1. Non sarà facile quest’anno rientrare in aula,
intendo come maestre e maestri. A sei mesi di distanza dall’ultima lezione, entriamo
in una scuola completamente diversa, d’emergenza, “distanziata”, costellata di
norme di sicurezza e sanitarie che facciamo ancora un po’ fatica a capire e ad
assimilare fino in fondo. Diciamo che nella mente di ognuno di noi insegnanti
si sta lentamente formando un’idea provvisoria di presenza e azione scolastica
che dovrebbe rendere possibile almeno l’abbrivio di questo anno speciale,
diciamo la prima settimana. Un “prototipo” di maestra o maestro dell’era covid.
Prototipo perché fin dal primo incontro con le bambine e i bambini, questo
modello provvisorio muterà inevitabilmente in mille modi e in mille forme,
perché il corpo a
corpo – pur a distanza – con gli allievi detterà le nuove condizioni della relazione
e della didattica.
Nei mesi scorsi molti hanno scritto diari della quarantena, ma credo che
molto più interessanti saranno le cronache, se qualcuno riuscirà a scriverle,
dell’imminente rientro, di questa nuova esperienza di scuola, in presenza ma a
distanza (o viceversa).
2. Non esiste un solo modo di stare a scuola. Come insegnanti
sappiamo bene che esistono differenze notevoli nelle modalità di intendere la
didattica, la relazione tra bambini e i rapporti tra adulti e bambini, la
gestione delle regole, il riconoscimento dei corpi.
Sicuramente esistono maestri e
maestre che non troveranno molte differenze tra la situazione di
sei mesi fa e quella che si prepara per settembre. Diciamo che a questi
docenti basterà aggiungere un po’
di disinfettante e un cartellone con le situazioni in cui è
obbligatoria la mascherina: il
resto sarà la solita classe immobile, atomizzata, disciplinata (molto
simile a quella prescritta dall’invalsi per i suoi test).
Per altri docenti sarà invece un dramma. Questi
ultimi considerano i rapporti concreti tra i corpi come percorsi fondamentali
per costruire relazioni affettive tra le bambine e i bambini, e pensano che
queste relazioni siano i presupposti indispensabili per una didattica motivata
e cooperativa. Quindi questi docenti faranno i salti mortali e dovranno battere altre
strade per costruire in classe una socialità sostitutiva che colmi le voragini
aperte tra un banco e l’altro, senza mettere a rischio la salute.
Con il rischio-pandemia infatti, questa idea di didattica e di relazione
scolastica perde le proprie fondamenta. La nuova didattica d’emergenza verrà reinventata giorno per giorno,
pratica didattica per pratica didattica, ricreazione per ricreazione; maestre e
maestri dovranno osservare voracemente la scuola in fieri non solo per
conoscere i bambini, ma anche per capire come il loro nuovo modo di fare i
docenti sta agendo, se sta funzionando, cosa modificare. Per questo non è
peregrina l‘idea del diario;
forse sarebbe utile un diario collettivo, uno spazio pubblico in cui – noi che
ci riconosciamo in questo secondo modello di docente – possiamo mettere in
comune le esperienze, soprattutto nei primi mesi. Pensiamoci.
3. Quanto durerà questa scuola di emergenza? Spero che un
vaccino, nel corso dell’anno scolastico, arrivi come panacea a riportare tutto
alla situazione precedente. So che forse è una illusione, nel senso che non è
detto che arrivi in tempi rapidi, né che abbia la magica efficacia che
auspichiamo. Soprattutto so che questi mesi che sono passati e che passeranno
stanno trasformando il nostro modo di stare a scuola e la stessa idea di scuola
circolante nella società: purtroppo queste trasformazioni non sono facilmente
reversibili e ciò che passerà sarà molto faticoso da recuperare.
Proprio per questo però, tra un pensiero e l’altro su come inventarsi una
nuova didattica attiva e concreta nelle classi anticovid, ho pensato che poteva
essere utile segnarmi alcune delle
pratiche che quest’anno non potrò realizzare, quelle
cui ero più affezionato, che mi sembravano particolarmente significative
dell’idea di scuola di cui momentaneamente sarò orfano.
Perché le segno? Per non perderle, come l’osso il cane, perché in attesa di
disseppellirle àbbiano un effetto regolativo su ciò che andrò escogitando
insieme alle colleghe per questo nuovo anno. Ne ho scelte tre.
4. La prima sono le valigie di vestiti, cappelli,
occhiali, baffi finti e cinture, borsette e rossetti che teniamo a scuola ormai
da una ventina di anni, a disposizione per travestirsi. Mascherarsi è sempre
bello, ma anche utile: provare a vedersi in maniera diversa, giocare al teatro,
uscire da se stessi per provare un sé diverso o diversa. Potevano venire usati
molte volte durante l’anno, ed erano pronti anche per gli intervalli, non
serviva un progetto particolare. Non sempre incontrano l’entusiasmo delle
gerarchie: ci è capitato anche di nasconderli agli occhi di alcuni dirigenti…
Fino allo scorso anno però l’unica grande resistenza era la questione dei pidocchi,
ormai endemici e praticamente inoffensivi nella scuola italiana, ma angoscianti
per molti genitori. In questo senso siamo sempre scesi a patti sospendendo i
cappelli nei momenti in cui venivano segnalati, una parziale rinuncia ben
sopportabile. Quest’anno evidentemente non se ne parla. Abbiamo lavato i pezzi
migliori e li abbiamo chiusi in scatoloni pronti per l’anno scolastico 2021-22.
Ma come faremo fino ad allora? Come potremo sublimare senza rischiare il
contagio?
5. La seconda pratica sono i giochi di contatto,
a coppie o di gruppo, che facevamo in palestra e poi in cortile. Ce ne sono
alcuni bellissimi. Prima di tutto il grande
nodo: si parte da cinque o sei bambini (ma si può salire
di numero) che si prendono per mano intrecciandosi tra le braccia e le gambe in
un groviglio apparentemente inestricabile. Poi, con molta calma, formata questa
massa umana ridente e ondeggiante, si dà il via per lo scioglimento, lento, non
sempre garantito ma spesso possibile, senza staccare le mani e infilando gambe
tra le braccia dei compagni o testa sotto le loro ascelle e così via. Un gioco
ancora migliore sono i rotoloni a
terra gli uni sugli altri: si parte tutti distesi a terra, proni, stretti
fianco a fianco e braccia distese in alto. L’ultimo di questo fitto tappeto
umano parte ruotando sul suo asse longitudinale per salire sugli altri
rotolandoci sopra fino ad arrivare all’inizio della fila e riposizionarsi a
terra. In questo gioco le grida – a volte di risate, a volte di schiacciamento
– si susseguono mettendo a stretto contatto corpi che hanno bisogno di prendere
confidenza gli uni con gli altri e con se stessi. Questi percorsi di fiducia e
di contatto come ce li inventiamo, il prossimo settembre?
6. Terzo appunto: imboccarsi a tavola. Chi insegna in una
scuola dove si mangia sa che il momento del pasto è importante per la
relazione, per le chiacchiere, per fare l’esperienza del cibo in pubblico
(senza i genitori e con i compagni). Per fare un passetto in più però qualche
volta si organizzava il pranzo a coppie. Ognuno, reciprocamente, doveva dare da
mangiare e da bere al compagno, imboccarlo. Non è facile, provateci: non è
solamente l’abilità della mamma o del papà che imboccano l’infante, è anche la
capacità e la disponibilità a ricevere il boccone. Anche qui il divertimento,
l’inquietudine, il superamento di alcune paure si mescolano inestricabilmente,
sono esperienze forti, bisogna imparare ad affidarsi ai compagni e allo stesso
tempo mostrarsi all’altezza della fiducia che si riceve. E poi le tante
individualità che entrano in questi giochi arricchiscono quelle esperienze
delle loro personalità, desideri, inquietudini, dei loro modi mai
standardizzati di vivere. Quest’anno come faremo?
7. Bene, Me li sono segnati. Ora
conviene rimettersi al lavoro per inventarsi una traduzione giocoforza moderata
dell’idea di scuola che è sottesa a queste pratiche, per non smarrirsi
fin dall’inizio in questo anno scolastico eccezionale. C’è molto da ragionare, forse conviene
iniziare dal saluto. Come ci salutiamo? Modo indiano? Cinese? Islamico? Tocco
di scarpa e colpo di sedere? Fist bump? Gomito? Li proponiamo tutti e li
invitiamo a personalizzarlo? Su, al lavoro…
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