quasi impossibile sbarazzarsene. Le primissime burocrazie di
cui siamo a conoscenza risalgono alle civiltà della Mesopotamia e dell’antico
Egitto, e rimasero praticamente intatte per secoli resistendo al succedersi
delle dinastie o delle élite dominanti. In modo simile, ripetute ondate di
invasioni non bastarono a sradicare l’amministrazione cinese che, con le sue
strutture burocratiche, le sue relazioni e i suoi sistemi di valutazione,
rimase saldamente al suo posto a prescindere da chi, volta per volta,
rivendicava il mandato del cielo. L’unico modo per sbarazzarsi di una
burocrazia consolidata, secondo Weber, è semplicemente eliminarne tutti i
componenti, come fecero Alarico e i goti nella Roma imperiale o Genghis Khan in
alcune zone del Medio Oriente. Se un numero significativo di funzionari resta
in vita, nel giro di pochi anni finirà inevitabilmente per controllare il
regno.
Un’altra possibile spiegazione è che la burocrazia non solo si rende
indispensabile per chi governa, ma esercita la sua attrazione anche su quelli
che la amministrano. Il fascino delle procedure burocratiche sta nella loro
impersonalità. I rapporti burocratici, freddi e impersonali, sono molto simili
alle transazioni finanziarie: da un lato sono privi di anima e dall’altro sono
semplici, prevedibili e trattano tutti più o meno allo stesso modo.
E comunque, chi vuole davvero vivere in un mondo dove tutto è anima? La
burocrazia ci permette di interagire con altre persone senza doverci impegnare
in complesse ed estenuanti forme di relazione. Quando entriamo in un negozio,
tiriamo fuori il portafoglio senza preoccuparci di quello che pensa il cassiere
del nostro abbigliamento. Allo stesso modo, quando andiamo in biblioteca,
tiriamo fuori la tessera senza dover spiegare perché ci interessano i temi
omoerotici della poesia inglese del settecento. Questa sicuramente è una parte
del fascino della burocrazia. Naturalmente c’è anche la possibilità che le
motivazioni siano molto più profonde. Le relazioni impersonali favorite dalle
burocrazie non sono solo comode e convenienti. In qualche misura, almeno, la
nostra stessa idea di razionalità, giustizia e libertà si fonda su relazioni di
questo tipo. C’è stato un momento nella storia dell’umanità in cui una nuova
forma di burocrazia ha ispirato non solo passiva acquiescenza, ma anche un
sincero entusiasmo, quasi un’infatuazione. Ma cosa l’ha fatta sembrare così
esaltante?
Se Weber ha potuto descrivere la burocrazia come l’incarnazione stessa
dell’efficienza razionale è perché nella Germania dei suoi tempi le istituzioni
burocratiche funzionavano davvero. L’istituzione simbolo, l’orgoglio
dell’amministrazione tedesca, era l’ufficio postale. Alla fine dell’ottocento
il servizio postale tedesco era considerato una delle grandi meraviglie del
mondo moderno. La sua efficienza era leggendaria e gettò una specie di ombra
spaventosa su tutto il novecento. Molte delle grandi conquiste di quello che
oggi chiamiamo “tardo modernismo” sono state ispirate dall’ufficio postale
tedesco. E si potrebbe sostenere che molti dei grandi mali del secolo scorso
siano ugualmente da imputare all’ufficio postale tedesco.
Un progetto rivoluzionario
Per capire tutto questo dobbiamo risalire alle vere origini dello stato sociale
moderno, che oggi consideriamo fondamentalmente una creazione di élite
democratiche illuminate. Niente è più lontano dalla verità. In Europa molte
delle istituzioni centrali di quello che sarebbe poi diventato lo stato sociale
(dalla previdenza sociale alle pensioni, dalle biblioteche pubbliche agli
ospedali pubblici) non sono state create dai governi, ma dai sindacati, dalle
organizzazioni di quartiere, dalle cooperative, dalle associazioni e dai
partiti operai. Molte di queste organizzazioni erano consapevolmente impegnate
in un progetto rivoluzionario per creare, in modo graduale e dal basso,
istituzioni di tipo socialista.
In Germania il vero modello di questa nuova struttura amministrativa erano,
curiosamente, le poste. Questo, in realtà, ha una certa logica se si ripercorre
la storia del servizio postale. L’ufficio postale fu sostanzialmente uno dei
primi tentativi di applicare una forma di organizzazione gerarchica e militare
al bene pubblico. Storicamente i servizi postali emergono dall’organizzazione
degli eserciti e degli imperi. In origine erano un modo per trasmettere
rapporti operativi e ordini a lunga distanza. Successivamente, per estensione,
diventarono uno strumento per tenere uniti gli imperi. Di qui la famosa
citazione di Erodoto sui messaggeri imperiali persiani, con le loro postazioni
distribuite in modo uniforme in tutto il territorio dotate di cavalli riposati
che permettevano spostamenti rapidissimi: “Né la neve né la pioggia, il caldo o
il buio della notte impediscono loro di portare a termine un compito con la
massima velocità”, si legge ancora oggi all’ingresso dell’edificio del Central
post office di New York. L’impero romano aveva un sistema simile, e più o meno
tutti gli eserciti adottavano sistemi di corrieri postali finché nel 1805
Napoleone non passò all’alfabeto semaforico.
Una delle grandi innovazioni di governance del
settecento e specialmente dell’ottocento fu l’espansione e l’adattamento del
vecchio sistema dei corrieri militari a una nuova funzione pubblica che aveva
innanzitutto lo scopo di assicurare dei servizi per i cittadini. Il primo a
servirsene fu il commercio, poi le classi mercantili cominciarono a usare la
posta anche per la corrispondenza personale o politica. Di lì a poco, in molti
degli stati emergenti in Europa e nelle Americhe metà del bilancio dello stato
(e più della metà dei dipendenti pubblici) sarebbe stato assorbito dal servizio
postale.
Si potrebbe quasi sostenere che in Germania fu la posta a creare lo
stato-nazione. Durante il Sacro Romano Impero il diritto di amministrare un
sistema postale all’interno dei territori imperiali fu attribuito, alla maniera
feudale, a una famiglia aristocratica originaria di Milano, i baroni von Thurn
und Taxis (dice la leggenda che un discendente della famiglia fu l’inventore
del tassametro, da cui il taxi prenderebbe il nome). Nel 1867 l’impero
prussiano rilevò il monopolio dei Thurn und Taxis e lo usò per gettare le basi
di un nuovo servizio postale nazionale tedesco. Nei vent’anni successivi il
chiaro segnale che un nuovo staterello o principato era stato assorbito nel
nascente stato-nazione tedesco era l’incorporazione nel sistema postale. La
sfavillante efficienza del sistema diventò motivo di orgoglio nazionale. Ed
effettivamente, alla fine dell’ottocento, il servizio postale tedesco era a dir
poco impressionante, con 5-9 consegne al giorno nelle principali città, e
chilometri e chilometri di tubi pneumatici che attraversavano il sottosuolo di
Berlino per consegnare quasi all’istante lettere e piccoli pacchi grazie a un
sistema ad aria compressa. Mark Twain, che visse brevemente a Berlino tra il
1891 e il 1892, ne restò così colpito che scrisse uno dei suoi pochi saggi non
satirici, Postal service, per celebrare la
prodigiosa efficienza del servizio.
Non fu l’unico straniero a restare impressionato. A pochi mesi dallo
scoppio della rivoluzione russa, Vladimir Ilič Lenin scriveva: “Verso il 1870
un arguto socialdemocratico tedesco considerava la posta come un modello di
impresa socialista. Giustissimo. La posta è attualmente un’azienda organizzata
sul modello del monopolio capitalistico di stato. A poco a poco l’imperialismo
trasforma tutti i trust in organizzazioni di
questo tipo. Tutta l’economia nazionale organizzata come la posta: i tecnici, i
sorveglianti, i contabili, come tutti i funzionari dello stato, retribuiti con
uno stipendio non superiore al ‘salario da operaio’, sotto il controllo e la
direzione del proletariato armato. Ecco il nostro obiettivo immediato”. Ebbene
sì: l’organizzazione dell’Unione Sovietica fu modellata direttamente sul
servizio postale tedesco.
Questa visione di un potenziale paradiso che nasceva dall’interno
dell’ufficio postale non era confinata all’Europa. Dopo la guerra civile, con
l’affermazione del capitalismo societario, anche gli Stati Uniti si
avvicinarono al modello tedesco di capitalismo burocratico. Ancora una volta le
forme di una società nuova, più libera e razionale, sembravano emergere
all’interno delle strutture stesse dell’oppressione. Negli Stati Uniti, per
dire “nazionalizzazione” si usava il calco “postalizzazione”, poi completamente
scomparso dal linguaggio. E mentre Weber e Lenin invocavano la posta come un
modello per il futuro, negli Stati Uniti la sinistra sosteneva che perfino le
imprese private sarebbero state più efficienti se gestite come la posta, e
imponeva la “postalizzazione” di servizi importanti come la metropolitana e il
trasporto ferroviario locale e interstatale, da allora rimasti in mano
pubblica. Tutte queste fantasie sull’utopia postale suonano quantomeno datate.
Oggi il servizio postale è associato all’arrivo di cose che non vorremmo
affatto: bollette, avvisi di conto in rosso, accertamenti fiscali, offerte di
carte di credito usa e getta, appelli alla beneficenza e così via.
Nell’immaginario collettivo statunitense la figura dell’impiegato postale è
diventata sempre più triste. Ma proprio mentre si combatteva questa guerra
simbolica contro il servizio postale, è nata una nuova infatuazione, simile a
quella per la posta a cavallo del settecento e dell’ottocento. Possiamo
riassumerla in questo modo:
1.
Una nuova tecnologia di comunicazione nasce in ambito militare.
2.
La tecnologia si diffonde rapidamente, trasformando in modo radicale la
vita quotidiana.
3.
Quindi conquista una fama di sfolgorante efficienza.
4.
Dato che si basa su princìpi diversi dal libero mercato, è subito adottata
dai movimenti radicali, che la considerano un modello per un futuro sistema
economico non capitalista in grado di svilupparsi all’interno del capitalismo
stesso.
5.
Allo stesso tempo diventa uno strumento di controllo per il governo e
favorisce la proliferazione di nuove infinite forme di pubblicità e scartoffie
indesiderate.
Questi cinque punti rispecchiano esattamente la storia di internet. Cos’è
l’email se non un gigantesco ufficio postale elettronico superefficiente? Non
ha forse creato a sua volta l’illusione di una nuova forma di economia
cooperativa che nasce dalle spoglie del capitalismo, per poi inondarci di
truffe, pubblicità e offerte commerciali indesiderate, dando la possibilità
allo stato di spiarci in modi sempre nuovi e più creativi? È significativo che,
pur nascendo in ambito militare, il servizio postale e internet siano
considerati entrambi strumenti che impiegano tecnologie militari per scopi
squisitamente antimilitaristi. In tutti e due i casi una forma di comunicazione
minimalista e ridotta all’osso, tipica dei sistemi militari, si trasforma in
una piattaforma invisibile per costruire tutto quello che non è: sogni,
progetti, dichiarazioni d’amore e passione, effusioni artistiche, manifesti
sovversivi e qualsiasi altra cosa. Ma questo vuol dire anche che la burocrazia
ci attrae e ci sembra più liberatoria proprio nel momento in cui scompare:
quando, cioè, diventa talmente razionale e affidabile che ci illudiamo di poterci
addormentare su un letto di numeri e di ritrovarli al risveglio tutti al loro
posto.
Lavoratori industriali
I computer hanno avuto un ruolo cruciale in tutto questo. Nel settecento e
nell’ottocento l’invenzione di nuove forme di automazione industriale ebbe
l’effetto paradossale di trasformare una percentuale sempre maggiore della
popolazione mondiale in lavoratori industriali a tempo pieno. Allo stesso modo,
tutti i software progettati negli ultimi decenni per sollevarci dalle
responsabilità amministrative ci hanno trasformato in amministrativi part time
o a tempo pieno.
Mentre i professori universitari sono costretti a passare sempre più tempo
a gestire le borse di studio, i genitori si rassegnano a dedicare diverse
settimane ogni anno a compilare moduli online di quaranta pagine per iscrivere
i figli a una scuola dignitosa. Allo stesso modo, i commessi sanno che dovranno
passare una parte sempre più consistente della loro vita a digitare password
sul telefono per accedere ai loro vari conti bancari. Ognuno di noi sa che
dovrà imparare a fare il lavoro che un tempo facevano gli agenti di viaggio, i
mediatori finanziari e i commercialisti.
Qualcuno una volta ha calcolato che lo statunitense medio passa sei mesi
della propria vita ad aspettare che scatti il semaforo. Non so se ci sono dati
simili su quanto tempo passiamo a riempire moduli, ma deve essere almeno
altrettanto. Credo di poter dire che mai nella storia del nostro pianeta una
popolazione ha passato tanto tempo a occuparsi di scartoffie.
Il guaio è che tutto questo è successo dopo la caduta dell’orribile e
antiquato socialismo burocratico e il trionfo della libertà e del mercato.
Certamente è uno dei grandi paradossi della vita contemporanea, ma a quanto
pare siamo diventati sempre più restii ad affrontare la questione.
Chiaramente questi problemi sono collegati, direi anzi che sotto molti
aspetti si tratta dello stesso problema. Non si può semplicemente dire che
l’approccio burocratico (o più specificamente manageriale) ha soffocato tutte
le forme di immaginazione tecnica e di creatività. In fondo, come ci ricordano
sempre, internet ha liberato ogni sorta di visione creativa e spirito
collaborativo. Ma ciò che la rete ha portato davvero è una curiosa inversione
di fini e mezzi, dove la creatività è al servizio dell’amministrazione, e non
il contrario. La metterei così: in questa ultima, interminabile fase del
capitalismo ci stiamo spostando dalle tecnologie poetiche alle tecnologie
burocratiche.
Quando parlo di tecnologie poetiche mi riferisco all’uso di mezzi
razionali, tecnici e burocratici per dar vita a fantasie incontrollate e
impossibili. In questo senso, le tecnologie poetiche sono antiche quanto la
civiltà. Potremmo dire che precedono le macchine complesse. Lewis Mumford
sosteneva che le prime macchine complesse erano fatte di persone. I faraoni
egiziani furono in grado di costruire le piramidi solo grazie a una profonda
conoscenza delle procedure amministrative, che a sua volta permise di
sviluppare tecniche di produzione, di suddividere le attività complesse in
decine di operazioni semplici e di assegnare ogni operaio a una squadra. Tutto
questo senza conoscere tecnologie meccaniche più complesse della leva e del
piano inclinato. Il controllo burocratico trasformò eserciti di braccianti in
ingranaggi di una grande macchina. Molti anni dopo, quando furono inventati gli
ingranaggi veri e propri, la progettazione di macchinari complessi diventò
sempre, in qualche misura, un’elaborazione di princìpi che originariamente
erano stati sviluppati per organizzare le persone. Eppure, ogni volta queste
macchine (non importa se le loro parti sono braccia e tronchi oppure pistoni,
ruote e molle) sono messe all’opera per realizzare fantasie che altrimenti
sarebbero impossibili: cattedrali, viaggi sulla luna, ferrovie
transcontinentali e così via. Certamente, le tecnologie poetiche hanno quasi
sempre qualcosa di terribile: la poesia è in grado di evocare sia “oscuri
mulini satanici” sia grazia e liberazione. Ma le tecniche razionali e
burocratiche sono sempre al servizio di un grande fine.
Da questo punto di vista, i folli piani sovietici – anche se mai realizzati
– hanno segnato il livello di piena delle tecnologie poetiche. Ora abbiamo il
problema contrario. Questo non vuol dire che visione, creatività e fantasie
irrazionali non sono più incoraggiate. Il punto è che le nostre fantasie
restano sospese in aria: non facciamo più neanche finta che possano prendere
forma o solidità. Allo stesso tempo, nei pochi campi in cui la creatività
libera e originale è effettivamente favorita (come lo sviluppo dei software
open source per internet), è impiegata per creare altre piattaforme, ancora più
efficaci, per la compilazione di moduli. È questo che intendo con tecnologie
burocratiche: gli obblighi amministrativi sono diventati non il mezzo, ma il
fine dello sviluppo tecnologico. Intanto, la nazione più grande e potente che
sia mai esistita sulla Terra ha passato gli ultimi decenni a spiegare ai suoi
cittadini che non è più tempo di sognare grandi imprese, anche se, come indica
l’attuale crisi ambientale, il destino del pianeta dipende da questa capacità.
La burocrazia incanta quando diventa una sorta di tecnologia poetica. Per
gran parte della storia questo potere è stato in mano agli imperatori o ai
comandanti degli eserciti vittoriosi, perciò potremmo addirittura parlare di
una democratizzazione del despotismo. Un tempo il privilegio di alzare la mano
e far sì che un esercito invisibile di ruote e ingranaggi si organizzasse da
solo per soddisfare i propri capricci era riservato a pochi eletti. Nel mondo
contemporaneo può essere suddiviso in milioni di pezzi piccolissimi e messo a
disposizione di chiunque sappia scrivere una lettera o schiacciare un
interruttore.
(Traduzione di Fabrizio Saulini)
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