martedì 1 settembre 2020

Cosa mi segno della scuola di ieri - Gianluca Gabrielli


 

1. Non sarà facile quest’anno rientrare in aula, intendo come maestre e maestri. A sei mesi di distanza dall’ultima lezione, entriamo in una scuola completamente diversa, d’emergenza, “distanziata”, costellata di norme di sicurezza e sanitarie che facciamo ancora un po’ fatica a capire e ad assimilare fino in fondo. Diciamo che nella mente di ognuno di noi insegnanti si sta lentamente formando un’idea provvisoria di presenza e azione scolastica che dovrebbe rendere possibile almeno l’abbrivio di questo anno speciale, diciamo la prima settimana. Un “prototipo” di maestra o maestro dell’era covid. Prototipo perché fin dal primo incontro con le bambine e i bambini, questo modello provvisorio muterà inevitabilmente in mille modi e in mille forme, perché il corpo a corpo – pur a distanza – con gli allievi detterà le nuove condizioni della relazione e della didattica.

Nei mesi scorsi molti hanno scritto diari della quarantena, ma credo che molto più interessanti saranno le cronache, se qualcuno riuscirà a scriverle, dell’imminente rientro, di questa nuova esperienza di scuola, in presenza ma a distanza (o viceversa).

2. Non esiste un solo modo di stare a scuola. Come insegnanti sappiamo bene che esistono differenze notevoli nelle modalità di intendere la didattica, la relazione tra bambini e i rapporti tra adulti e bambini, la gestione delle regole, il riconoscimento dei corpi.

Sicuramente esistono maestri e maestre che non troveranno molte differenze tra la situazione di sei mesi fa e quella che si prepara per settembre. Diciamo che a questi docenti basterà aggiungere un po’ di disinfettante e un cartellone con le situazioni in cui è obbligatoria la mascherina: il resto sarà la solita classe immobile, atomizzata, disciplinata (molto simile a quella prescritta dall’invalsi per i suoi test).

Per altri docenti sarà invece un dramma. Questi ultimi considerano i rapporti concreti tra i corpi come percorsi fondamentali per costruire relazioni affettive tra le bambine e i bambini, e pensano che queste relazioni siano i presupposti indispensabili per una didattica motivata e cooperativa. Quindi questi docenti faranno i salti mortali e dovranno battere altre strade per costruire in classe una socialità sostitutiva che colmi le voragini aperte tra un banco e l’altro, senza mettere a rischio la salute.

Con il rischio-pandemia infatti, questa idea di didattica e di relazione scolastica perde le proprie fondamenta. La nuova didattica d’emergenza verrà reinventata giorno per giorno, pratica didattica per pratica didattica, ricreazione per ricreazione; maestre e maestri dovranno osservare voracemente la scuola in fieri non solo per conoscere i bambini, ma anche per capire come il loro nuovo modo di fare i docenti sta agendo, se sta funzionando, cosa modificare. Per questo non è peregrina l‘idea del diario; forse sarebbe utile un diario collettivo, uno spazio pubblico in cui – noi che ci riconosciamo in questo secondo modello di docente – possiamo mettere in comune le esperienze, soprattutto nei primi mesi. Pensiamoci.

3. Quanto durerà questa scuola di emergenza? Spero che un vaccino, nel corso dell’anno scolastico, arrivi come panacea a riportare tutto alla situazione precedente. So che forse è una illusione, nel senso che non è detto che arrivi in tempi rapidi, né che abbia la magica efficacia che auspichiamo. Soprattutto so che questi mesi che sono passati e che passeranno stanno trasformando il nostro modo di stare a scuola e la stessa idea di scuola circolante nella società: purtroppo queste trasformazioni non sono facilmente reversibili e ciò che passerà sarà molto faticoso da recuperare.

Proprio per questo però, tra un pensiero e l’altro su come inventarsi una nuova didattica attiva e concreta nelle classi anticovid, ho pensato che poteva essere utile segnarmi alcune delle pratiche che quest’anno non potrò realizzare, quelle cui ero più affezionato, che mi sembravano particolarmente significative dell’idea di scuola di cui momentaneamente sarò orfano.

Perché le segno? Per non perderle, come l’osso il cane, perché in attesa di disseppellirle àbbiano un effetto regolativo su ciò che andrò escogitando insieme alle colleghe per questo nuovo anno. Ne ho scelte tre.

4. La prima sono le valigie di vestiti, cappelli, occhiali, baffi finti e cinture, borsette e rossetti che teniamo a scuola ormai da una ventina di anni, a disposizione per travestirsi. Mascherarsi è sempre bello, ma anche utile: provare a vedersi in maniera diversa, giocare al teatro, uscire da se stessi per provare un sé diverso o diversa. Potevano venire usati molte volte durante l’anno, ed erano pronti anche per gli intervalli, non serviva un progetto particolare. Non sempre incontrano l’entusiasmo delle gerarchie: ci è capitato anche di nasconderli agli occhi di alcuni dirigenti… Fino allo scorso anno però l’unica grande resistenza era la questione dei pidocchi, ormai endemici e praticamente inoffensivi nella scuola italiana, ma angoscianti per molti genitori. In questo senso siamo sempre scesi a patti sospendendo i cappelli nei momenti in cui venivano segnalati, una parziale rinuncia ben sopportabile. Quest’anno evidentemente non se ne parla. Abbiamo lavato i pezzi migliori e li abbiamo chiusi in scatoloni pronti per l’anno scolastico 2021-22. Ma come faremo fino ad allora? Come potremo sublimare senza rischiare il contagio?

5. La seconda pratica sono i giochi di contatto, a coppie o di gruppo, che facevamo in palestra e poi in cortile. Ce ne sono alcuni bellissimi. Prima di tutto il grande nodo: si parte da cinque o sei bambini (ma si può salire di numero) che si prendono per mano intrecciandosi tra le braccia e le gambe in un groviglio apparentemente inestricabile. Poi, con molta calma, formata questa massa umana ridente e ondeggiante, si dà il via per lo scioglimento, lento, non sempre garantito ma spesso possibile, senza staccare le mani e infilando gambe tra le braccia dei compagni o testa sotto le loro ascelle e così via. Un gioco ancora migliore sono i rotoloni a terra gli uni sugli altri: si parte tutti distesi a terra, proni, stretti fianco a fianco e braccia distese in alto. L’ultimo di questo fitto tappeto umano parte ruotando sul suo asse longitudinale per salire sugli altri rotolandoci sopra fino ad arrivare all’inizio della fila e riposizionarsi a terra. In questo gioco le grida – a volte di risate, a volte di schiacciamento – si susseguono mettendo a stretto contatto corpi che hanno bisogno di prendere confidenza gli uni con gli altri e con se stessi. Questi percorsi di fiducia e di contatto come ce li inventiamo, il prossimo settembre?

6. Terzo appunto: imboccarsi a tavola. Chi insegna in una scuola dove si mangia sa che il momento del pasto è importante per la relazione, per le chiacchiere, per fare l’esperienza del cibo in pubblico (senza i genitori e con i compagni). Per fare un passetto in più però qualche volta si organizzava il pranzo a coppie. Ognuno, reciprocamente, doveva dare da mangiare e da bere al compagno, imboccarlo. Non è facile, provateci: non è solamente l’abilità della mamma o del papà che imboccano l’infante, è anche la capacità e la disponibilità a ricevere il boccone. Anche qui il divertimento, l’inquietudine, il superamento di alcune paure si mescolano inestricabilmente, sono esperienze forti, bisogna imparare ad affidarsi ai compagni e allo stesso tempo mostrarsi all’altezza della fiducia che si riceve. E poi le tante individualità che entrano in questi giochi arricchiscono quelle esperienze delle loro personalità, desideri, inquietudini, dei loro modi mai standardizzati di vivere. Quest’anno come faremo?

7. Bene, Me li sono segnati. Ora conviene rimettersi al lavoro per inventarsi una traduzione giocoforza moderata dell’idea di scuola che è sottesa a queste pratiche, per non smarrirsi fin dall’inizio in questo anno scolastico eccezionale. C’è molto da ragionare, forse conviene iniziare dal saluto. Come ci salutiamo? Modo indiano? Cinese? Islamico? Tocco di scarpa e colpo di sedere? Fist bump? Gomito? Li proponiamo tutti e li invitiamo a personalizzarlo? Su, al lavoro… 

da qui

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