Willy, ucciso a 21 anni. Da solo, lui, nero, contro quattro bianchi. Ma non è razzismo. Per essere razzismo – lo dicono gli esperti – devono esserci motivazioni ideologiche, ossia è necessario che chi ha compiuto la violenza ne rivendichi la matrice. Può farlo con un gesto, il saluto romano, o gridando «Viva l’Italia» davanti al monumento dei Caduti, come Traini a Macerata. Questo sì che è razzismo, ma il resto, no, certo che no! Be’, ci sarebbe anche un’altra possibilità. Per essere razzismo – sempre con il manuale antirazzista alla mano – è necessario che chi colpisce appartenga a una formazione di destra, neofascista, oppure, ancora, che frequenti gli stadi o le palestre, che venga da una periferia o dalla provincia. In questi ultimi casi, non si è proprio razzisti «per convinzione», ma perché si sono frequentate compagnie sbagliate, perché è stato riprodotto un comportamento scorretto, appreso in contesti considerati malati, pericolosi e marginali. Dimenticavo. Sul medesimo testo, poi, c’è un «nota bene»: se la polizia e i carabinieri, se le istituzioni, la stampa e la politica, se i giudici e i tribunali dicono che non è razzismo, allora non lo è sicuramente.
Willy non è morto, è stato ammazzato. Ma
nessuno parla di razzismo, anche se sulle pagine social dei quattro indagati
compaiono commenti razzisti contro neri e immigrati. Anche se i comportamenti
violenti attribuiti ai quattro – pare reiterati nel tempo e precedenti
all’omicidio – sono il segno della prevaricazione con la forza. Ma, scusate,
avete mai visto personaggi simili non essere anche razzisti? Io no,
francamente. Agiscono violenza contro il più debole, contro l’ultimo, contro
chi è considerato – da loro – diverso. E i profili delle loro vittime variano:
vanno dalla donna che sposano – rigorosamente in Chiesa, perché si fa così – al
nero, dal ragazzo gracile e meno «pompato», fino alla persona omosessuale o
trans.
Willy non c’è più. Eppure non si può,
anzi, non si deve parlare di razzismo. Lo dice praticamente tutta la stampa
italiana, dalla destra alla sinistra. E giù articoli sulle periferie e sul
disagio giovanile. Che poi, quella che per la destra è una questione di morale
– violenze del genere vanno condannate formalmente, ma poi «che morissero tutti
‘sti immigrati sui barconi: padroni a casa nostra!» – per la sinistra è un vero
default ideologico. Che la periferia, la provincia o il quartiere popolare
siano i luoghi del disagio è implicito. Ma affermare che sono proprio questi
contesti le cause dell’omicidio è assurdo. Sono questi i luoghi su cui si
dovrebbe puntare con un’azione dal basso. E invece, in qualche maniera, se ne
chiede una depurazione, una sanificazione, l’allontanamento il più possibile
dal centro. Verrebbe da chiedere loro: tutto deve diventare centro? – non in
termini di spazi, ma di organizzazione della vita sociale. E questa logica in
che alternativa si ascrive rispetto al sistema economico presente? Anche perché
– lo dico a scanso di equivoci – la violenza è ovunque: in centro separa i
corpi, in altezza, definendo la piramide sociale; in periferia, nel quartiere
popolare o in provincia, agisce su un piano orizzontale, definendo conflitti,
ma anche, talvolta, producendo alleanze contro i vertici della società.
Ovviamente, centro e periferia sono canoni
analitici: nella quotidianità tutto è più complesso, ma il ragionamento
proposto serve per marcare due andamenti riscontrabili. Il punto, dunque, non è
il contesto da cui vengono i quattro, ma il linguaggio che, a partire dal
contesto, è parlato da queste persone e da altri loro simili. Un linguaggio
della discriminazione che è la forma mentale e lo strumento che arma la loro
violenza; una violenza agita nei confronti della e del più debole, dell’ultimo,
di chi è considerata diversa o diverso. Un linguaggio che è razzista, sessista,
omofobo. Un linguaggio che è anche pratica di discriminazione, che non può
essere riformato, che va estirpato. Qualche opinionista ha evocato il rapporto
genitori-figli, di come sia importante per evitare queste situazioni. Ma se i
genitori sono leghisti, se hanno introiettato il razzismo e i modelli di
discriminazione fino a non percepirli manco più, di cosa stiamo parlando
esattamente?
E Willy è morto per i pugni e per i calci.
Ma è morto anche perché non era bianco, anzi, perché era nero. E da nero – e
quindi secondo la vulgata razzista da «non italiano» – non doveva mettersi in
mezzo. Ora, provate a generare un negativo storico. Pensate alla stessa scena
in molteplici altre possibili declinazioni. Suggerirei in almeno due. La prima:
i quattro ragazzi sono neri e uccidono un bianco. Tutti sarebbero tornati a
parlare di immigrazione, di controllo dei flussi, di chiusura delle frontiere.
La seconda: i quattro bianchi attaccano e uccidono un altro bianco. La condanna
di quanto accaduto avrebbe cercato nell’ambito sociale e nel contesto d’origine
le ragioni e i prodromi della violenza. I temi? Sempre gli stessi: droga,
illegalità, arti marziali, palestre, discoteche, prevaricazioni continue verso
altre persone. Esattamente ciò che sta accadendo ora. Ma Willy era nero. Non
era bianco, e renderlo bianco è una forma di razzismo. Significa
invisibilizzare una struttura sociale che è esplicitamente responsabile del
razzismo, perché la razza – insieme ad altri elementi – ne determina
l’organizzazione e il funzionamento.
In altre parole, esiste una violenza
strutturale o sistemica secondo la quale certe persone, proprio perché
rappresentano i punti finali di certe genealogie, che sono al fondo della
piramide sociale, o semplicemente perché, in un certo momento, sono percepiti
come subalterni e inferiori per il loro colore della pelle – ma potremmo
parlare anche di genere, di identità sessuale, di provenienza, di lingua, di
abilismo, di fede religiosa – se si trovano in situazioni come quella di Willy,
possono essere uccise. È lo stesso discorso assurdo che vale per i femminicidi:
non è solamente l’azione dell’uomo che uccide una donna; è la donna che è
uccisa in quanto considerata, dall’uomo, soggetto inferiore e debole. E questo
ragionamento può essere declinato per molteplici altri casi: l’omosessuale, la
lesbica, la persona trans, la persona migrante, la persona sulla sedia a
rotelle, l’anziano. Ma vale anche per il sistema economico rispetto al
razzismo. È la linea del colore – ossia la costruzione dell’alterità sulla
pelle della persona non bianca a partire dallo sguardo bianco – che obbliga nei
campi e confina ai margini; non il caporale o lo scafista: figure rese talmente
mitologiche che paiono uscite dall’Inferno dantesco. Queste sono solo strumenti
di un potere che è sempre bianco, che si esprime attraverso la bianchezza.
Viene da chiedersi cosa sarebbe successo
negli Usa, ad esempio. Ci si è inginocchiati per ricordare George Floyd e per
denunciare la violenza della polizia a stelle e strisce. Il poliziotto che lo
ha ucciso, però, non ha mai proferito frasi razziste. Tanto meno era legato a
gruppi della destra estrema o xenofobi. Quindi, stando a quanto sostengono
alcune e alcuni antirazzisti, non si potrebbe parlare di razzismo nel caso
dell’omicidio di Floyd. Un assurdo, perché è evidente la matrice razziale, come
anche denunciato da Black Lives Matter e da altri gruppi e associazioni, ma
anche da istituzioni locali e nazionali statunitensi. Ora, proviamo a ribaltare
ancora una volta il piano. Ambientiamo quanto è accaduto a Colleferro a
Saint-Cloud, una cittadina delle stesse dimensioni poco lontana da Minneapolis.
Riavvolgiamo il nastro e mandiamolo, adesso, avanti nella nuova ambientazione.
Per definire i quattro non si userebbero le parole «ragazzi» o «sbandati»;
sarebbero chiamati «suprematisti bianchi», anche se non facenti parte di gruppi
politici.
In Italia, non si vuole chiamare il
razzismo con il suo nome. E allora, si cercano colpe altrove, direi ovunque.
Qualsiasi tema è buono: dalle arti marziali alla condizione sociale disagiata.
Sì, essere razzisti è considerato un insulto, ossia si riferisce alla condotta
negativa di una persona. Stando a un pensare diffuso, non è bene essere
razzisti, ma sarebbe giusto, invece, definire delle priorità: ad esempio il
«prima gli italiani». Che poi, tradotto, vuol dire prima i bianchi –
sempre al maschile. Il razzismo, cioè, è considerato tale solo se si appartiene
a un gruppo politico. E qui, il riferimento al Fascismo è impressionante:
l’eredità dell’onta di esserlo stati, fascisti e fasciste, si riproduce nel
presente. Fascisti e fasciste erano considerati, nel dopoguerra, solamente
coloro che avevano avuto un legame stretto col regime – soldati, politici,
persone coinvolte nelle associazioni, nei gruppi, nelle iniziative della
dittatura. Così, il razzismo, oggi, sarebbe solamente di chi è dichiaratamente
neofascista, di chi si definisce palesemente razzista. Così, ancora, come gli
italiani e le italiane affermarono che quasi tutti e tutte erano fascisti
durante il Ventennio, ma che i veri fascisti erano solamente quelli del regime,
allo stesso modo, gli italiani e le italiane sarebbero non razzisti, perché i
razzisti, quelli veri, sarebbero solo quelli «fissati» con Mussolini e la
razza, gli estremisti. Altra cosa sono le «brave persone» o – per usare
il linguaggio di
Salvini – «i buoni padri di famiglia» che si interrogano sul
futuro dei loro figli. Poco importa se, queste, sono accusate di sequestro per
chiudere i porti italiani, se il loro partito ha rubato ben più di quanto speso
per contenere l’immigrazione. Gli immigrati: ecco il problema che riguarda
tutte e tutti. Ma questo ragionamento, no, non è percepito come razzista. Ecco
cosa c’è dietro il «non sono razzista, ma».
Basta con le iperboli narrative senza sostanza. L’Italia è razzista. Esiste un
razzismo strutturale che è legato al sistema economico, sociale e politico.
Perché dovrebbe esistere negli Stati uniti, in Francia, in Uk, e non in Italia?
E il silenzio, in questo momento, è inaccettabile. Non c’è alcuna ragione per
rimanere muti, né questo atteggiamento può determinare un cambiamento sociale e
politico. A meno che tutto non sia riassorbito dall’egocentrismo di chi si
sente capace, da solo o sola, di influenzare l’opinione pubblica. Quale
attivismo o antirazzismo culturale c’è nel rivolgere lo sguardo altrove? Il
punto non è che poteva succedere a chiunque; è che è successo proprio a Willy.
Come, prima di lui, a Jerry Masslo e fino a Soumalia Sacko, Diop Mor, Samb
Moudou, Adnan Sidiqque. Cancellando la parola «razzismo» dai discorsi su Willy
e sull’Italia, lo si uccide un’altra volta e si derubrica tutto quanto accaduto
a semplice tragedia. Willy è stato ucciso perché ha deciso di intervenire,
perché ha voluto fermare la violenza di queste persone. L’eredità del suo gesto
va tradotta in azioni e parole che non possono attendere i tempi della Storia:
la nostra responsabilità ha l’urgenza del presente.
Gabriele Proglio è ricercatore di storia
contemporanea presso il Centre for Social Studies dell’Università di Coimbra.
Si occupa di memoria coloniale e di condizione postcoloniale in Europa, di
storia orale e soggettività, di migrazioni e mobilità nel Mediterraneo. Tra le
sue pubblicazioni: Mediterraneo nero. Archivio, memorie, corpi (Manifestolibri
2019); Border Lampedusa. Subjectivity, Visibility and Memory in Stories of Sea
and Land (Palgrave 2018); Decolonizing the Mediterranean. European Colonial
Heritages in North Africa and the Middle East (Cambridge 2017).
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