Se non abbiamo un modello di ciò che desideriamo
essere, abbiamo però, ed è forse altrettanto prezioso, il modello quotidiano e
illuminante di ciò che non desideriamo essere. … Il nostro modello, lungi dallo
stare immobile e in posa, si muove continuamente e scompare.
La Società delle Estranee
(Virginia Woolf, Le tre ghinee)
Il
pubblico
La
civiltà attuale, della quale i nostri discendenti raccoglieranno sicuramente in
eredità almeno dei frammenti, contiene, lo avvertiamo fin troppo, quanto basta
per schiacciare l’essere umano; ma contiene anche, almeno in germe, qualcosa
che può liberarlo. (…) quale compito più nobile potremmo assumerci se non
quello di preparare metodicamente un tale avvenire, lavorando a fare
l’inventario della civiltà presente? (1)
Il desiderio
di agire e di contribuire alla costruzione di un mondo migliore si smarrisce
davanti alla sua complessità: il mondo è troppo grande, è molto più forte,
oppone resistenza, vanifica i sogni, non è disposto a lasciarsi cambiare.
Tuttavia alcune domande chiedono con insistenza una risposta:
– che cosa
significa avere a cuore il mondo?
– che cosa si può fare per il mondo?
– dove e come posizionarsi … in un mondo così grande?
Il mondo, come tutte le parole astratte, pretende di dire
troppo e rischia di non contenere nulla. E’ necessario restringere i suoi
confini, farlo coincidere con una realtà più piccola e comportarsi come se questa piccola realtà fosse il mondo
intero.
La scuola è
lo spazio pubblico per eccellenza, è abitata da donne e uomini, storie,
culture, religioni, ruoli di potere e di autorità: la scuola è davvero un mondo
e rispondere a quelle domande diventa possibile.
Se la scuola
è il luogo delle differenze e non delle diversità (“diversità”
– da divertere – significa “deviare”, e si devia da una
norma: il diverso può essere l’opposto, l’opposto può diventare il nemico e il
nemico può generare gli schieramenti e la logica della guerra; “differenza” – da differo –
significa “differire”, “portare/andare in altra direzione”: indica l’essere
altro, non opposto), comportarsi come se la
scuola fosse il mondo significa fare di questa realtà il luogo della politica:
La
“polis”, propriamente parlando, non è la città-stato in quanto situata fisicamente
in un territorio; è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal
loro agire e parlare insieme, e il suo autentico spazio si realizza tra le
persone che vivono insieme a questo scopo, indipendentemente dal luogo in cui
si trovano. (2)
Il mondo è
determinato dalle parole e dalle azioni di ogni persona che ne faccia parte.
Con le proprie parole e con le proprie azioni si dà inizio a processi
irreversibili, dei quali ogni persona è la sola responsabile.
Si è in un
contesto e lo si determina anche quando si tace, perché il silenzio e
l’immobilità sono azioni politiche: il più delle volte non portano cambiamenti
ma, seppure involontariamente, confermano l’esistente.
La propria
libertà, condizione essenziale dell’agire politico, si realizza perciò nella
scelta del punto nel quale collocarsi, con parole e gesti.
Avere a
cuore il mondo diventa la cura della realtà nella quale si è, del contesto di
cui si è parte, del luogo a volte piccolissimo che si sceglie di occupare.
Fare
qualcosa per il mondo è assumersi la responsabilità delle proprie parole e
delle proprie azioni, che determinano la realtà in qualunque caso.
La scuola,
luogo delle differenze, è un mondo di relazioni complesse e talvolta
complicate.
Una
relazione è composta da tre elementi: l’io, il tu, e quello che c’è tra l’io e il tu; avere a cuore
una relazione è avere cura di ciò che sta tra l’io e il tu, e che dipende sia
dall’io che dal tu. Poiché non si è responsabili di quello che dipende dal tu,
è necessario occuparsi dell’io, partendo da sé e dalle proprie responsabilità.
Ma partire da sé può essere inteso in due maniere:
– l’io è il
soggetto, il punto di vista sul mondo; è il metro, la misura, il criterio per
giudicare gli altri/le altre (il tu); è il centro del mondo e stabilisce le
condizioni della relazione;
– l’io è nel contesto, non è astratto né onnipotente ma calato in una rete di
relazioni; è uno di almeno due soggetti; essendo parte della relazione, è
consapevole della sua parzialità.
La responsabilità è una parola composta da respondeo, “farsi carico”, e da sponsio, che significa “impegnarsi, promettere
solennemente”: l’io responsabile è consapevole del proprio limite, della sua
parzialità, e si impegna a rispettare l’altro/a affinché la relazione sia
possibile.
Sarebbe
bello se il mondo fosse popolato da persone che, facendo il loro ingresso nello
spazio pubblico, stipulassero in libertà un patto con se stesse e agissero, di
conseguenza, nel rispetto di quel patto, fedeli a quelle condizioni originarie
e perciò a se stesse, investendo qui e ora la
parte migliore di sé … perché il mondo sia migliore.
Invece il
destino della scuola italiana è segnato pesantemente da una politica culturale
legata agli interessi di questo o di altri governi, a loro volta dipendenti
dalla politica dell’unione europea la quale fa i conti con la politica di altre
potenze, e così via.
La
globalizzazione è questo gioco di scatole cinesi, di pezzi concatenati come nel
regime feudale, dove però era ancora possibile individuare i luoghi e i volti
responsabili del destino della gente. Oggi sembra che nessuno abbia colpa e,
alla domanda che cosa posso fare?, la risposta
non può che essere niente!
Sarebbe
altro se la scuola fosse un insieme composto di parti ciascuna delle quali
funzionasse per il tutto, per realizzare al meglio e al massimo le sue
potenzialità, per conseguire il suo fondamentale obiettivo: garantire e curare
il futuro delle nuove generazioni. Allora avrebbe un senso pretendere, da chi
insegna, la competenza e la coscienza politica del proprio ruolo, sulle quali
condizioni è fondata la professionalità, procedendo all’esclusione di quanti/e
lasciano segni negativi e inguaribili nella formazione di ragazze e ragazzi.
La scuola è
invece una somma di pezzi ciascuno dei quali funziona indipendentemente dagli
altri, essa stessa parte di una macchina più grande, messa in movimento da
interessi del tutto estranei alle ragioni che dovrebbero tenerla in vita.
In questa
sciagura hanno origine la rassegnazione, il risentimento, la perdita del senso
di sé, dell’entusiasmo professionale, dell’ottimismo di una volontà ormai
umiliata e resa impotente.
Davvero non
si può fare niente?
Il
lamento, a differenza di una vera risposta alla realtà a noi contemporanea, è
del tutto funzionale al potere, perché si esaurisce su se stesso e non ne
scalfisce affatto il meccanismo. (3)
Il lamento
viene dal sentirsi vittime di un ordine dato, apparentemente fatale, al cui
interno ogni elemento possiede una collocazione stabilita da una volontà
estranea e inoppugnabile. La propria vita e il proprio lavoro sembrano
dipendere da un burattinaio senza volto, sembrano diretti da una mente maligna,
incapace di tenere conto della realtà vera e dei suoi bisogni. Ed è facile
scivolare nella convinzione che le alternative possibili siano soltanto due:
– inserirsi
nell’ordine di questo mondo, sostenerne gli scopi, individuare per sé un
traguardo da raggiungere dimostrando di esserne all’altezza, collaborare a
quell’ordine con il proprio impegno e le proprie competenze;
– lamentare
l’ingiustizia di questo mondo, rivendicare i propri diritti offesi, sfidare il
burattinaio del momento, affinché conceda ciò che ha negato o tolto.
In entrambi
i casi quell’ordine viene confermato, anche quando si ottenesse un risultato
vantaggioso: la mente maligna concede perché vuole dimostrare di essere buona!
Qualunque
sia la prospettiva, è assente l’essenziale: perché scegliere la scuola come
luogo del proprio lavoro? Perché insegnare? Esiste una terza alternativa, che
non si riduca a una qualche forma di obbedienza?
Non potendo
cambiare il mondo e neppure adeguarsi al suo ordine, è necessario modificare lo
sguardo e compiere un gesto non previsto. La propria libertà sta a monte e non
a valle, chiede un atto di coraggio e di fierezza, pretende una risposta
chiara, onesta, spregiudicata: quale segno si vuole lasciare nel mondo? Quale
uso si vuole fare del proprio tempo?
Partire
da sé è
l’unica strada che restituisce la sensatezza alla propria vita, e alla politica
la sua nobiltà. Dire parole e compiere azioni in armonia con sé, fedeli a sé,
scombina le regole degli altrui giochi e può provocare reazioni insperate,
anche a propria insaputa.
L’ostacolo
sembra essere la solitudine. Eppure dentro la scuola, come forse in tutti gli
ambiti lavorativi, si muovono persone altrettanto impegnate a lavorare in
libertà e senza paura, capaci di essere interamente in quello che fanno e che
dicono. E’ bello riconoscerle e stabilire con loro una specie anche misteriosa
di familiarità.
Questi
incontri hanno il potere di aprire uno spiraglio e di indicare una direzione
comune, purché non si corra il rischio della “complicità”, termine che allude
alla somma di forze contro qualcun altro, … certamente nemico.
La
formazione degli schieramenti è quanto di più noto accada dentro i luoghi di
lavoro, è la tattica più comoda e più facile perché la costruzione sociale
complessiva la favorisce. Ma ricorrere a questa modalità di azione, ben lungi
dall’essere utile a migliorare il mondo, lo conferma invece nella sua logica
fondativa, perché esalta e nutre l’abitudine a pensare e a dire secondo
dualismi, coppie di termini solitamente in opposizione reciproca. Ragione o
torto, vero o falso, amico o nemico: interpretare il mondo usando questi schemi
significa negare la realtà stessa del mondo, che perde così la sua complessità
e la sua ricchezza. La contrapposizione tra l’io e il tu paradossalmente si aggrava se i due termini
diventano collettivi: noi e voi (o loro) sono parole
comunque identitarie, affermano l’uno per negare
l’altro, rivelano o generano un clima di guerra. In
queste situazioni, e coerentemente con esse, si ricorre al compromesso, un accordo stabilito in funzione della
convenienza reciproca sulla base di un calcolo, una tregua che assegna a
ciascun avversario la sua “quota” sospendendo temporaneamente l’antagonismo,
che si sposta senza risolversi. Esistono soltanto l’io e
il tu, ciascuno interessato a essere riconosciuto. Fra
loro è il vuoto.
Il mondo si
salva se le differenze vengono considerate e rispettate. Per questo motivo è
necessario avere cura delle relazioni perciò del medium, di ciò che sta tra l’io e
il tu, luogo delle differenze e degli infiniti punti di
vista nel mondo. Avere a cuore le relazioni non è facile, perché richiede la
consapevolezza del proprio limite prima di quello altrui, dunque la coscienza
della propria parzialità. Quando questa premessa viene tenuta in conto non c’è
rischio di guerra: i soggetti della relazione non sono autocentrati, non sono
mossi dal bisogno di dimostrare la propria superiorità, non si considerano
autosufficienti.
Nella realtà
i conflitti sono inevitabili e a volte è saggio sottrarsi, qualora la dinamica
della relazione fosse davvero ingovernabile. Ma vale sempre la pena provare a
scioglierli, ascoltando con rispetto le ragioni altrui e raccontando le
proprie.
Se tra l’io e il tu c’è davvero
il mondo, in quel luogo sicuramente si nasconde una terza alternativa, una
terza via percorribile. Contrariamente al compromesso, la mediazione è un accordo al quale si giunge con il
dialogo e perciò con l’ascolto reciproco; non inaugura un periodo di tregua
perché è l’onesto riconoscimento dell’altrui differenza; è la ricerca di una
direzione che possa tenere insieme ciò che venga considerato essenziale per
entrambi.
L’uomo
è una enorme palude. Quando lo prende l’entusiasmo è come se in un punto di
quella palude vedessimo tuffarsi nell’acqua verde una piccola rana. (4)
L’enthousiasmos è la forza vitale che abita nel
profondo di sé, troppo spesso soffocata da strati di rabbia, di delusione, di
impotenza. Per riportarla in superficie è necessario un lavoro su di sé che non
ha termine, insieme all’impegno nelle relazioni con chi prenda sul serio la
vita propria e altrui. Ma … chi glielo fa fare?
A questa
domanda si può rispondere forse in un solo modo: Il compito sei tu. Da nessuna parte si vede un
alunno. (5)
Il
privato
Non
raramente, sembra davvero che il conflitto sia tra chi vuole insegnare e chi
non vuole imparare.
Scherzi della falsa coscienza degli educatori di professione. (6)
Suona la
campana e improvvisamente le porte si chiudono, separando ogni classe dal mondo
esterno e, quando fosse possibile o necessario, da tutto quello che fino a un
attimo prima occupava la mente e il cuore di studenti e insegnanti. Ognuno/a al
suo posto, chi dietro un banco, chi dietro un banco più grande e talvolta più
alto degli altri.
La scuola
appartiene certamente alla sfera pubblica perché è abitata da categorie sociali
varie, è governata da leggi e regole scritte e perciò anche contestabili, è
organizzata in funzione di valori perlomeno dichiarati.
Le persone
che la frequentano sono in relazione reciproca e agiscono e parlano,
generalmente senza potersi sottrarre allo sguardo e al giudizio altrui. Nella
migliore delle ipotesi i conflitti vengono alla luce e si risolvono, con il ricorso
a una autorità se necessario, o con la pratica della buona politica quando le
persone coinvolte non perdano di vista la ragione del proprio essere in quel
luogo.
Nello spazio
pubblico si rende conto di azioni e parole, come su un palcoscenico dal quale
si parla al … pubblico, che approva o no,
applaude o si agita nervosamente, sorride di compiacimento o abbassa lo
sguardo, dirigendolo forse all’orologio che porta sul polso. E comunque il
pubblico giudica, anche quando non gli venisse riconosciuto il suo fondamentale
diritto di rispondere.
Che cosa
accade dentro un’aula scolastica? Al suo interno la sfera pubblica e quella
privata possono confondersi, scivolare ambiguamente l’una nell’altra, prevalere
l’una sull’altra a seconda dell’atteggiamento di chi insegna.
Non è in
discussione che l’insegnante svolga un ruolo ma che quel ruolo venga giocato
arbitrariamente, macchiato con l’abuso di un potere presunto e indiscutibile,
vanificato dall’esercizio di una superiorità implicita, data per scontata e
perciò imposta dall’alto.
Eppure
esiste una formula magica, capace di svelare una verità illuminante: porsi
dietro un banco, immaginare di essere nei panni dell’alunna in fondo, quella
con lo sguardo perso nel vuoto; oppure dell’alunna del primo banco, che non smette
di voler apparire attenta; o ancora dell’alunno con la testa china, che non
disturba ma che forse controlla l’orario o compone un messaggio.
Quali
alternative sono date all’insegnante?
– può
continuare a svolgere il suo lavoro e fare finta di nulla, perché ognuno/a
renderà conto alla propria coscienza;
– può continuare a svolgere il suo lavoro pretendendo l’attenzione dell’intera
classe, e rimproverando chi si distrae;
– può continuare a svolgere il suo lavoro fermandosi, domandando le ragioni di
chi si distrae, tenendo conto della risposta e procedendo in altro modo,
insieme al suo pubblico.
La scuola
diventa privata quando non è più mondo, quando si ritiene
di non dover rendere conto del proprio lavoro, quando il punto di osservazione
di ragazzi e ragazze che ascoltano non riveste importanza alcuna. Si scivola
nel privato se, chiudendo la porta dell’aula, avviene
la separazione dal mondo esterno e da quello interiore, proprio e altrui;
quando si ha la pretesa che i corpi non meritino rispetto e attenzione, e che
soltanto il pensiero conti; quando si crede che il proprio comportamento non
possa e non debba essere giudicato.
La sfera
privata non è negativa di per sé, tanto che viene regolamentata da un
apposito diritto. Mentre quello pubblico ha
per oggetto lo Stato e il suo funzionamento, il diritto privato si occupa dei rapporti tra singole
persone, e nasce come strumento di difesa e protezione della proprietà
individuale. La vita privata stessa viene infatti considerata un fatto
personale, di cui non si è tenuti/e a rendere conto se non per scelta (dalla
qual cosa il sacrosanto diritto alla privacy).
Peraltro la
società, fin dal suo sorgere più remoto, poggia sulla dimensione privata e di
essa si nutre: le donne stavano dentro la casa, con maggiore o minore autonomia
e riconoscimento di autorità, a seconda dei luoghi e dei tempi storici. A loro
erano infatti negati tutti quei diritti che gli uomini esercitavano nella sfera
pubblica della polis. Per questo motivo la politica non riguardava le donne, perché la sfera
a loro riservata era inaccessibile a qualunque sguardo estraneo, non aveva
visibilità ed era affidata al buon senso e/o alla moralità del “pater”,
proprietario della donna, dei figli, degli schiavi. Ciò accadeva nell’antica
Grecia, considerata ancora un modello di democrazia!
La conquista
dei diritti politici da parte delle donne (istruzione, lavoro, matrimonio,
divorzio, libera scelta della maternità) porterà la rivoluzione nella sfera
privata, perciò nella società intera, aprendo la “casa”, mostrandone i “panni
sporchi”, compromettendo un ordine sommamente ingiusto e dimostrandone
piuttosto la politicità, soprattutto quando, nel segreto delle pareti
domestiche, fosse (e ancora sia) compiuta la violazione dei fondamentali
diritti umani.
Ma nel linguaggio
corrente, e nella complessiva esistenza delle persone, la sfera privata
conserva la sua importanza e va salvaguardata, in quanto luogo protetto dal
giudizio e dalla indiscrezione altrui.
Al di là
delle contraddizioni e delle insidie che possono albergare in questa
dimensione, sembra ormai evidente che una classe di studenti non possa essere
considerata una proprietà, o uno spazio separato dal mondo!
Porre al
centro chi deve imparare è il principio di varie teorie pedagogiche: chi
insegna lo sostiene, certamente in buona fede.
Ma … non è
ancora politica, perché la politica si pratica e si esplica nella relazione, e
si fa politica sempre, essendo disposti/e a riconoscerlo oppure no.
Che tipo di
relazione si stabilisce tra chi insegna e chi deve imparare?
Che cosa
accade davvero dentro un’aula scolastica?
E’ fin
troppo ovvio che si debbano valutare i risultati del proprio lavoro, ponendoli
in rapporto con il programma iniziale e con le finalità perseguite. Ma … chi
valuta i risultati? Ed è lecito prescindere dalla valutazione del metodo che
sostiene e collega ogni azione, ogni parola, perfino ogni più piccolo gesto di
chi insegna?
Quel
che conta in una vita umana non sono gli eventi che dominano il corso degli
anni – o dei mesi – e nemmeno dei giorni. E’ il modo con il quale ogni minuto
si connette al minuto seguente, e quel che a ognuno costa, nel corpo, nel
cuore, nell’anima – e al di sopra di tutto nell’esercizio della facoltà
di attenzione – compiere minuto per minuto quella
connessione. (7)
Etimologicamente
il metodo è la strada che si percorre per
conseguire un determinato risultato. Percorrendo quella strada si commettono
errori e si può inciampare, può sopraggiungere la stanchezza e talvolta si
rischia una specie di smarrimento: la scuola è sempre più regolamentata, gli
obblighi sembrano indiscutibili, alla libertà dell’insegnamento si pensa come a
un mito di altri tempi.
Eppure il
nodo dell’esistenza, perciò anche del lavoro, è ancora l’uso che si fa del
tempo, del tempo proprio e di quello delle persone con le quali si è in
relazione. E’ necessario che ogni attimo sia sensato, e che la sensatezza non
sia un privilegio di chi insegna.
Stabilendo
un traguardo da raggiungere e informando la classe del proprio progetto, sembra
di compiere un gesto altamente democratico! La strada è tracciata, non vengono
ammesse titubanze e, soprattutto, viene escluso l’imprevisto. In gioco è sempre
la scelta tra la qualità del lavoro e la sua quantità: ascoltare la risposta
del proprio pubblico e tenerne conto
significa lasciarsi coinvolgere nella situazione presente, sospendere (almeno
provvisoriamente) gli obiettivi prestabiliti, le scadenze e perfino la propria
eventuale immagine professionale (come giustificarsi con il collega che è
andato ben oltre nel programma?).
Qualsiasi
lavoro tu faccia, se trasformi in arte ciò che stai facendo, con ogni
probabilità scoprirai di essere divenuto per gli altri una persona interessante
e non un oggetto. Questo perché le tue decisioni, fatte tenendo conto
della qualità, cambiano anche te. Meglio: non solo
cambiano te e il lavoro, ma cambiano anche gli altri, perché la qualità è
come un’onda. Quel lavoro di qualità che pensavi nessuno
avrebbe notato viene notato eccome, e chi lo vede si sente un pochino meglio:
probabilmente trasferirà negli altri questa sua sensazione e in questo modo
la qualità continuerà a diffondersi. (8)
Porre al
centro la relazione tra chi vuole insegnare e chi non vuole imparare significa tenere conto di
due punti di vista differenti, di due verità parziali entrambe, di due
linguaggi. Privilegiare la quantità può restituire la conferma di sé e delle
proprie certezze, ma non modifica il mondo e riduce il pubblico a un ripetitore, a uno specchio poco
affidabile della propria dignità professionale.
Il
personale
Come
distinguere il pubblico e il privato dentro la scuola?
La scuola è
un mondo abitato da un numero incalcolabile di differenze, che solo in
apparenza hanno scelto di convivere. Eppure, l’elemento cruciale che tiene
uniti tutti i suoi abitanti è la relazione, da quella più alta di chi dirige
con il collegio di chi insegna, procedendo fino a una coppia di studenti dietro
un banco. Ma chi dirige ha da rispondere a sua volta a chi rappresenta le varie
istituzioni scolastiche, e indirettamente a chi svolge il ruolo di ministro/a
che però è anch’esso espressione di una maggioranza, e così via…
In linea
teorica l’intera scuola è pubblica, gestita
con soldi pubblici, governata in ogni suo aspetto tenendo in considerazione le
varie generazioni di studenti, condizione senza la quale l’intero edificio
perderebbe la sua funzione! A loro si dovrebbe rendere conto, e ogni insegnante
politicamente consapevole lo dichiara senza alcun dubbio.
Eppure la
dimensione pubblica può scivolare anche inavvertitamente in quella privata a
seconda del proprio porsi in ogni relazione: poiché la scuola è fortemente
condizionata dagli avvenimenti del mondo esterno, poiché essa ospita al proprio
interno innumerevoli differenze ciascuna delle quali è l’espressione di un
singolare punto di vista, viene da sé che il tempo scolastico non è mai fermo,
e che neppure può essere costretto dentro i limiti di un programma e di
obiettivi inamovibili, per quanto pensati in buona fede.
Quasi
ogni giorno, quando i miei figli tornano da scuola, la prima conversazione che
si svolge tra me, o mia moglie, e ciascuno di loro, è più o meno questa:
“Come è andata?”
“Bene”
“Che cosa avete fatto?”
“Niente”
Per
quello che ho potuto appurare, questa conversazione si svolge, con
insignificanti variazioni, in molte famiglie dei più diversi ceti, in ogni
parte d’Italia, e forse del mondo.
Naturalmente,
dietro le laconiche risposte dei nostri figli e delle nostre figlie ci sono
tante motivazioni: per esempio una generica refrattarietà a raccontare le
proprie cose ai genitori. Ma c’è forse qualcosa di più allarmante, che riguarda
la vita scolastica: forse i ragazzi e le ragazze hanno davvero l’impressione
che a scuola non succeda niente, o almeno niente che conti, perché tutto si
ripete secondo un ritmo predefinito, che mette al bando ogni autentica novità. (9)
Sembra che
il nodo stia nella disponibilità a cogliere l’imprevisto, e a farsene carico.
Partire
da sé significa
prima di tutto fare leva sulla propria esperienza, rivisitarla di continuo per
individuare ciò che possa valere non solo per sé, disporsi a riconoscerne
l’inefficacia qualora il contesto nel quale si è non ne tragga beneficio.
Ma come si
valuta il “beneficio”? Quale atteggiamento è opportuno assumere perché la
valutazione del lavoro non nasconda soltanto il proprio bisogno di conferma?
Simone Weil
suggerisce l’azione non agente: l’io deve imparare a non essere
protagonista della sua stessa azione; deve amare la sua scelta, non se
stessa/o; deve dare spazio al mondo, facendosi da parte. L’azione è buona se riconosce
e accresce l’altrui realtà, non quando la nega.
Perché tutto
ciò accada, è necessario che vi sia la risposta al proprio agire, che il
pubblico al quale l’azione è indirizzata possa dire il proprio punto di vista,
e perciò agisca a sua volta.
Poiché
l’azione riguarda esseri capaci a loro volta di agire, la reazione, oltre che
una risposta, è sempre una nuova azione che inizia qualcosa di proprio, e
influisce autonomamente su altri. (…)
Anche
il più piccolo atto nelle circostanze più limitate ha in sé il germe della
stessa illimitatezza, perché un solo atto, e qualche volta una sola parola,
basta a mutare ogni costellazione di atti e parole. (10)
Restituire
alla politica la sua nobiltà è lavorare nelle relazioni, è dedicare alle
relazioni che possano dipendere da sé tutta l’attenzione che esse richiedono e
meritano. E se è vero che ogni atto e ogni parola hanno il potere di mutare ogni costellazione di atti e parole, se è dunque
vero che anche il più piccolo gesto può dare origine a processi irreversibili,
dei quali chi compie quel gesto è assolutamente responsabile, allora lo spazio
di un’aula scolastica rivela la sua natura di mondo, ricco di differenze e di
imprevisti.
Ma niente di
tutto ciò avverrebbe se, in quell’aula, non fosse prevista la libertà di
parola. Sapere aude! Il famoso motto kantiano invita a
pensare con la propria testa, esorta a trovare il coraggio di usare liberamente
la propria intelligenza senza guide e tutori. Quale insegnante sarebbe
disposta/o a negare che a questo mira il suo lavoro? E se anche il pensare da
sé fosse un principio indiscutibile, che cosa ne sarebbe del libero pensiero se
non venisse sostenuto dalla presa di parola?
Si
ripresenta il dilemma della scelta tra la qualità e la quantità del proprio
lavoro: prendere la parola è possibile se, e soltanto se, vengano garantiti lo
spazio e il tempo della risposta. Ma talvolta chi insegna ha davanti a sé
sguardi inquieti oppure distratti, corpi immobili oppure agitati; talvolta la
risposta attesa non arriva ed è tardi, i minuti scorrono e corrono verso la
fine dell’ora; lo schema della lezione, accuratamente preparata, non è ancora
esaurito. E la classe tace…
… c’è un silenzio che non appartiene a nessuno in particolare e si
crea quando si è in attesa di parole pensanti e non semplicemente pensate. E’
questo un silenzio difficile da accogliere, da sopportare. Appare come un buco
nero. (…) Eppure la pratica di pensiero in presenza ha un grande bisogno che si
sappia reggere tale silenzio. Accoglierlo significa essere sorretti dalla
fiducia che in questo modo si sta in un’altra forma di ascolto, che rinuncia
all’inessenziale. Che si pone in attesa di ciò che non è immediatamente a
disposizione. (…)
Il che
non significa dunque risolvere la questione, ma darle parola, aprirla alle sue
potenzialità. Gli esseri umani, in quanto mancanti, imperfetti, hanno bisogno
del discorso di altri esseri umani. Per questo è così vitale pensare assieme.
Ed è così che l’essenziale non è concludere, rispondere, risolvere, ma aprire
lo spazio del ragionare, all’interno del quale a volte qualche affermazione
vera viene guadagnata. (…)
Io
credo che la volontà di chiarezza e di definizioni conclusive ed esaurienti
abbia l’effetto di svuotare il desiderio stesso di pensare assieme ad altri,
che in realtà nasce dalla consapevolezza implicita della propria mancanza e non
da contenuti solidi e già acquisiti che le definizioni ripetono. (11)
La pratica
del pensare in presenza porta con sé la rinuncia alla
quantità delle informazioni: calarsi davvero nella situazione in cui si è
significa riconoscere la propria parzialità e disporsi ad aspettare, a
domandarsi e a domandare che cosa faccia da ostacolo alla risposta, a
interpretare il linguaggio di quei corpi e il silenzio delle parole, offrendosi
umilmente allo sguardo e al giudizio altrui.
Ma … quanto
di tutto questo appartiene alla coscienza e al cuore di chi insegna? Quanto si
è davvero interessati/e alla risposta di chi “deve” imparare? Eppure ogni
persona sa, per sé, che la sofferenza compare quando la disposizione del
proprio corpo è lontana dai desideri e dai sentimenti che lo attraversano,
quando la condizione nella quale si è non permette di dirsi. La libertà ha
origine nella ricerca delle parole per esprimersi, e nel coraggio di dirle.
Prendere pubblicamente la parola è lo scoglio da superare
per agire la propria libertà, oltre e prima di qualunque diritto ufficialmente
riconosciuto. E’ un lavoro su di sé che può cominciare a un certo punto della
vita: rappresentare, come insegnante, l’occasione perché quel lavoro abbia
inizio significa lasciare un segno indelebile nella vita di chi sta dietro un
banco, significa restituire alla scuola e alla propria professione la più alta
qualità.
E i
programmi? E i voti? E il tempo, che maliziosamente corre e insinua il dubbio?
E, soprattutto, a chi si deve rendere conto?
Muovendo dal
presupposto che le intenzioni siano buone, è opportuno domandarsi quale sia il
proprio rapporto con il “potere”, quanto-come-perché si debba obbedire a regole
esterne ed estranee a sé, quanto-come-perché si perda a volte il senso del
proprio lavoro per identificarsi con un ruolo che certamente è intermedio tra
chi sta più in alto e chi si colloca più in basso. Di conseguenza, a seconda
della propria risposta, va indagato il rischio che la competenza si trasformi
in una autorizzazione a esercitare arbitrariamente il potere di cui si dispone.
Il rischio
può essere controllato vigilando sulle proprie ambizioni, resistendo alla
tentazione del compromesso, salvaguardando la propria libertà di parola e di
azione.
Torno
così al tema del partire da sé come filosofia pratica. Il suo pregio
principale, o forse il primo che ho scoperto e che me l’ha resa cara, è che,
nel tuo ragionare, giudicare, decidere, “non ti fai trovare” dove gli altri ti
aspettano, senza che, per questo, tu debba isolarti in solitudine. (…) Quello
che devo saper fare, dunque, sono i conti con la realtà, me compresa, e farli
bene. (12)
L’essenziale
è la libertà e si gioca al presente, non è rimandabile a un futuro che non c’è
e si manifesta nel motivo che spinge a partire da sé, dal luogo nel quale il sé
è posto.
Che cosa
induce a obbedire e a farsi obbedire? Quali paure, quali problemi irrisolti,
quale immagine di sé lo richiede? Senza una risposta a queste domande non è
lecito pretendere che le ragazze e i ragazzi, dietro quei banchi, partecipino
con impegno al buon esito del lavoro in classe.
E questo
davvero accade perché non vogliono imparare?
La sfera
personale, luogo di dubbi e di certezze, di armonia e di risentimento, di
motivazioni profonde e di delusioni segrete, è ciò che muove, invadendo e
condizionando ogni dimensione della propria vita, pubblica e privata, non solo
scolastica.
Tutto
questo, e molto altro, è contenuto nella frase che rappresenta un principio
fondamentale del femminismo: il personale è politico.
Note
(1) Simone
Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Milano, Adelphi, 1997, p. 128
(2) H.
Arendt, Vita activa, Milano, Bompiani, 1997, p. 145
(3) C.
Zamboni, Ordine simbolico e ordine sociale, in: Diotima – Oltre l’uguaglianza,
Napoli, Liguori, 1995, p. 34
(4) F.
Kafka, Confessioni e Diari, Milano, Mondadori, 1976, p. 946
(5) F.
Kafka, ibidem, p. 795
(6) Filippo
M. De Sanctis, I ragazzi inventano il cinema,
Cagliari, edes, 1979, p. 28
(7) S.
Weil, Diario di fabbrica, Genova, Marietti, 2016, p. 135
(8) R. M.
Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta,
Milano, Adelphi, 1981, p. 341
(9) G.
Armellini, Buone notizie dalla scuola,
Pratiche Ed., 1998, p. 79
(10) H.
Arendt, op. cit., p. 139
(11) C.
Zamboni, Pensare in presenza, Liguori, 2009, pp. 11, 28, 46
(12) L.
Muraro, Partire da sé e non farsi trovare…, in: Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, 1996, pp. 8, 10
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