La morale di
Israele alla truppe che piazzano esplosivi nei villaggi palestinesi: non
preoccupatevi, rientra nelle regole d’ingaggio - Amira Hass
I soldati inviati a Kafr Qaddum per
sedare le dimostrazioni in corso sono in un’operazione di combattimento. Questa
è la posizione dello Stato, come espresso nelle dichiarazioni in sua difesa
negli ultimi anni dai pubblici ministeri di Tel Aviv, a quattro cause legali da
parte di palestinesi feriti dall’esercito israeliano e dal fuoco della polizia
di frontiera durante queste proteste.
I denuncianti: un ragazzo di 11
anni, una manifestante di 64 che porta una bandiera, entrambi residenti nel
villaggio della Cisgiordania, e due giornalisti che non vivono nel villaggio.
E poiché si tratta di un’operazione
di combattimento, lo stato è immune a queste cause. Le dichiarazioni giurate a
sua difesa sono state redatte dagli avvocati dell’ufficio del procuratore di
Tel Aviv, coordinati dall’avvocato Ariel Ararat. Abbas Assi e Mika Banki del
tribunale del magistrato di Gerusalemme sono i giudici che hanno assolto lo
Stato.
Questa è il contesto in cui
operavano i soldati che hanno piazzato esplosivi nel villaggio circa due
settimane fa, anche se non avevano ricevuto l’ordine dai loro superiori: Sono
in servizio di combattimento, e i confini di quello che i soldati possono fare
in combattimento sono vasti e flessibili.
Fino alla fine del 2014 le poche
richieste di risarcimento danni da parte di palestinesi colpiti o feriti
dall’esercito sono state gestite dai pubblici ministeri del distretto di
Gerusalemme. Le “operazioni di combattimento” non erano l’unica linea della
loro difesa. Il fotografo Jafar Shtayeh, ad esempio, il cui braccio è stato
rotto da soldati con l’uso di uno sfollagente nell’agosto 2012 (mentre
picchiavano anche altri fotografi come parte di una politica per ostacolare la
copertura delle manifestazioni a Kafr Qaddum), ha raggiunto un compromesso con
i pubblici ministeri senza che lo Stato reclamasse l’immunità.
Ma dal 2015 i casi sono stati
trasferiti alla procura del distretto di Tel Aviv dove le “operazioni di
combattimento” sono diventate una vera linea di difesa.
Nel 2004, l’esercito ha bloccato
l’uscita orientale di Kfar Qaddum che porta direttamente a una strada di
accesso a Nablus, sostenendo che la strada passa attraverso una nuova parte
dell’insediamento israeliano di Kedumim. Il tempo di viaggio verso Nablus è
aumentato da 15 a 40 minuti.
Sarebbe superfluo quantificare il costo della strada bloccata al villaggio: il carburante necessario, l’usura delle gomme, il tempo di percorrenza. Ma il sentimento di ingiustizia non può essere quantificato. Mentre le autorità fanno del loro meglio per ridurre il tempo necessario ai coloni per guidare verso Israele e tornare, rende i viaggi dei palestinesi più lunghi.
Questa è un’altra espressione di
come gli stratagemmi burocratici e di pianificazione classificano i palestinesi
come esseri umani inferiori. Nel 2011 i residenti hanno iniziato a manifestare
per rimuovere il blocco e le proteste sono proseguite quasi settimanalmente.
I residenti non stanno protestando
contro l’espropriazione di circa 2.500 dunam (2.500 Km) della loro terra a
beneficio degli insediamenti vicini. Non chiedono, in quelle proteste
settimanali, un ritorno al normale accesso alla loro terra tutti i giorni,
invece che, come ha deciso l’esercito, solo due volte l’anno (pochi giorni per
la raccolta delle olive e qualche giorno per l’aratura e il diserbo).
L’obiettivo delle dimostrazioni è
molto semplice e specifico, ma c’è un principio di fondo: smettetela di
trattarci come persone di quarta classe.
SEI BAMBINI COLPITI
Dall’inizio delle manifestazioni,
circa 100 residenti (compresi alcuni fotografi) sono stati colpiti e feriti dai
soldati israeliani. Sei di queste persone sono minorenni. Il 15 febbraio, i
soldati hanno sparato alla testa a Mohammed Shteiwi, 14 anni, con un proiettile
di gomma a distanza ravvicinata. Lui ei suoi amici erano stati in un boschetto
fuori dal centro abitato del villaggio. Hanno visto i soldati e si sono
nascosti.
Mohammed è stato colpito mentre si
sporgeva per vedere cosa stava succedendo. I portavoce dell’esercito hanno
detto che all’epoca dei fatti c’erano stati disordini nel villaggio, ma non
hanno provato che Mahammed avesse partecipato. Era un giovedì e non ci sono
state manifestazioni, hanno sottolineato gli abitanti del villaggio. Mohammed
ora si trova in uno stato vegetativo.
Nel luglio 2019, i soldati hanno
sparato alla testa a Abdel Rahman Shteiwi, 10 anni, mentre si trovava vicino
alla casa di un amico a circa 200 metri da dove si è svolta una manifestazione,
luogo anche di uno scontro con i soldati. Abdel Rahman ora si trova su una
sedia a rotelle, non cammina più.
In tempi di normali le tattiche
dissuasive e intimidatorie dei soldati sono più moderate. I soldati hanno
arrestato bambini di età compresa tra 4 e 9 anni, li hanno ammanettati, appeso
foto di minori nel villaggio e minacciato di arrestarli, hanno aizzato cani
contro i manifestanti, hanno lanciato grosse pietre contro i manifestanti,
hanno teso un’imboscata a un bambino di 7 anni, hanno sparato bucando i
serbatoi d’acqua sopra le case durante il lockdown del coronavirus, danneggiato
automobili e tagliato pneumatici, e hanno sparato in piena notte gas
lacrimogeni nella casa di Murad Shteiwi, uno degli organizzatori delle
manifestazioni. Già in aprile un piccolo esplosivo realizzato con una granata
stordente era nascosto tra alcune piccole pietre.
Dall’inizio delle manifestazioni, durante vari periodi, l’esercito ha arrestato
170 residenti del villaggio che sono stati costretti a pagare 250.000 shekel
(62.000 €) di sanzioni come parte del processo legale militare, dice Murad
Shteiwi.
“DISORDINE E TERRORISMO”
L’avvocato Ararat e i suoi
subordinati nel distretto di Tel Aviv agiscono proprio come qualsiasi avvocato
entusiasta di difendere un cliente. Pertanto, definiscono le manifestazioni
come “disordini, terrorismo e una prosecuzione del terrorismo di
accoltellamento” (anche se queste manifestazioni sono iniziate molto prima e
sono durate molto tempo dopo gli attacchi solitari del 2015 e 2016). Agli
avvocati non interessa che la soppressione di una manifestazione tramite gas
lacrimogeni e granate stordenti o proiettili letali inizi all’interno del
centro abitato di un villaggio, tra le case. Descrivono i manifestanti come
criminali che cercano di attaccare i coloni di Kedumim, e in questo modo
ignorano che i residenti di Kafr Qaddum hanno scelto la protesta popolare come
mezzo per sfidare e manifestare contro la politica israeliana mirata a
danneggiarli, e consapevolmente non hanno scelto altri mezzi.
Gli avvocati, nel loro ruolo di
difensori dello stato, attribuiscono ai manifestanti intenti che non hanno
(“irrompere nell’insediamento di Kedumim e devastarlo”), e diffamano le persone
che presentano denunce. Dicono che Khaled Shteiwi, 11 anni (ferito a una gamba
da un agente della polizia di frontiera nel marzo 2016, mentre un adulto
intervenuto per aiutarlo è stato colpito e ferito da un altro poliziotto) “ha
dei considerevoli trascorsi di coinvolgimento nei disordini contro le forze
israeliane.” Lo dicono anche se, quando i manifestanti sono stati uccisi, non
sapevano che la polizia era presente perché si nascondevano dietro un cumulo di
sabbia.
Il fotografo Ahmed Tala’at è stato
colpito alle natiche da soldati nell’ottobre 2015 mentre trasportava tre
telecamere e una maschera antigas, e mentre era in piedi sul ciglio della
strada con un gruppo di giornalisti. Nelle parole di Ararat, Tala’at era un
“animale inferocito” e non un “tranquillo giornalista come sembra”, anche se lo
stato non ha presentato alcuna prova e nessun soldato ha mai fatto rapporto nei
suoi confronti.
Muayyed Shteiwi, un’infermiere,
portava una grande bandiera palestinese alla testa della marcia. Quando
iniziarono gli scontri, si assicurò di mantenersi a distanza.
Il giorno in cui è stato ferito
nell’ottobre 2015, le preghiere prima della manifestazione non si erano ancora
svolte. Era nel cortile della moschea, ha sentito i rumori di uno scontro ed è
andato con la sua bandiera per vedere cosa stava succedendo. I soldati gli
spararono due volte da lontano. Fu ferito all’inguine e alla schiena. I medici
non sono stati in grado di estrarre tutti i frammenti dal suo corpo. I pubblici
ministeri di Tel Aviv hanno scritto che era coinvolto nell’organizzazione e
nell’incitamento delle proteste violente.
Un venerdì di dicembre 2014, Bashar
Saleh era in piedi con una grande telecamera su un treppiede, con tutti gli
altri giornalisti e fotografi. Quel giorno, alcuni testimoni dissero che dei
bambini, alcuni di loro molto piccoli, occasionalmente lanciavano pietre che
non colpivano nessuno dei soldati.
I soldati sembravano molto calmi.
Uno di loro ha sparato un singolo proiettile alla gamba sinistra di Saleh.
Saleh sentì una forte lacerazione nella parte inferiore del polpaccio sinistro.
L’avvocato dello stato scrisse: “In conformità con le regole d’ingaggio, è
stato sparato un colpo al principale sobillatore con il volto coperto, che
munito di una fionda ha messo in pericolo i soldati. Non è stato dimostrato se
il denunciante sia stato ferito dai colpi sparati dalle forze di sicurezza”.
Le cause e i verbali delle sessioni mostrano
uno schema simile: contraddizioni tra le dichiarazioni iniziali dei soldati e
le loro testimonianze successive, documentazione militare in tempo reale e
fotografie che sono miracolosamente sparite o accidentalmente sono state
cancellate, un computer bruciato, l’esercito che indugia nell’indagare sugli
incidenti, soldati che in tribunale dicono di non ricordare l’incidente di cui
avrebbero dovuto testimoniare e per il quale hanno presentato una deposizione
giurata dettagliata.
Ma quando la linea è che sopprimere
la manifestazione è un atto di combattimento, queste lacune non sembrano
preoccupare i giudici.
Per quanto poche siano, le richieste
di risarcimento contro lo stato per danni a civili disarmati da parte dei
soldati sono anch’esse una sorta di manifestazione: una manifestazione di
speranza che qualcuno al di fuori dell’esercito si muova fuori dagli schemi e
ascolti, ascolti la legittimità e l’equità delle richieste di aprire quella
strada e veda che i palestinesi sono esseri umani. Ma la speranza finisce nella
delusione.
Amira Hass è corrispondente di
Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è
entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal
1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza,
esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal
1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania.
Trad: Beniamino Rocchetto –
Invictapalestina.org
Sempre al limite - Amjad Ayman Yaghi*
Iyad Ghanem ha sentito i droni
israeliani volare sopra di se per la maggior parte della sua vita. Come molti
altri abitanti di Gaza, si riferisce a questi aerei da guerra senza pilota come
corvi. Il rumore che fanno è spesso chiamato zanana, la parola araba
per ronzio.
Ogni volta che sente un drone,
Ghanem dice “il corvo è arrivato e stanotte non si dormirà”. “Sento che
qualcuno mi sta osservando”, ha detto il diciottenne. “Mi assale l’ansia quando
il suono diventa più forte, come se stesse per accadere qualcosa di terribile.”
Ghanem può ricordare l’attacco di
Israele a Gaza del novembre 2012 “in tutti i suoi dettagli”, ha detto. I droni
furono ampiamente usati durante quell’offensiva di una settimana, quando furono
uccisi circa 160 palestinesi.
Sentire i droni volare sopra di noi
riaccende i ricordi dolorosi di quell’attacco.
“I droni incutono terrore ancora
oggi”, ha aggiunto Ghanem.
I droni sono stati un’arma
importante per Israele almeno dal 2006, quando ha attaccato il Libano. Sono
usati per la ricognizione e, a volte, come macchine per uccidere.
Ignobile
Israele ha sganciato bombe dai droni
durante le tre principali offensive intraprese su Gaza dal dicembre 2008.
L’industria delle armi israeliana ha
cercato di trarre vantaggio da queste operazioni promuovendo la vendita di
droni e altre armi come “testate in battaglia”.
Testare le armi sulla popolazione
palestinese si è dimostrato redditizio. Secondo i dati pubblicati nel 2019,
Israele è diventato il più grande esportatore mondiale di droni.
Secondo i dati raccolti dalla
società di consulenza Frost & Sullivan, Israele ha esportato armi per un
valore di 4,6 miliardi di dollari in un periodo di otto anni.
I droni sono diventati tristemente
noti per “bussare sul tetto” (avvisare) durante un grande attacco israeliano a
Gaza nel 2014. Questo era un eufemismo per come le bombe sono state sganciate
dai droni su edifici civili come un “avvertimento” di un’esplosione più potente.
Israele ha cercato di insinuare che
“bussare sul tetto” fosse un gesto di umanità per proteggere i civili
avvertendoli in anticipo che le loro case sarebbero state distrutte. In
pratica, ai civili spesso non veniva dato abbastanza tempo per evacuare prima
che avvenisse l’esplosione più letale, come confermato da una missione
conoscitiva delle Nazioni Unite.
I droni sono stati utilizzati
durante alcuni episodi particolarmente cruenti dell’attacco di sei anni fa.
Adham Shakhsa è un 40enne che vive
ad al-Shujaiyeh, un quartiere di Gaza City dove Israele ha compiuto un massacro
durante l’offensiva del 2014.
“Tre giorni prima del massacro,
c’erano dei droni che volavano nel cielo sopra al-Shujaiyeh”, ha detto.
“Potevamo vederli ad occhio nudo ed erano molto rumorosi. Ci siamo abituati a
questa situazione durante le guerre di Israele. Mi resi conto che Israele
utilizzava la tecnologia dei droni per osservare le persone nel quartiere prima
del massacro”.
Un altro residente di al-Shujaiyeh,
Anas al-Madhoun, sottolinea che i bambini di Gaza sanno di più sulla
belligeranza militare rispetto ai loro coetanei nella maggior parte degli altri
paesi. Fin da piccoli, imparano a distinguere tra i suoni dei droni e quelli
prodotti da altre armi nell’arsenale israeliano, in particolare elicotteri
Apache di fabbricazione statunitense e caccia F-16.
“È incredibile sentire Israele che
si giustifica davanti ai media internazionali”, ha detto al-Madhoun. “È
incredibile sentire Israele affermare che non assedia Gaza, che si sta solo
proteggendo”.
Sorveglianza costante
I droni possono essere uditi
frequentemente sui cieli di Gaza in tempi presumibilmente più pacifici, quando
Gaza è soggetta a un blocco piuttosto che a un attacco. I droni servono a
ricordare ai palestinesi che sono sotto costante sorveglianza.
Mahmoud Siyam, uno psichiatra,
sostiene che Israele, di fatto, tormenta la popolazione di Gaza monitorandola
con i droni.
Gli esseri umani necessitano di
calma e tranquillità. Privati di questi bisogni essenziali, la loro salute
mentale può deteriorarsi.
L’udire i droni “mette sotto
pressione psicologica tutti”, ha detto Siyam. “Il rumore dei droni rende le
persone irritabili. Le persone possono provare ansia estrema e perdere la loro
capacità di concentrazione.”
Israele ha iniziato a monitorare i
palestinesi con i droni dopo il ritiro dei coloni da Gaza nel 2005. Il ritiro
ha significato che l’occupazione israeliana è stata spostata alla periferia e
che la brutalità di Israele contro il popolo di Gaza è continuata e, in molti modi,
intensificata.
Iman al-Mansi vive al nono piano di
un palazzo nella zona di Tel al-Hawa di Gaza City. I droni impediscono a lei e
alla sua famiglia di condurre una vita normale.
“Il suono dei droni è molto forte”,
ha detto. “Non riusciamo a dormire quando li sentiamo. Non possiamo guardare la
televisione. Quando c’è un drone nelle vicinanze, interferisce sempre con la
ricezione satellitare. Viviamo così dal 2006″.
Ahmad al-Husari, che vive ad
al-Zaytoun, anche lui un quartiere di Gaza City, ha spesso mal di testa a causa
del rumore dei droni.
“A volte i droni sono così rumorosi
che sono come il motore di un’auto che diventa più rumoroso man mano che si
aumenta la velocità”, ha detto. “I droni fanno svegliare i miei figli che poi
non riescono più a dormire. Ho l’ansia che venga sera a causa di tutto questo
rumore.”
*Amjad Ayman Yaghi è un giornalista
con sede a Gaza
Trad: Beniamino Rocchetto –
Invictapalestina.org
Iman e Safaa, le stelle di Gaza sognano un futuro che non c’è - Michele
Giorgio
Fuochi d’artificio, canti, danze tradizionali e, quando c’è la corrente
elettrica, anche luci colorate. Il Tawjihi, l’esame di maturità, è un’occasione
che i palestinesi celebrano sempre, in tutte le circostanze, anche quelle più
tragiche. Il completamento del percorso scolastico ha ancora valore nella
società palestinese.
In particolare a Gaza dove gli studenti e le loro famiglie devono
affrontare difficoltà ed ostacoli che si riscontrano in pochi altri posti del
mondo. Per Iman Abu Shammala e la sua famiglia la felicità è stata doppia. La
ragazza ha ottenuto il 99,7% su 100, risultando la prima degli studenti
palestinesi nei Territori occupati.
«Non riuscivo a crederci – racconta – ho abbracciato forte mia mamma e mio
padre che mi hanno sostenuta in ogni modo. Per giorni ho ricevuto gli auguri di
amici e conoscenti. Dal ministero dell’istruzione mi hanno inviato un messaggio
di congratulazioni e un certificato speciale per il mio risultato».
Brava e un po’ secchiona Iman lo è stata sempre, confessa. «Studiare è la
mia passione sin da bambina» ammette «mi aiuta a superare le difficoltà, a
vincere la depressione per la condizione che viviamo qui a Gaza. Adoro le
scienze». Quest’anno il coronavirus ha complicato la vita di studenti ed
insegnanti in tutto il mondo. «A Gaza di più», prosegue la ragazza «di solito,
specie d’inverno, studiamo accendendo le candele perché non abbiamo quasi mai
l’elettricità. E se non hai l’elettricità non puoi usare i computer. Poi è
arrivata la pandemia, le scuole sono state chiuse e alcuni insegnanti hanno
provato a tenere le lezioni online ma qui a Gaza mica tutti hanno il tablet».
Iman tra qualche settimana comincerà a studiare medicina all’Università
islamica. Safaa Sheikh Eleid, sempre di Gaza, che si è classifica seconda, con
il 99,4%, nella classifica nazionale del Tawjihi, invece frequenterà la facoltà
di letteratura inglese all’università Al-Azhar. Spera di ottenere una borsa di
studio per master e dottorato all’estero. «Sono stata più fortunata di tante
mie compagne» dice «la mia famiglia può permettersi un generatore autonomo di
energia e non ho dovuto studiare con le candele. Un giorno vorrei viaggiare,
conoscere il mondo».
I sogni di Iman e Safaa sono quelli di un po’ tutti i ragazzi di Gaza, di
qualsiasi condizione: partire, conoscere altri giovani, visitare luoghi
lontani, località esotiche. Tuttavia si scontrano con dati economici e
statistici sconfortanti. Gran parte della popolazione vive sotto o a cavallo
della soglia della povertà.
«Temo che molti ragazzi, e anche Iman e Safaa, siano già consapevoli che
solo pochi fra di essi riusciranno a realizzare quei sogni. Gaza è una
prigione, sorvegliata da Israele, e le cose non cambieranno presto», commenta
Yusef H., reporter 30enne di Gaza. «Non è solo una questione di povertà ed
opportunità che mancano» precisa «ottenere un visto per andare negli Usa, in
Italia e nel resto dell’Europa è una impresa. Le condizioni che dobbiamo
rispettare sono molto rigide. Non è così per un israeliano».
Il destino delle migliaia di ragazzi e ragazze che quest’anno hanno
conseguito il Tawjihi è quello di ingrossare i ranghi dei disoccupati di Gaza,
ai vertici mondiali di questa triste classifica. La disoccupazione tra i
giovani 15-29 anni a Gaza era al 65,2% lo scorso anno. E il coronavirus ha
aggravato il quadro. Circa 4mila operai hanno perso il lavoro negli ultimi mesi
in cui 50 fabbriche hanno chiuso i battenti.
Saracinesche abbassate anche per tanti ristoranti e hotel – frequentati
dall’esigua minoranza che può permetterseli – che impiegano oltre 5mila
persone. «Il blocco israeliano di Gaza, che dura 14 anni, è la causa della
mancanza di lavoro per 250mila persone, in maggioranza giovani. E la pandemia sta
aggiungendo a quel numero migliaia di lavoratori ogni mese», avverte Sami al
Hamassi, capo della federazione sindacale di Gaza.
La resistenza palestinese è resistenza,
non “terrore” - Rima Najjar
Vorrei
invitarvi a guardare un breve video clip (https://vk.com/video464838380_456239191) rilasciato dalle autorità israeliane su un recente
tentativo di accoltellamento da parte di un giovane palestinese verso un
soldato israeliano pesantemente armato.
Ma prima
lasciate che vi descriva quello che io vedo come palestinese.
La
telecamera di sorveglianza mostra un palestinese magro dall’aspetto giovanile
in camicia rossa e con la mascherina che cammina lentamente verso una
barricata vicino a Bab Hotta, una delle porte della moschea di al-Aqsa. La
barricata taglia la stradina della Città Vecchia. L’uomo viene successivamente
identificato come Ashraf Hasan Atallah Halasa, un 30enne del campo profughi di
Shuafat, a Gerusalemme.
Dietro la
barricata ci sono tre membri della Polizia di Frontiera israeliana, mentre di
fronte a loro un quarto si appoggia con nonchalance con la schiena e con un
piede al muro di un edificio di fronte alla barricata. Tutti sono armati
di mitragliatrici armate.
Alcuni
palestinesi passano impassibili davanti a questo spettacolo di “sicurezza”,
anche se potrebbero aver sentito che la notte precedente, vicino alla moschea
al-Aqsa, i soldati israeliani hanno rapito Tareq e suo fratello, Atef
Sbeitan.
Quando il
giovane palestinese raggiunge la barricata, si sporge in avanti con un
movimento rapido e cerca di pugnalare il soldato più vicino a lui. Subito viene
ucciso.
Un sito del
governo israeliano definisce la Polizia di Frontiera come un braccio
delle Forze israeliane, che nel 1967 entra “in Cisgiordania e Gerusalemme
est per imporre l’ordine in queste regioni appena conquistate”. Stanno ancora
“imponendo l’ordine” come conquistatori e oppressori.
Cosa vedo
nel video clip? Vedo terrorismo, sì, una minaccia alla sicurezza, sì,
aggressione, sì, violenza, sì: contro i palestinesi.
Lo
spettacolo scadente montato nel video clip per presentare la scena come
un atto di “legge e ordine” è per me disgustoso. Ecco in mostra
l’efficace e autocelebrativo apparato forense dello Stato, la raccolta di
prove per presentare il palestinese armato con un coltello da
cucina come l’aggressore terrorista contro le forze del bene.
Secondo un
twitter del portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld, dovremmo tirare
tutti un sospiro di sollievo; la minaccia rappresentata dal giovane palestinese
è stata “neutralizzata”.
E dei
rappresentanti pesantemente armati di uno stato brutale che operano per
mantenere l’annessione illegale di Gerusalemme e presiedono alla sua incredibilmente
crudele giudaizzazione e alla cancellazione dei suoi abitanti arabi palestinesi
e della loro cultura? Che ne è stato?
I
Palestinesi e i gruppi per i diritti umani hanno a lungo accusato le “forze di
sicurezza” israeliane di usare la forza in maniera eccessiva. Io sono qui per
accusare le forze israeliane di terrorismo e tutti coloro che hanno giurato di
difendere la sicurezza di Israele come loro collaboratori.
Come
palestinese, quando vedo un videoclip come questo, non vedo ciò che le
immagini accuratamente montate dal governo israeliano hanno lo
scopo di “dimostrare” al mondo.
Vedo il
risultato dell’esistenza di Israele sul suolo palestinese, una presenza
che ferisce profondamente i sentimenti di Ashraf Halasa, un giovane
del campo profughi di Shuafat a Gerusalemme. Perché, in nome di Dio, questo
gerosolimitano si trova in un campo profughi invece del luogo in cui lui
o la sua famiglia si rifugiarono nel 1967?
Vedo un
uomo che è arrivato a un punto in cui si è chiesto, come Don Chisciotte,
se la sua vita avesse più un significato. Per lui è diventato
essenziale compiere con successo qualcosa di importante, quindi ha
realizzato una sua fantasia. È una fantasia che i palestinesi, me
compresa, vi diranno che in molte notti li ha aiutati ad addormentarsi.
Sento
Ashraf dire, come io ho scritto in un post del 2017: “Guardami. Guardami per
come sono: un essere umano tuo simile . Guardami indipendentemente dalla tua
identità ebraica e dalla tua sofferenza ebraica “.
E dalle tue
mitragliatrici.
Perché è di
vitale importanza per il mondo capire che la resistenza palestinese, sia armata
come quella di Hamas contro l’esercito israeliano, sia disarmata come
quella del BDS, è resistenza, non terrorismo o attività criminale?
Si
consideri il rapporto pubblicato di recente su “The Electronic Intifada”
intitolato “I lobbisti israeliani costringono il governo olandese a sospendere
il finanziamento ad organizzazioni di agricoltori palestinesi”. Adri Nieuwhof
spiega la situazione come segue:
“Gruppi
filo-israeliani hanno condotto una campagna per minare una grande
organizzazione palestinese per lo sviluppo agricolo accusandola di “finanziare
il terrorismo”.
Gli ”
Avvocati del Regno Unito per Israele”, UKLFI, e il gruppo di pressione olandese
pro-Israele “Center for Information and Documentation Israel”, CIDI, hanno
entrambi chiesto al governo olandese di sospendere i finanziamenti all’Unione
dei Comitati di Lavoro Agricolo, UAWC.
Il 9
luglio, Sigrid Kaag, Ministro olandese del Commercio internazionale e dello
sviluppo, ha ceduto alle pressioni e ha sospeso i finanziamenti all’UAWC in
attesa dell’esito di una revisione esterna”.
La
resistenza all’oppressione, all’occupazione militare, all’annessione e
all’apartheid non è “terrorismo”. Che gli olandesi e gli altri governi
continuino ad accettare questa inversione della verità e ogni parvenza di
moralità è un’ingiustizia che deve finire.
Rima Najjar
è una palestinese la cui parte paterna della famiglia proviene dal villaggio di
Lifta, alla periferia occidentale di Gerusalemme, spopolato con la forza, e la
cui parte materna della famiglia proviene da Ijzim, a sud di Haifa. È
attivista, ricercatrice e professoressa in pensione di letteratura inglese,
Università Al-Quds, Cisgiordania occupata.
Trad:
Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù”
–Invictapalestina-org
COSA INTENDE IL MINISTRO DEGLI
ESTERI ISRAELIANO QUANDO DICE “NORMALIZZAZIONE” - Gideon Levy
Il ministro degli
Esteri Gabi Ashkenazi è un emerito statista, un veterano di alto livello e una
grande speranza per il paese. Il campo centrista, che ha un disperato bisogno
di un leader, potrebbe riportarlo al ruolo di grande speranza. Le sue
dichiarazioni sono rare, non interviene su nulla, o perché non ha niente da
dire o perché teme di dire quello che ha da dire, la prima ipotesi è la più
probabile, e quindi ogni sua piccola espressione merita attenzione.
La scorsa settimana Ashkenazi ha detto al ministro degli esteri tedesco
che Israele ha cambiato il suo progetto “dall’annessione alla normalizzazione.”
In risposta, l’Europa ha esultato, annunciando che sperava di rinnovare il
Consiglio di Associazione [1], un dialogo ad alto livello in corso tra l’Unione
Europea e Israele. L’Europa è impaziente di tornare ad avere rapporti
amichevoli con Israele, basta solo liberarlo dalla presa del primo ministro
Benjamin Netanyahu. Per buona misura, Ashkenazi ha aggiunto altri stereotipi
infondati che pronuncia con disinvoltura ormai da anni: “Abbiamo lasciato la
porta aperta ai nostri vicini e ora sta a loro decidere cosa scegliere.”
Quando uno statista israeliano usa il termine normalizzazione, intende
mantenere lo status quo, che è la situazione normale per la maggior parte degli
israeliani. Qualsiasi trasgressione richiede una normalizzazione immediata, un
ripristino dello status quo precedente. Un esempio? I bambini palestinesi sono
condannati a vivere a poca distanza dal mare e trascorrere la loro infanzia, e
talvolta tutta la loro vita, senza mai vedere la spiaggia. Questa è una
situazione normale. Se vengono scoperte delle aperture nella recinzione di
confine e i palestinesi riescono ad arrivare alla spiaggia nel caldo di agosto,
la normalità è stata interrotta e deve essere ripristinata con la forza.
Un altro esempio: le proteste sono consentite vicino alla residenza del
primo ministro in Balfour Street, ma vietate nel villaggio palestinese di
Bil’in. È normale in una democrazia. È del tutto normale imprigionare due
milioni di persone per molti anni: cosa potrebbe esserci di più normale?, e
pretendere che restino in silenzio. Se prendono provvedimenti contro questa
situazione folle, la normalità deve essere immediatamente ripristinata; cioè,
il remissivo ritorno nella loro prigione. Lasciate che restino a Gaza, a
marcire per sempre e creino la normalizzazione con Israele.
È normale che un paese sia chiamato democratico quando circa la metà
delle persone sotto la sua sovranità diretta e indiretta vive sottomesso a una
dittatura totalitaria. È normale che due popoli possano vivere in un paese, i
nativi privi di diritti mentre gli immigrati e i loro discendenti con tutti i
diritti. È normale che Israele possa violare lo spazio aereo sovrano di
qualsiasi paese della regione, per spiarlo e bombardarlo, ma a nessuno di loro
è permesso di far volare nemmeno un palloncino in territorio israeliano. È
normale che i palestinesi siano le uniche persone al mondo che non appartengono
a nessun paese. È normale per un paese governare territori che nessun altro
paese riconosce, e tuttavia essere il paese più privilegiato al mondo, ad
eccezione degli Stati Uniti, quando si tratta di far rispettare il diritto
internazionale. È normale che uno dei paesi più armati e ricchi del mondo
riceva alcuni dei più generosi aiuti economici della storia. È normale che una
delle speranze del campo non di destra annunci di sostenere la normalizzazione.
Quando Ashkenazi ha parlato di normalizzazione, non intendeva la
normalità. Normalità significa uguaglianza tra due popoli. Questo non è il
desiderio di Ashkenazi. La normalità prevede che un’occupazione militare duri
per un periodo di tempo molto breve. La normalità è che un paese rispetti il
diritto internazionale, quel genere di cosa sensazionalista. Normale è che un
paese venga punito per i suoi crimini di guerra.
Ashkenazi non vuole tutto questo. Il centro politico che Ashkenazi
rappresenta vuole solo tranquillità. Questa è normalizzazione. Non vuole
contrastare l’occupazione. Lascia che i lavoratori palestinesi costruiscano le
case, asfaltino le strade e poi tornino come nulla fosse nella loro prigione.
Lascia che l’esercito israeliano irrompa di notte nelle loro case e li arresti
a suo piacimento, e di giorno li tirannizzi, li umili e li fucili liberamente.
È normale. Tutti gli altri comportamenti sconvolgono la normalità. Ashkenazi
vuole la normalità, e così Ashkenazi porta speranza. Ora tutto dipende dai
palestinesi, decidere se arrendersi a questa realtà. Allora avremo la
normalizzazione con loro.
Note:
[1] Consiglio di Associazione: La proposta di rinnovare riunioni di alto
profilo, interrotta a causa delle tensioni politiche sulla politica dell’UE in
materia di insediamenti, è stata discussa durante la visita del ministro degli
Esteri israeliano in Germania, poiché gli europei sperano di cogliere
l’opportunità offerta dall’accordo con gli Emirati Arabi Uniti
Gideon
Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale.
Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come
vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il
2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei
giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti
Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, “La punizione di Gaza”, è
stato appena pubblicato da Verso.
Trad: Beniamino Rocchetto
A GAZA IN SCENA L’EMBARGO CRIMINALE DI
ISRAELE: 50 BAMBINI LASCIATI MORIRE DI CANCRO - Umberto
De Giovannangeli
Un crimine tra i più atroci si sta consumando
nel disinteresse dei media e nel silenzio complice della comunità
internazionale. I bambini a Gaza stanno morendo perché viene negata loro la
possibilità di accedere all’assistenza sanitaria necessaria fuori dalla
Striscia e altri moriranno se non verranno curati presto. Sono già morti due
bambini da quando il coordinamento tra le autorità palestinesi e israeliane si
è interrotto. Entrambi piccolissimi, uno di otto mesi e l’altro di soli nove
giorni, avevano patologie cardiache e avevano bisogno di un intervento
chirurgico non disponibile a Gaza, ma non hanno ricevuto in tempo il permesso
per le cure.
Attualmente ci sono più di cinquanta bambini malati di cancro in
tutta Gaza, quindici dei quali sono in gravi condizioni e potrebbero non
sopravvivere senza ricevere delle cure immediatamente. Né la chemioterapia né i
trattamenti di radiologia sono disponibili a causa delle restrizioni israeliane
ai farmaci che entrano a Gaza.
Strage
di innocenti
Questo l’allarme di Save the Children,
l’Organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini e garantire
loro un futuro, in seguito all’annuncio dei piani di Israele di annettere parti
della Cisgiordania che ha ridotto le possibilità, già estremamente limitate, di
ottenere l’autorizzazione per lasciare Gaza per chi ha bisogno di cure
salvavita, a causa della fine del coordinamento tra funzionari israeliani e
palestinesi. Il sistema sanitario di Gaza sull’orlo del collasso dopo tredici
anni di blocco e l’ulteriore tensione causata dalla pandemia di Covid-19 stanno
mettendo in pericolo la vita dei minori.
Prima della pandemia di Covid-19 e del
crollo del coordinamento, una media di duemila persone al mese richiedevano
assistenza sanitaria al di fuori di Gaza, un terzo delle quali richiedeva un
trattamento per il cancro. Ad aprile il dato è precipitato a sole 159
richieste, il numero più basso registrato in oltre un decennio. Anche prima
della fine del coordinamento, ai bambini o ai loro accompagnatori veniva
abitualmente negato il permesso di lasciare Gaza per ricevere cure mediche per
motivi di sicurezza. Nonostante l’attuale calo delle domande, un terzo è stato
ancora respinto dalle autorità israeliane. A maggio tra le domande senza
successo c’era quella di un bambino di 7 anni con immunodeficienza, ad alto
rischio di complicanze da Covid-19. Altri ventotto bambini non hanno ricevuto
il permesso di partire per le cure a maggio. Per gli ultimi tre mesi, dicono
a Globalist fonti di Save the Children, i dati sono in via
di elaborazione, ma comunque in crescita.
La
storia di Dina *
La dodicenne Dina* ha la leucemia e
non è stata in grado di ricevere cure al di fuori di Gaza da quando il
coordinamento si è interrotto. “La mia malattia ha avuto gravi conseguenze
sulla mia vita e non riesco a camminare sulle mie gambe. Ho pregato che mi
amputassero gli arti. Israele dovrebbe revocare il blocco così da avere buone
scuole e buoni ospedali e poter avere cure e posti carini dove giocare. E
poter, quindi, vivere come gli altri bambini nel mondo” ha detto.
Ahmed*, 13 anni, è stato colpito alla
gamba dalle schegge di un proiettile che è esploso e la sua richiesta di
lasciare Gaza per un intervento ai nervi è stata respinta. “Uno dei giorni più
difficili della mia vita è stato quando sono uscito dall’operazione e mi
avevano preparato una sedia a rotelle. Mi chiedevo a cosa servisse la sedia. Mi
hanno detto: “Ci siederai sopra e ci vivrai tutta la tua vita”. Ho pianto, dal
profondo del mio cuore … Non posso lasciare Gaza perché hanno chiuso i posti di
blocco. La mia gamba sta peggiorando e io sono preoccupato per questo” spiega
Ahmed.
Save the Children sostiene trenta
bambini che necessitano di cure mediche urgenti al di fuori di Gaza. Alcuni di
questi sono stati feriti durante il conflitto o nelle proteste e hanno arti
amputati, ferite da arma da fuoco o da schegge, gravi danni agli occhi e al
sistema neurologico. Altri vivono con malattie debilitanti come cancro e
patologie cardiache.
“Come può esserci una giustificazione
in qualsiasi posto e momento per impedire ai bambini di ottenere cure
salvavita? Questi minori gravemente malati devono lasciare Gaza per
sopravvivere, semplicemente non c’è altra opzione. È crudele che i bambini
muoiano o soffrano di un dolore estremo quando possono ricevere un trattamento
appena oltre i posti di controllo. Ogni giorno che passa, la finestra per
aiutare questi bambini si chiude ulteriormente”, afferma Jeremy Stoner,
Direttore di Save the Children per il Medio Oriente.
Save the Children ha da tempo invitato
il governo israeliano a porre fine al blocco di Gaza sottolineando come questo
crei continue violazioni dei diritti fondamentali dei bambini. I funzionari
palestinesi e israeliani devono riprendere il coordinamento per le domande per
i pazienti che lasciano Gaza e Israele deve immediatamente consentire ai
bambini bisognosi di cure mediche urgenti di viaggiare dentro e fuori da Gaza,
accompagnati da un genitore.
Il governo di Israele e l’Autorità
palestinese sono inoltre invitati a negoziare una soluzione pacifica del
conflitto attraverso un processo di pace mediato a livello internazionale,
basato sul diritto internazionale e in riconoscimento del diritto
all’autodeterminazione dei palestinesi. L’Autorità palestinese e la comunità
internazionale dovrebbero fare tutto il possibile per proteggere i malati di
Gaza e promuovere l’accesso senza ostacoli all’assistenza sanitaria essenziale.
Quel
blocco criminale
“I bambini di Gaza – rimarca Jennifer
Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati –
sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la
comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro
sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership
palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza
hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno
già sofferto 13 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto.
Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha
conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo
assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività”.
La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile
sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e
di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per
mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la
notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o
fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità.
“Qui è diverso dagli altri paesi che
hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la
loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono
in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità”, dice agli operatori di Save the
Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.
Rania e i bambini di Gaza hanno
conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin
dalla più giovane età.
Il primo dato emerso da uno studio
dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97%
dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di
questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone.
I sintomi rilevati durante lo studio
includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di
rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più
nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno,
dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto
continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia,
nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale,
insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni
forti.
Andrea Iacomini, portavoce di Unicef
Italia ha dichiarato che “a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in
un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata
da cui non puoi comunque uscire”.
Secondo Bruce Grant, responsabile Unicef nei Territori Occupati: “per i bambini
un evento del genere mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia
succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere
responsabili del disagio sofferto dalla famiglia”.
Infanzia
negata
Fatima Qortoum nel 2008 aveva 9 anni.
Ha visto schizzare il cervello di suo fratello, a causa delle schegge di una
bomba e quattro anni più tardi, nel bombardamento del 2012, l’altro fratello di
sei anni è rimasto ferito ai polmoni e alla spina dorsale. Ad oggi, Fatima
soffre di PTSD.
“Non avevamo paura. Siamo abituati a tutto questo. Mio padre ci disse in casa:
Gli israeliani stanno cercando di terrorizzarci, ma noi abbiamo la nostra
resistenza che li spaventa”, ha raccontato all’Onu Mohamed Shokri, 12 anni.
L’evento-guerra, ovviamente, è il più
traumatico per il bambino. Tutto il sistema sensoriale è allertato e colpito
profondamente: essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni militari;
vedere soldati, armi, spari, persone uccise; sentire le urla dei feriti, sono
tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella
memoria.
Un anno dopo dall’operazione “Piombo
Fuso”, Amal, 10 anni, portava con sé, ovunque andassse due foto di suo padre e di suo
fratello morti durante l’attacco. “Voglio guardarli sempre. La mia casa non è
bella senza di loro”, spiegava Amal, ferita gravemente alla testa e all’occhio
destro.
Il danno fisico non è nulla in confronto a quello psicologico.
Fu trovata quattro gironi dopo
l’attacco, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock; era
una dei 15 sopravvissuti. Kannan, 13 anni, zoppica per il colpo di pistola
ricevuto sulla gamba sinistra. Anche per lui il danno non è solo fisico: prima
della guerra del 2014, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più
a calcio. Nei mesi successivi alla sparatoria ha avuto ripetutamente degli
incubi, si è svegliato spesso piangendo, si spaventa molto facilmente e “non va
al bagno da solo” dice Zahawa, sua madre.
Le parole di una animatrice del Ciss
(Cooperazione internazionale Sud Sud) descrivono bene i sentimenti dei bambini:
“I bambini nei loro racconti, spesso fanno riferimento alla guerra. Dopo che
abbiamo fatto il gioco delle sagome, abbiamo notato che i bambini riconoscono i
loro occhi e le loro orecchie come punti di debolezza nel loro corpo, spiegando
che con gli occhi vedono le distruzioni e con le orecchie sentono il
bombardamento.
Eyad El Serraj, lo psichiatra che
dirige il Gaza Community Mental Health Programme e si occupa dei disordini
post-traumatici sui minori dal 1990, dice che per i bambini in cura si va dagli
incubi alla difficoltà di concentrazione, dal senso di colpa per essere
sopravvissuti, fino al senso di insicurezza e impotenza.
Secondo El Serraj, la relazione che
questi bambini hanno con i genitori è distorta perché si rendono conto fin
dalla prima infanzia che non sono in grado di proteggerli, e parla di un trauma
collettivo che aggrava il conflitto preparando la strada a nuova violenza, in
quanto “il conflitto, da un punto di vista psicologico, dà vita a un ciclo di
vittimizzazione e aggressione che continua a ripetersi, aggravandosi. I giovani
passerebbero attraverso un momento iniziale di totale apatia, in cui si sentono
stanchi e impotenti: uno stato d’animo che conduce spesso a gravi forme di
depressione e alla fase di vittimizzazione. Poi il conflitto continua e i
giovani cominciano a dare segni di forte ansietà e rabbia. E qui comincia la
fase di aggressione che conduce a esplosioni di violenza: un ciclo che continua
a ripetersi e ad aggravarsi. E a rendere impronunciabile tra i bambini di Gaza la
parola “speranza”.
Ps. Oggi i media compiacenti col più
forte riusano il termine “storico” per raccontare del primo aereo civile
israeliano atterrato ad Abu Dhabi dopo lo “storico” accordo di pace tra Israele
e gli Emirati Arabi Uniti. Dei crimini di Gaza, silenzio. Disturbano i potenti
e poi sono solo bambini palestinesi…
* Nome modificato per motivi di protezione
da qui
Perché non parlo più di Palestina con le
persone bianche - Tanushka
Marah
(Traduzione
di Valentina Timpani)
Lo scorso
dicembre mi trovavo in un pub, infervorata da un dibattito televisivo tra
leader sulla notte delle elezioni a cui avevo appena assistito, e sono finita
in una discussione sul perché non era stato giusto incastrare Jeremy Corbyn, ex
leader del partito laburista, nel suo rifiuto di scusarsi in seguito alle
accuse di antisemitismo da parte del presentatore della BBC, Andrew Neil.
Ho
sollevato la questione dell’esistenza di un’influenza israeliana che agisce nel
profondo della nostra democrazia. Un uomo inglese bianco la cui moglie è
israeliana mi ha chiesto di smettere di parlare immediatamente. Ho fatto
presente al gruppo che i miei cugini sono stati torturati in Israele, quindi
questa per me non è solo teoria, e che si trattava di qualcosa che stava anche
influenzando direttamente le elezioni nel Regno Unito.
Mi è stato
chiesto di nuovo di tacere. Ho guardato le loro facce calme e mi sono sentita
una donna araba isterica.
Sradicare
i palestinesi
Prima dei
voli lowcost, all’inzio degli anni ‘90, molti dei miei amici in cerca di
avventure, vegetariani, frequentatori assidui di festival e fan dei Nirvana,
passarono parte del loro anno sabbatico in Israele lavorando per i kibbutz. Mi
arrivavano lettere tramite posta aerea, in cui mi si raccontava con entusiasmo
dello spirito di comunità, della luce del sole e della gioia del duro lavoro.
Tutto ciò mi metteva a disagio, ma non sapevo perché.
I miei
genitori, originari della Palestina e della Giordania, mi avevano sempre
protetta dalle questioni politiche mediorientali, però mi era capitato di
sentire troppe volte parlare di arak e della fessura dei semi di zucca salati.
Facevo a mio padre molte domande, da “Perché Riccardo Cuor di Leone, che
massacrò tanti arabi, è considerato un eroe della storia inglese?” a “Perché i
miei amici vanno a costruire in Israele?”, rispondeva con una stoica alzata di
spalle: “Sono fuorviati”.
Mi mancava
ancora qualcosa: ero perplessa dal fatto che i miei amici di così larghe vedute
si trovassero lì. Non capivo il sogno di costruire uno stato utopico, in cui
uomini e donne sono uguali – pionieri e idealisti in maniche arrotolate color
cachi, che si insudiciano nella terra nuova.
Conoscevo
le sofferenze del ‘48, lo sradicamento dei palestinesi, l’ineguaglianza tra
israeliani e arabi, e sapevo del mondo che volta le spalle alla causa
palestinese. Ricordo il momento in cui vidi per la prima volta una mappa del
mondo in cui la Palestina non era indicata.
Discriminazione
positiva
Negli anni
successivi all’11 settembre, le persone presero vagamente coscienza del fatto
che gli arabi erano diversi da pakistani e indiani. Si trattava di un debole
inizio per venire a patti con l’esistenza dei palestinesi.
Poi venne
la solidarietà: bianchi che indossavano la keffiyah, gli adesivi con la scritta
Palestina Libera, deliziose donne eleganti che raccoglievano firme fuori l’HSBC
contro gli investimenti delle banche negli insediamenti illegali in
Cisgiordania.
Gradualmente,
il cibo e la cultura del Medio Oriente si diffusero nella vita inglese, grazie
ai supermercati Waitrose e al food writer Yotam Ottolenghi. Dopo i falafel, le
persone cominciarono a usare lo zaatar e il sumac. “È di Ottolenghi?” mi
chiedevano del cibo che preparavo. “No, è un classico piatto palestinese! Sì,
la mia famiglia era cristiana; Betlemme si trova in Palestina”.
Nell’ambito
artistico, ho goduto del primo assaggio di discriminazione positiva grazie a
organizzazioni come la Royal Shakespeare Company (RSC). È stato solo allora che
mi sono resa conto del razzismo strutturale che davo per scontato, dato che non
mi sarei mai aspettata di lavorare per un’istituzione inglese considerata
sacra. Ricordo gli occhi spalancati, il primo giorno alla RSC, per la sorpresa
di lavorare all’opera A Museum in Baghdad insieme a
un cast quasi interamente arabo. “Hanno fatto entrare gli arabi!” sussurrò un
attore con una risatina.
Estremi
pericolosi
In una
notte di alcuni anni fa, io e un attore ebreo gironzolavamo brilli a Liverpool,
dopo aver messo in scena un’opera sull’occupazione, quando dei ragazzi mi
chiesero da dove venivo. Non lo chiesero al mio amico, nonostante il suo forte
accento di Pittsburgh.
Alla mia
risposta uno di loro ruggì: “Palestina libera”, prima di fare commenti
dispregiativi sugli ebrei aggiungendo qualcosa sul “riportare in vita Hitler”.
Guardai inorridita il mio amico; mi rispose con un sorrisetto di nascosto come
per dire “te l’avevo detto”. Forse questo ragazzo era un ubriaco qualunque, ma
era la prima volta che sentivo un discorso così pericolosamente estremo di
ignoranza e odio, con il quale ci si aspettava che io fossi d’accordo.
Non si
tratta de “gli ebrei”. Non si tratta di tutti gli israeliani. Ho visto inglesi
prendere la bandiera palestinese e correre, a volte goffamente, lungo la strada
sbagliata. Ciò ha danneggiato la voce palestinese all’interno del dibattito
inglese.
Come per
tutte le discussioni che riguardano la razza e il potere, il linguaggio deve
essere analizzato scientificamente e usato con una certa sensibilità. Parliamo
di israeliani e palestinesi, o di ebrei e palestinesi; israeliani e arabi, o
ebrei e arabi? Io mi ritrovo nelle parole di Reni Eddo-Lodge, autrice di Why
I’m No Longer Speaking to White People About Race, sul razzismo:
“Esiste una definizione anonima di razzismo come pregiudizio unito a potere”.
Secondo
questa definizione, i palestinesi non possono essere razzisti nei confronti
degli israeliani, dato che non sono coloro che detengono il potere. Eppure, se
dicessi che gli ebrei sono più potenti dei palestinesi, ciò sarebbe razzista e
rientrerebbe nelle “teorie cospirazioniste ebree” – che il leader laburista
Keir Starmer ha recentemente utilizzato come motivo per licenziare Rebecca
Long-Bailey.
Unire
appartenenza etnica e nazionalità toglie la voce ai palestinesi nella lotta
contro il razzismo. Ancor peggio, definendola antisemita, coinvolge tutti gli
ebrei nelle politiche razziste messe in atto da Israele.
Far
crollare Corbyn
Chi decide
il linguaggio che usiamo – i palestinesi o gli israeliani? Pare proprio che
alla vigilia dell’ultima annessione israeliana passiamo molto tempo a discutere
di semantica.
Abbiamo un
primo ministro che si è riferito agli afroamericani con il termine “negretti” e
ha detto delle donne musulmane che “ricordano delle cassette delle lettere” –
con la debole scusa di stare dalla parte delle libertà delle donne. Tuttavia
veniamo zittiti nella discussione riguardo le politiche di una delle nazioni
più militarizzate del mondo.
Sappiamo
delle proteste, orchestrate con un tempismo perfetto dallo stesso partito
laburista, progettate per far crollare Jeremy Corbyn, l’unico abbastanza
coraggioso e folle da prendere posizione a favore dei palestinesi. È stato
falciato con le accuse di antisemitismo. Nel frattempo poco è stato rivelato
sul razzismo all’interno del partito nei confronti di parlamentari neri come
Diane Abbott e altri. Tristemente, c’è una gerarchia in gioco, in fondo alla
quale si trovano i palestinesi.
Il
movimento nero ha impiegato centinaia di anni per diventare una causa legittima
che gli inglesi accettassero come veicolo di antirazzismo, sebbene non completamente
e a volte con riluttanza. Mi sono sentita incredibilmente rassicurata da un
recente tweet e dal gesto di cameratismo da parte del ramo inglese di Black
Lives Matter (BLM) verso la Palestina. E poi la reazione: “È razzista, è
antisemita. Sminuirà la loro causa!”
La
storia sanguinosa della Gran Bretagna
Descrivere
Israele per quello che è – uno stato colonialista dove milioni di palestinesi
vivono sotto occupazione militare e a cui viene negato il diritto di voto, la
libertà di movimento e l’autodeterminazione – è ora definito razzista. BLM non
agisce all’interno della buona società inglese. Intraprendendo azioni dirette e
buttando giù statue di schiavisti, ha scatenato un dibattito necessario.
In quanto
società, finalmente parliamo dei programmi scolastici e della storia sanguinosa
della Gran Bretagna; parliamo del razzismo verso i palestinesi. Vi rendo
omaggio, compagni.
La reazione
negativa al tweet di BLM è uno schiaffo in faccia alla voce palestinese. Il
licenziamento di Long-Bailey per mano di Starmer è uno schiaffo in faccia.
Anche il suo precedente impegno a favore del sionismo durante la sua campagna
per la presidenza era uno schiaffo in faccia. Tutti sanno che devono comprare
una quota del credo sionista; che non devono turbare la sensibilità israeliana,
e se questo significa ignorare la sensibilità palestinese, pazienza.
Finché
affermare il razzismo contro i palestinesi sarà marchiato come qualcosa di
antisemita, molti ebrei in tutto il mondo saranno macchiati della
responsabilità delle azioni di Israele. In questo circolo vertiginoso,
ricordiamoci che per definizione i palestinesi sono anche semiti. Cancellati
dalle mappe, sono un popolo traumatizzato che necessita di una patria in un
mondo che non vuole accettarli.
In quanto
persona di origini palestinesi, la storia di Corbyn come ultimo probabile primo
ministro che avrebbe sostenuto i palestinesi mi addolora. In quanto cittadina
britannica, sono pragmatica e voglio vedere un governo laburista, e una Gran
Bretagna migliore dove migliaia di persone vulnerabili non vengono uccise ogni
anno a causa dell’austerità.
Gli inglesi
non sopportavano Corbyn. Sembra che nessuno potrà entrare al numero 10 di
Downing Street a meno che non sia amico di Israele. Potremmo avere un governo
di centro-sinistra, ma la sua politica estera sarà impantanata nella sporcizia,
con il supporto ai dittatori, alle guerre e all’occupazione. Ci siamo già
passati, con i centri Sure Star di Tony Blair e gli
innumerevoli morti in Iraq. È quello che, insieme a Starmer, gli inglesi
tollerano più facilmente.
Nel nome dei miei futuri nipoti, rifiuto
di essere cittadina di uno stato di apartheid - Adi
Granot
“Apartheid” è una parola complicata e carica di significati
che richiama un’idea di antagonismo. Per questo motivo, e anche perché la
parola è stata clamorosamente assente in tutto il periodo in cui la notizia
principale era l’annessione israeliana di parti della Cisgiordania, noi della Zulat, associazione a favore dei diritti umani,
abbiamo pubblicato un documento su
come la narrazione d’Israele ha lavato via e camuffato il vero significato del
progetto.
Il nostro resoconto evidenzia lo slittamento che l’dea di
annessione ha fatto, partendo dal lontano diritto messianico fino all’attuale
piattaforma politica di tutti i maggiori partiti in Israele, dovuto in gran
parte a quel discorso del lavaggio-camuffamento. Il documento rivela il
gioco ben-orchestrato dal governo di destra di Netanyahu –sostenuto dalla
maggior parte dei media– finalizzato a nascondere al pubblico il fatto che
legalizzare per legge l’annessione significa qualificare Israele come
uno stato di apartheid.
Il fatto che stiamo parlando di annessione parziale invece
che totale gioca un ruolo importante. La mossa dell’annessione incompleta non
solo aiuta a legittimarla agli occhi di molti Israeliani, ma permette anche
allo Stato di Israele di realizzare sia l’annessione parziale che quella
totale.
Gli attuali piani di annessione (principalmente il piano
Trump) presentano molte somiglianze col regime di apartheid in Sud Africa non
solo geograficamente ma soprattutto per la natura del regime: l’esistenza dei
Bantustan, aree residenziali assegnate alla popolazione di colore, ha permesso
in definitiva al governo del Sud Africa, di non dare nessun diritto alla
popolazione nera esistente nel proprio territorio, adducendo che erano
cittadini delle cosiddette aree autonome. Questo è esattamente il modo in cui
l’annessione parziale permetterà a Israele di avere il dolce e anche di
mangiarlo.
Il progetto è quello di annettere l’Area C, i blocchi
di insediamenti e la Valle del Giordano, lasciando ai Palestinesi uno “stato”
costituito da frammenti di territorio ed enclave remote nelle aree A e B.
Questo permetterà a Israele di abbandonare qualsiasi senso di responsabilità
che potrebbe ancora provare verso i milioni di Palestinesi, occupati ed
espropriati per 53 anni. Allo stesso tempo ciò aiuterà Israele a mantenere sia
l’autorità su tutto il territorio sognato da generazioni, oltre ad assicurarsi
che nessun altra nazione, salvo Israele, esisterà mai, fra il fiume e il mare.
Prendiamo, ad esempio, una palestinese di Turmus Ayya, un
villaggio dell’area B, circa 20 chilometri a Nord di Ramallah. Una volta fatta
questa annessione, che tipo di vita quotidiana potrà condurre?
Da una parte continuerà a soffrire per la privazione
quotidiana da parte di Israele dei diritti umani fondamentali: i soldati
israeliani continueranno ad entrare nella sua abitazione nel mezzo della notte
“per mostrare la loro presenza” con lo scopo di “tenere tranquilla la zona”.
Dopo tutto, il suo villaggio adesso confinerà con il (nuovo) Stato di
Israele.
Durante la stagione della raccolta delle olive,
fondamentale per il sostentamento della famiglia per tutto l’anno, non potrà
raggiungere e utilizzare i suoi terreni situati nell’Area C, espropriati ed
annessi a Israele.
Quando vorrà visitare suoi familiari che vivono in altro
villaggio della Cisgiordania, dovrà passare dal checkpoint di soldati armati
che le ricorderanno che non ha libertà di movimento.
Ogni tanto il suo intero villaggio verrà completamente
chiuso per punizione collettiva; tutte le strade di collegamento con altre
enclave saranno sotto controllo israeliano; e se dovrà uscire dal suo “stato”
per trattamenti medici, sarà un ufficiale israeliano a determinare il suo
destino.
D’altra parte, che tipo di vita può fornire a questa donna
di Turmus Ayya l’attuale “stato” palestinese? Che tipo di economia potrebbe
realizzare questo stato-enclave non-sovrano? Che tipo di servizi relativi alla
salute, educazione, assistenza sociale potrebbe offrire? Ed ancora, quale
ricovero ospedaliero? Assistenza sociale? Raccolta rifiuti? Parcheggi?
Se c’è qualcosa che la crisi coronavirus ha insegnato
a noi tutti è che il nostro benessere è costituito da migliaia di piccole cose
che formano la nostra quotidianità. È facile dimenticarsi quanto importante sia
ciascuna di esse nel modellare la nostra routine giorno dopo giorno.
Lo “stato” palestinese, costituito dagli avanzi
dell’annessione, non sarà in grado di funzionare come entità sovrana e
provvedere a fornire ai propri cittadini quelle istituzioni, servizi e
condizioni di vita che permettono una vita dignitosa
In queste condizioni, quelle enclave sono destinate ad
operare esattamente come i Bantustan in Sud Africa durante il regime di
apartheid: apparentemente autonomi e sovrani ma nei fatti in condizioni di
politica separatista, e di restrizioni legali che condanneranno le persone a
subire povertà estrema ed una totale incapacità di autosostentamento, per non
parlare di un eventuale sviluppo, crescita e arrivo ad uno Stato funzionante.
L’annessione non solo comporterà il protrarsi delle gravi
violazioni attuali e la negazione dei diritti umani ma la situazione peggiorerà
fino a diventare principio fondante del regime israeliano. Lascerà
letteralmente i Palestinesi in una “terra di nessuno”, ingabbiati per sempre
tra lo Stato di Israele che li ha lasciati senza niente e lo “Stato”
palestinese incapace di curarsi dei suoi cittadini.
Il 1 luglio è trascorso senza nessun accadimento, ma il
discorso del lavaggio-camuffamento continua senza tregua a radicarsi nel
terreno –sia letteralmente che in senso figurativo– usando parole come
“annessione” e “applicazione della sovranità” con lo scopo di cancellare la
macchia dei suoi piani di apartheid.
Nel nome di mio nonno –che non è più con noi, ma che fu un
uomo politico in Israele ai tempi in cui opporsi all’occupazione era ancora
considerato essere un buon Sionista– e nel nome dei miei futuri nipoti, mi
rifiuto di essere cittadina di uno Stato di apartheid.
Adi Granot è la direttrice del progetto annessione di Zulat, un’associazione
per la parità e per i diritti umani. È una cantante-autrice interessata ai
rapporti tra musica e politica. È laureata in relazioni politiche alla London
School of Economics.
Traduzione di Giuliana Bonosi – AssopacePalestina
L'incendio della
Moschea è un chiaro messaggio : I palestinesi devono sparire dalla West Bank - Amira Hass
Dov'è la moschea di El Bir Wa-el Ihsan", ho chiesto all'autista presso la stazione dei taxi nel nord-est di El Bireh, una città della Cisgiordania, lunedì mattina. " La moschea incendiata dagli ebrei?" ha chiesto . "Non ne ho idea."
La
moschea è stata aperta nell'agosto 2016 e la maggior parte delle persone ,
compresi altri tassisti, non ne aveva mai sentito parlare. Supponevo che
dovesse trovarsi in un posto molto accessibile a chiunque desideri fare del
male, con una comoda via di fuga. Vicino a un insediamento. Vicino a telecamere
militari. Vicino a una posizione delle forze di difesa israeliane.
La
mia prima ipotesi : la zona industriale di El Bireh, oltre il checkpoint
dell'esercito di Beit El e la base dell'amministrazione civile. Nell'ottobre
2019 persone sconosciute sono arrivate lì in un veicolo, hanno forato le
gomme di circa 30 auto di proprietà palestinese e, al fine di eliminare ogni
dubbio sulla loro identità, hanno lasciato dei graffiti in ebraico.
Ma
no. La moschea non si trova nella zona industriale. La mia seconda ipotesi era
corretta: è situato nel complesso educativo della città, proprio accanto allo
stadio di calcio. A meno di un chilometro in linea d'aria, si trova
l'insediamento di Psagot.
Come
ogni giorno, il muezzin Jalal Mahmoud Ayesh è arrivato alla moschea alle 3:10
di lunedì. Ancor prima di scendere dalla macchina ha notato che la
luce nell'edificio era spenta. Forse c'è un corto circuito, Ha
pensato. E' entrato nella sala della preghiera attraverso l'ingresso
occidentale e immediatamente ha sentito l'odore del fuoco. Ha
seguito l'odore fino alla porta dell'ingresso orientale. La
maniglia era calda. Quando ha aperto la porta, ha visto
delle fiamme sul muro esterno della moschea.
Ayesh
non ha perso tempo e ha chiamato la caserma locale dei
pompieri . Supponeva che fosse uno scherzo fatto dai bambini che,
forse avevano dato fuoco all'armadio di legno e plastica, dove si
ripongono le scarpe prima della preghiera. I pompieri, arrivati in
pochi minuti, hanno detto : “Di cosa stai parlando? Non sono responsabili i
bambini ”, e hanno indicato i graffiti in ebraico, su un muro appena
imbiancato. Più tardi qualcuno tradurrà le parole : "Un
assedio per gli arabi e non per gli ebrei", con un punto esclamativo.
"La terra di Israele per il popolo di Israele", con due punti
esclamativi.
Un
secondo focolaio dell'attacco incendiario era nel bagno della
moschea. Un tappeto, sotto i lavandini, è stato bruciato. Le piastrelle del
muro e del pavimento erano carbonizzate, così come il vetro della finestra, che
era rotto.
Alle
9 del mattino, quando ero lì, qualcuno ha detto che gli agenti di polizia
palestinesi erano arrivati prima, ma erano vestiti con abiti civili, perché
il sito si trova in quella che viene definita "Area C": sotto il
totale controllo israeliano, dove la polizia palestinese non è
autorizzata ad operare. La "C" è una categoria artificiale, ma la
terra appartiene al comune di El Bireh e il quartiere residenziale ,è
all'interno dei confini comunali :una naturale continuazione dei
quartieri più antichi della città.
Nel
2009 l'insediamento di Psagot e della ONG pro-colono Regavim chiesero che
l'Amministrazione Civile demolisse lo stadio locale, ormai nelle fasi finali di
costruzione. Hanno anche messo in guardia sul fatto che migliaia di fan del
calcio sovraeccitati probabilmente avrebbero potuto creare
tensioni (il nell'insediamento. Si è scoperto che già nei
primi anni '80, il governo militare aveva concesso al comune il permesso di
costruire in quella zona. Il tentativo di demolizione è stato contrastato.
Come
sono arrivati gli incendiari alla moschea? Forse sulla strada che conduce
dall'insediamento al sito di smaltimento dei rifiuti della città, e da lì allo
stadio vicino alla moschea. Sarebbero potuti arrivare in macchina, se la guardia
sul posto non ci fosse stata , o l'avrebbero parcheggiata sul
pendio della collina e sarebbero saliti a piedi.
Il
messaggio indiretto degli incendiari è: guardaci, facciamo tutto
ciò che ci piace e continueremo a farlo, perché la polizia non si preoccuperà
di cercarci e l'esercito non ci arresterà . E se ci beccano , non ci
perseguiteranno e, se lo faranno, i giudici troveranno una scusa per
assolverci. È così da anni.
Il
messaggio diretto dietro l'attacco incendiario è scritto sul muro: i
palestinesi devono scomparire da qui. E se non scompaiono di loro
spontanea volontà, noi ebrei anonimi li costringiamo a farlo.
PALESTINA.«Ho temuto di soffocare come George Floyd» - Michele Giorgio
«Eravamo soltanto degli anziani intenzionati a
manifestare pacificamente. Abbiamo marciato fino alle nostre terre minacciate
di confisca da parte di Israele, pensando che i soldati non ci avrebbero
attaccato. Invece lo hanno fatto, senza ragione. Ho 60 anni, cosa potrei fare a
dei soldati giovani e ben armati». Khairi
Hanoun ieri raccontava a parenti e giornalisti la disavventura, a dir poco, che
gli è capitata due giorni fa durante le proteste organizzate dagli abitanti del
villaggio di Shufa, vicino Tulkarem, in Cisgiordania, contro gli espropri di terre destinate a far posto a
un’area industriale israeliana. Le cose sono andate in modo ben diverso
rispetto alle previsioni ottimistiche di Hanoun. «Ad un certo punto – ha
spiegato – mentre avanzavamo, un militare israeliano mi ha afferrato un
braccio, mi ha scaraventato a terra e infine per immobilizzarmi ha premuto a
lungo la mia testa a terra con un ginocchio. Ho temuto di soffocare come (l’afroamericano ucciso dalla polizia
a Minneapolis) George Floyd».
Nelle reti sociali all’accaduto è stato subito abbinato
l’hashtag “Palestinian lives matter”, ispirato alle uccisioni a sfondo razziale compiute
dalla polizia negli Stati uniti. Immediata la replica dei comandi militari
israeliani, secondo i quali la manifestazione palestinese in realtà sarebbe
stata «violenta» al punto da costringere i soldati a reagire con «energia». Il
60enne, affermano, era un «facinoroso» che ha aizzato gli altri palestinesi e
per questo motivo è stato arrestato. Tuttavia le immagini dell’accaduto che
girano in rete non confermano l’aggressività di cui parla l’esercito
israeliano: Hanoun oppone una timida resistenza, non violenta,
all’arresto. Inoltre in un altro video si
vede un agente di polizia che con il calcio del mitra spacca il finestrino di
un’auto e punta l’arma contro la testa di una persona a bordo.
Ieri sono circolate anche le immagini dell’arresto al
posto di blocco di Zaatara (Nablus) di un 22enne, Mohammed Khudair. Le
autorità israeliane affermano che il palestinese ha investito intenzionalmente
un militare con la sua auto ed è poi stato colpito dalle raffiche sparate dagli
altri soldati presenti al check-point. Testimoni riferiscono che il presunto
aggressore palestinese sarebbe stato lasciato a terra, sanguinante e
ammanettato, per molti minuti prima di essere soccorso.
Il mondo guarda altrove, anche a causa della pandemia, mentre il
quadro generale della Cisgiordania si è aggravato e l’occupazione militare israeliana nelle ultime
settimane sta usando il pugno di ferro. I palestinesi parlano di riflessi dell’accordo di normalizzazione
tra Israele e gli Emirati. I
soldati, in sostanza, pensano di avere le mani libere, più che in passato,
perché il mondo arabo, rappresentato dalla scelta fatta da Abu Dhabi, a loro avviso ha riconosciuto il controllo israeliano della
Cisgiordania e messo fine alle rivendicazioni palestinesi. Non restano in disparte i coloni più militanti,
irritati dalla mancata esecuzione (per ora) del piano del premier Netanyahu per
l’annessione a Israele di ampie porzioni di Cisgiordania: hanno intensificato
le scorribande notturne nei villaggi adiacenti agli insediamenti coloniali,
senza incontrare alcun freno.
I comandi dell’esercito negano le accuse e riferiscono,
come esempio della loro buona volontà, che la polizia militare ha avviato
un’indagine sui soldati che il mese scorso hanno posizionato, a «scopo di
deterrenza», esplosivi nel villaggio palestinese di Kufr Qaddum. La
vicenda era stata rivelata dal quotidiano Haaretz la scorsa settimana. Truppe della Brigata Nahal avevano
nascosto tre bombe rudimentali lungo la strada principale che porta al
villaggio «a scopo di deterrenza», poiché gli abitanti di Kufr Qaddum da anni,
ogni venerdì, manifestano contro la chiusura delle vie di comunicazione tra il
villaggio e la superstrada che porta a Nablus. «Deterrenza» che ha provocato il
ferimento di un bambino, investito dall’esplosione di uno degli ordigni che
aveva trovato poco prima.
In viaggio con
Amira Hass nell'inferno di Gaza - Umberto De Giovannangeli
Globalist
ha raccontato per primo la disperazione infinita, il dolore indicibile che spinge al suicidio i giovani di Gaza. Abbiamo raccolto,
grazie alla preziosa collaborazione sul campo di Osama Hamdan, le testimonianze
struggenti di amici e familiari.
Il
documento-racconto che pubblichiamo oggi, è qualcosa di eccezionale perché a
guidarci nell’inferno di Gaza è la giornalista israeliana che meglio di chiunque
altro conosce, e vive in prima persona, la realtà palestinese. Una firma
conosciuta in tutto il mondo: Amira Hass.
Viaggio all’inferno
Il viaggio di Amira inizia con
una domanda che ne dà l’imprinting politico: Quattro suicidi in una settimana
nella Striscia di Gaza - portando il totale a 12 dall'inizio dell'anno - sono
una coincidenza o fanno parte di un fenomeno? A Gaza questa è una domanda
politica, annota la reporter e scrittrice, e le risposte che si sentono sono
divise in base all'appartenenza a un partito e alla divisione dell'autogoverno
palestinese.
Per Hamas, l'affermazione che si
tratta di un fenomeno e che è in aumento suona come una diffamazione da parte
dei suoi rivali e dei malvagi, in particolare Fatah - un tentativo di
addossargli la colpa in modo immeritato. Intanto i critici e gli oppositori di
Hamas, anche se sono d'accordo sul fatto che la radice del problema sta nelle
misure militari e burocratiche di Israele, che hanno strangolato l'economia di
Gaza e trasformato la Striscia in un'enorme prigione, tagliata fuori dal mondo,
credono tuttavia che Hamas, essendo al potere da 13 anni e vantando spesso i
suoi successi, condivida parte della colpa per il fatto che i giovani hanno
perso il gusto per la vita.
Durante le prime due settimane di
luglio, i suicidi sono stati ancora il principale argomento di conversazione in
strada e sui social network. Il fattore scatenante è stato il suicidio di
Suleiman al-Ajouri, 23 anni, che si è sparato il 3 luglio. La sua tragica morte
ha attirato più attenzione di quella di un altro giovane del campo profughi di
Shati che quello stesso giorno si è buttato dal quinto piano di un edificio. E
più che la morte di un insegnante impiegato dell'Unrwa , l'agenzia delle
Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, morto per le ferite riportate quel
giorno, una settimana dopo essersi dato fuoco, e di una donna a Rafah che si è
impiccata, sempre il 3 luglio.
L'attenzione per Ajouri è stata
naturale: è stato uno degli attivisti che hanno fondato il movimento We Want to Live più di un anno
fa. Il movimento, che protestava contro la triste situazione economica e
occupazionale nella Striscia di Gaza, è stato brutalmente schiacciato da Hamas.
Ogni movimento di protesta che cerca un cambiamento sociale porta un messaggio
di speranza e di responsabilizzazione. Il suicidio di una figura chiave di tale
movimento è percepito come il messaggio opposto: la perdita di ogni speranza e
l'impotenza. Versando benzina sul fuoco, il 4 luglio, giorno del funerale di
Ajouri, le autorità di Hamas hanno arrestato nove persone in tre diversi
incidenti. Il Centro per i diritti umani Al
Mezan, con sede a Gaza, riferisce che tre dei nove sono stati arrestati
non appena hanno lasciato il cimitero dove è stato sepolto Ajouri; due
giornalisti che hanno riferito del suicidio sono stati arrestati quel giorno; e
quattro amici di Ajouri sono stati presi in custodia nella casa del defunto,
dove stavano porgendo le loro condoglianze.
Le notizie riportate dai social
media indicano che gli ultimi quattro - almeno - sono attivisti di Fatah e che
alcuni di loro hanno partecipato alle manifestazioni di We Want to Live. Tutti i detenuti sono
stati interrogati e rilasciati poco dopo, ma secondo
Al Mezan sono stati poi convocati per ulteriori interrogatori.
L'obiettivo di arresti arbitrari come questi è chiaro: spaventare e mettere a
tacere le persone, e dissuadere loro e gli altri dall'esprimere le loro
opinioni. La morte violenta, innaturale e prematura è implacabile nella
densamente popolata Striscia di Gaza. Lunedì scorso, una donna di 34 anni di
Rafah è morta per le ferite riportate durante i bombardamenti israeliani del
2014. Il suo nome si aggiunge alla lista delle vittime di quella guerra: La
devastazione fisica è stata riabilitata, ma i traumi psichici e le sofferenze
dei feriti e delle migliaia di famiglie in lutto non sono stati cancellati,
così come le sofferenze, i lutti e i traumi delle precedenti aggressioni
militari israeliane. Le guerre, l'assedio israeliano e lo scisma politico hanno
apparentemente normalizzato la morte, dice Samah Jaber, direttore dell'unità di
salute mentale del Ministero della Salute palestinese. La morte è diventata
così naturale agli occhi di molti che ora vale più della vita stessa, che ha
perso ogni valore, ha detto Jaber in un rapporto di Al Jazeera del 9 luglio
sull'ondata di suicidi.
La normalizzazione della morte si
può vedere anche in altri tre eventi recenti. Domenica scorsa, un prigioniero
rilasciato - un membro del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e
un agente di polizia dell'Autorità palestinese in pensione - è stato
assassinato a Rafah. Si pensa che sia stato ucciso per vendicarsi del suo
coinvolgimento nell'omicidio di persone sospettate di collaborare con il
servizio di sicurezza israeliano Shin Bet nella prima intifada. La polizia di
Hamas, ansiosa di mettere il coperchio su una potenziale faida di sangue prima
che scoppi, si è affrettata a pubblicare le fotografie dei sospettati.
La stessa domenica, un tribunale
di Deir al-Balah ha condannato a morte due fratelli condannati per omicidio. È
la sesta volta che la pena di morte viene inflitta a Gaza dall'inizio
dell'anno. E il giovedì precedente, nella parte orientale di Gaza City, un
padre ha picchiato a morte la figlia perché voleva andare a trovare la madre
divorziata. (Il padre è stato arrestato). A causa delle sue piccole dimensioni
e della sua densa popolazione, la Strip è una camera d'eco per ogni evento di
questo tipo, e i social network agiscono come amplificatori ad alta potenza.
Per lo stesso motivo, un argomento caldo di conversazione si trasforma
rapidamente in un altro, e l'urgenza con cui i suicidi sono stati discussi fino
a circa 10 giorni fa è svanita.
Hamas reprime
Ma la preoccupazione di Hamas per
altri suicidi si vede nell'arresto, circa una settimana fa, di un giornalista
che ha accettato la richiesta di un giovane di fotografarlo mentre si versava
la benzina addosso. Anche l'aspirante suicida è stato preso in custodia. La
polizia ha spiegato che il giornalista è stato arrestato perché non ha cercato
di impedire il tentato suicidio, anzi lo ha incoraggiato. Il giornalista -
ferito alla gamba da un colpo di pistola israeliano mentre fotografava le
manifestazioni della Marcia del Ritorno al confine e che è stato arrestato da
Hamas in passato, durante il periodo delle proteste di We Want to Live - ha negato le accuse.
È stato rilasciato in seguito all'intervento di colleghi giornalisti. La paura
di un'ondata di suicidi imitatori ha una solida base. Dopo la morte di Ajouri,
il quarantenne Haitham Arafat ha annunciato sui social media l'intenzione di
suicidarsi. Sopravvissuto al massacro di Sabra e Shatila del 1982 a Beirut, è,
secondo un rapporto di al Jazeera, l'ultimo
sopravvissuto della sua famiglia. È stato adottato da Yasser Arafat ed è
arrivato con lui nella Striscia di Gaza nel 1994. Era sotto stipendio
dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) palestinese, ma nel 2014 ha perso
tutti i suoi risparmi quando una granata israeliana ha colpito un camion che
trasportava pesci e uccelli ornamentali che aveva importato nella Striscia.
Come migliaia di altri dipendenti
del settore pubblico dell’Anp, che per ordine del presidente palestinese
Mahmoud Abbas nel 2007 hanno smesso di lavorare ma hanno continuato a ricevere
il loro stipendio, il governo di Ramallah lo ha mandato in pensione anticipata:
invece dei 2.600 shekel (circa 575 dollari) al mese che riceveva, ne ha
ricevuti 1.400. Negli ultimi anni, ha detto, anche quell'indennità è stata
bloccata e ha accumulato grossi debiti.
Nelle ultime settimane, diverse
persone che in passato avevano tentato il suicidio hanno raccontato ai
giornalisti le loro motivazioni: difficoltà economiche causate dalla perdita di
un reddito regolare, l'accumulo di debiti, pegni e persino l'arresto per essere
rimasto indietro con i pagamenti bancari.
La Banca Mondiale prevede che il
64% delle famiglie di Gaza vivrà al di sotto della soglia di povertà (rispetto
al 53% prima della pandemia). Anche la disoccupazione (42 per cento
nell'enclave alla fine del 2019) dovrebbe aumentare. Tra i giovani, ha già da
tempo superato il 50 per cento.
In un'intervista su uno dei siti
di notizie di Hamas, Al-Risala, il fratello di Ajouri ha detto che la famiglia
non soffre di difficoltà economiche e si oppone allo sfruttamento a basso costo
della tragedia per fomentare le lotte. Hamas preferisce considerare i suicidi
come casi privati di persone con problemi mentali e familiari.
Alcune delle organizzazioni non
governative che lavorano nel settore sanitario a Gaza hanno scelto di non
essere coinvolte nella recente discussione sui suicidi, per non dare
l'impressione che ci sia stato un aumento significativo del loro numero. Il
suicidio è ancora considerato tabù e socialmente vergognoso nella società
musulmana palestinese, e il numero di suicidi è basso rispetto ad altre
società, ha dichiarato una fonte medica ad Haaretz. Allo
stesso tempo, egli trova difficile credere che i dati pubblicati siano
accurati. A causa dello stigma sociale, le famiglie possono convincere la
polizia a registrare una diversa causa di morte, o in caso di ricovero
ospedaliero dopo un tentato suicidio, a nascondere la storia.
Secondo i dati
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità del 2016, il numero medio di suicidi
per 100.000 persone in tutto il mondo è stato di 10,5. La media in Medio
Oriente era di 3,9 (la più alta era di 8,5, nello Yemen); in Europa era di 15,4
(Russia: 31) e nel Sudest asiatico di 13,2 (3,4 nell'Indonesia musulmana).
Così, il tasso di suicidio nella Striscia di Gaza è di circa 2 su 100.000.
Diversi siti di notizie hanno
pubblicato le statistiche dei suicidi e dei tentativi di suicidio nella Striscia
di Gaza negli ultimi anni. Secondo Al-Araby
Al-Jadeed, nel 2015, su 553 tentativi di suicidio, 10 si sono
conclusi con la morte; nel 2016, sono stati 16 su 626 tentativi. Le cifre per
il 2017 sono state 566 e 23; per il 2018, 504 e 20; e nel 2019 ci sono stati
133 tentativi, di cui 22 "riusciti". Come già notato, nei primi sette
mesi di quest'anno, 12 palestinesi della Striscia si sono suicidati, e l'87 per
cento di loro aveva meno di 30 anni. Poco più della metà dei tentativi di
suicidio sono stati compiuti da donne, ma tra le persone che si sono suicidate,
gli uomini sono la maggioranza. Due esempi mostrano quanto sia difficile
affidarsi alle statistiche semi-ufficiali che raggiungono il pubblico
attraverso i media. Il portavoce della polizia di Hamas, Ayman al-Batniji, ha
detto ad Al Jazeera che non
c'è bisogno di esagerare il significato dei recenti suicidi, né di vederli come
un aumento. La prova, ha detto, è che l'anno scorso ci sono stati 32 casi di
suicidio - a differenza dei 22 pubblicati da Al-Araby
Al-Jadeed e da altri media.
C'è una differenza
particolarmente evidente tra le fonti per quanto riguarda il 2017, come emerge
da un rapporto sul sito indipendente di notizie libanese Daraj. Mustafa Ibrahim, un ricercatore
veterano di una delle organizzazioni per i diritti umani di Gaza, scrive a Daraj che nel 2017 ci sono stati
759 tentativi di suicidio, 37 dei quali si sono conclusi con la morte. Ovvero
più che negli anni precedenti e in quelli successivi.
L'anno successivo sono iniziate le proteste della Marcia del Ritorno, e le migliaia di giovani disarmati che vi hanno preso parte non sono stati scoraggiati - forse il contrario - dai micidiali colpi d'arma da fuoco israeliani che li hanno presi di mira fin dalla prima manifestazione. Dal marzo 2018 alla fine del 2019, 214 palestinesi, tra cui 46 bambini, sono stati uccisi dai cecchini israeliani lungo la recinzione di sicurezza; 8.000 sono stati feriti da colpi d'arma da fuoco vivi, e molti di loro ora soffrono di una disabilità permanente.
Ai margini degli obiettivi
ufficiali della Marcia del Ritorno, si è concluso che molti manifestanti erano
stufi della vita perché non erano in grado di affrontare tutte le difficoltà
economiche, sociali e psichiche generate dalla condanna a vita nella Striscia di
Gaza. Allo stesso modo, si potrebbe dire che, protestando, cercavano di dare un
senso alla loro vita. La conclusione che almeno alcuni dei partecipanti hanno
usato le manifestazioni come strumento per il suicidio ("suicidio da parte
di un soldato") è molto difficile da digerire in una società in cui
l'etica e la pratica della lotta di liberazione sono una consuetudine.
"Suleiman ha
scelto il silenzio dell'eternità per bloccare il dolore infinito",
scriveva Mustafa Ibrahim. Come altri che hanno scritto sull'argomento - e
contrariamente alla posizione di Hamas - egli collega definitivamente i suicidi
alla disperata situazione economica della maggior parte degli abitanti di Gaza,
alla divisione politica e alla disperazione che deriva dalla separazione di
Gaza dal resto del Paese. Nonostante la loro opposizione di principio al
suicidio, alcuni ecclesiastici sono stati citati come comprensivi nei confronti
di coloro che cercano di suicidarsi. L'editore capo di Al-Hadaf, il portavoce
del PFLP, ha scritto: "Ha senso che una figura di alto rango sazia chieda
al suo popolo di sopportare pazientemente la fame?
Per quanto pochi e taciuti possano essere, i suicidi sono anche l'espressione di una mancanza di fiducia nel governo di Hamas.
Finisce qui il viaggio di Amira.
Ci ha accompagnato in un viaggio all’inferno. L’inferno di Gaza.
LA
VIOLENZA GENERA DISPERAZIONE E ALTRA VIOLENZA ,CICLO INFINITO E SENZA SPERANZA
DI GAZA - Muhammad Shehada
Nelle ultime settimane Gaza e il sud di Israele sono stati coinvolti in un'altra allarmante recrudescenza. Come rappresaglia per aquiloni e palloni incendiari, lanciati da Gaza e caduti su terreni agricoli nel sud di Israele, l’aviazione israeliana ha effettuato attacchi aerei costanti sulla striscia.
Questi sono stati aggravati dall’inasprimento delle
restrizioni per la popolazione di Gaza. La scorsa settimana Israele ha chiuso
il principale valico commerciale di Gaza, Kerem Shalom. Lunedì, Israele ha chiuso
la zona di pesca di Gaza nel Mediterraneo. Martedì, è stato riferito che
Israele ha interrotto le spedizioni di carburante a Gaza, il che ha ridotto la
fornitura di elettricità della città, che è passata da 8 / 12 ore a sole 3 / 4
ore al giorno; L'unica centrale elettrica di Gaza ha smesso di funzionare.
Questa è Gaza: un periodo di calma non corrisposta,
seguito dalla violenza provocatoria di Gaza che causa attacchi aerei israeliani
e ulteriori punizioni collettive, seguito da un'accresciuta risposta di Gaza
che a sua volta ha incontrato una risposta israeliana ancora più violenta.
È un ciclo infinito, così come il prossimo, inevitabile
passo: una volta che le cose sembrano andare fuori controllo, Egitto, Qatar e
altri mediatori internazionali entrano in scena per scongiurare un'altra guerra
insostenibile. Gaza riceve quindi una o due ricompense provvisorie, come un
flusso mensile di milioni di dollari dal Qatar distribuiti sotto forma di
sussidi da 100 dollari a decine di migliaia di famiglie povere. E quando la
situazione si stabilizza, Israele allenta le restrizioni tornando allo status
precedente, ma niente di più.
E poi, tutto ricomincia, pochi mesi o addirittura
settimane dopo.
La causa di questa reiterazione infinita è semplice:
indurre una situazione invivibile. La violenza a cui sono soggetti gli abitanti
di Gaza è solo occasionalmente spettacolare e dirompente, come gli attacchi
aerei, per esempio, o la chiusura della zona di pesca, ma più spesso è latente,
burocratica e inferta ininterrottamente nel tempo e nello spazio in modo che
possa non essere percepita come una violenza. È la lenta ma innegabile
negazione della dignità a 2 milioni di persone.
Ciò avviene tramite la grave scarsità di acqua potabile,
o attraverso una grave carenza di elettricità, attività economiche compromesse,
povertà inimmaginabile e tassi di disoccupazione ineguagliabili. Questi sono
tutti aggravati da una limitata capacità di fuga.
Tutte queste crisi costanti mantengono Gaza sulla
graticola. Si trascina, a malapena sopravvive, ciò che noi di Gaza chiamiamo
"morte lenta". Questo stato di limbo senza via d’uscita spinge
l'intera popolazione sull'orlo della disperazione perpetua.
In poche parole, la maggior parte degli abitanti di Gaza
non ha nulla per cui vivere, e quindi, niente da perdere.
Parlando con amici e parenti che vivono ancora nella
Striscia, mi raccontano la disperazione. Mentre alcuni abitanti di Gaza
combattono contro questa “morte lenta” attraverso l'attivismo, soprattutto
online, altri optano per la fuga, o attraverso la migrazione verso un mondo
sempre più ostile verso i migranti, o attraverso la droga o, cosa ancora più
allarmante, il suicidio.
In una società religiosa in cui il suicidio è
estremamente condannato come una porta verso l'inferno eterno e in violazione
della tradizione palestinese di Sumud (fermezza), è comprensibile che alcuni
abitanti di Gaza siano stati indotti a credere che l'inferno di Dio sarà più
indulgente con loro dell'inferno in cui è stata trasformata Gaza.
E sì, alcuni abitanti di Gaza sceglieranno la violenza,
diretta a esercitare pressione su Israele e attirare l'attenzione della
comunità internazionale che spesso ignora la resistenza non violenta
palestinese, al fine di affrontare la disastrosa situazione. Negli ultimi mesi
questa violenza ha assunto la forma di aquiloni e palloncini incendiari che
questa settimana hanno portato a un aumento della punizione collettiva
israeliana della popolazione palestinese.
Chiunque abbia un briciolo di sentimento dovrebbe essere
in grado di decifrare il messaggio che questi oggetti incendiari stanno
cercando di trasmettere: il desiderio disperato di una vita degna di essere
vissuta. Eppure, il governo israeliano sceglie di non vedere e di rispondere
con violenza a questi estremi segnali di soccorso. Senza dubbio il primo
ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo alleato di coalizione e rivale
politico Benny Gantz non vogliono apparire deboli di fronte al
"terrorismo". Preferiscono il linguaggio della "deterrenza"
al linguaggio della speranza e del progresso. Temono che permettere alla
popolazione civile di Gaza di ritornare a vivere dignitosamente sarebbe
descritto come una ricompensa per Hamas e di conseguenza nuocerebbe al loro
consenso politico tra i rispettivi elettorati.
Ma Hamas non trarrebbe vantaggio dal fatto che Gaza
ottenga elettricità 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Né il suo governo autoritario
sarebbe influenzato negativamente se l'elettricità fosse ridotta a zero ore.
Quando gli abitanti di Gaza sono scesi in piazza per protestare contro il
deterioramento delle condizioni economiche nel 2019, Hamas ha represso
violentemente le proteste poiché le ha percepite come una sfida al suo governo.
Per Netanyahu e Gantz è esattamente il contrario: quando
Israele bombarda Gaza, aumenta la popolarità di Hamas come difensore di Gaza e
gli dà la possibilità di sfoggiare le sue armi e mostrare la sua resistenza
armata.
Siamo solo noi a sopportare tutto il peso di questa
cinica politica. L'approccio muscoloso di Netanyahu a Gaza può compiacere gli
elettori trionfalisti e massimalisti che trovano gratificazione nella sconfitta
palestinese. Ma sono sempre gli israeliani nel sud e i due milioni di civili di
Gaza a pagare il prezzo pesante di questa prova di forza. Serve solo a rendere
Gaza sempre più inabitabile e ad innescare recrudescenze più violente.
C'è un'altra spiegazione, più cinica, al modus operandi
di Netanyahu a Gaza: preferisce lo status quo, nonostante la sua violenza, a
qualsiasi altra alternativa, perché i violenti e occasionali sconvolgimenti che
interessano Gaza alimentano una grande narrativa che dipinge i palestinesi come
intrinsecamente violenti e "votati alla distruzione di Israele."
Finché Gaza rimarrà un esempio ammonitore, che Netanyahu può descrivere come
irrisolvibile, può continuare a sostenere che la fine dell'occupazione in
Cisgiordania o la perdita del controllo sulla valle del giordano la
trasformerebbe in un centro simile a Gaza per le attività violente di Hamas
contro Israele.
Israeliani: non fatevi ingannare. Siamo come voi.
Vogliamo solo una vita dignitosa e un futuro per noi stessi e per i nostri
figli. Uno sguardo attento alla situazione al confine meridionale di Israele, è
alla violenza che periodicamente esplode sotto forma di oggetti incendiari,
avvalorerà questa affermazione.
Muhammad Shehada è un editorialista che contribuisce per
il Forward. È originario di Gaza. Il suo lavoro è apparso anche in Haaretz e
Vice. È su Twitter @ muhammadshehad2
Trad: Beniamino Rocchetto
I palestinesi stanno costruendo un
villaggio sulla loro terra. I coloni armati di un avamposto illegale li stanno
sabotando - Gideon Levy
La vista
dalla collina è spettacolare. Una valle in fiore, boschetti e campi
verdeggianti con alcuni edifici sparsi qua e là , un pollaio e un porcile .
Il tutto racchiuso in quella che altrimenti sarebbe terra arida e
imbiancata. Ecco come appare la fioritura del deserto. Ecco come appare
l'apartheid israeliano.
Gli
irrigatori sono in funzione nel caldo mezzogiorno; non ci sono
problemi di acqua in questi campi. Tutto intorno, tuttavia, è solo sabbia
. Lungo le pendici della collina, come capre aggrappate alle
rocce, ci sono le comunità di pastori beduini della Valle del Giordano,
provenienti da Jahalin e altre tribù. Nelle tende e nelle baracche
migliaia di persone vivono senza acqua corrente o senza un
collegamento con la rete elettrica nel caldo torrido.
Le
campanelle delle pecore risuonano: i pastori pascolano il loro
bestiame qui dietro le colline perché sono terrorizzati dai coloni, che li
inseguono quasi dappertutto. Occasionalmente l'Amministrazione Civile del
governo militare emette ordini di demolizione e le baracche beduine vengono
schiacciate dai bulldozer israeliani, responsabili dell'applicazione della
legge.
Le comunità
di Al-Kaabneh, Rashidiya, Al-Maajath e Ras al-Auja stanno combattendo per la
loro sopravvivenza qui. Nulla di male succederà all'enorme
ranch nel cuore della valle fiorita con le sue case, i suoi campi, i suoi
boschi e i suoi animali. È palesemente illegale, ma a chi importa?
Questa è
Havat Omer (Omer's Farm), alias Einot Kedem. Fu fondata qui nel 2004 da
Omer Atidiah, un ex colono religioso di Moshav Ein Yahav e dal
suo partner, Naama, sulle rovine di una base militare abbandonata. Si è
allargata selvaggiamente a un ritmo incredibile. Ai gruppi di visitatori viene
ora offerta una strana varietà di programmi e attività. C'è "Desert
Lite" ("Per ascoltare la nostra storia + tè e munchies + tour a piedi
della fattoria"); “Tranquility in the Desert” (“La nostra storia + un
pasto nel deserto di fronte al paesaggio agricolo”); “Naama's Garden (“ Sito di
seminari e ospitalità per coppie ”); e persino "The Red Tent"
("Sito femminile sotto la luna"). Basta scegliere.
Una vera meraviglia, di proporzioni quasi miracolose, sta accadendo
sulle colline a est della fattoria, a nord di Gerico. Un sogno sta
assumendo forma materiale qui: i palestinesi stanno costruendo un nuovo
villaggio per se stessi, per i loro agricoltori e per i pastori beduini della
zona, sulle colline che dominano Einot Kedem da est.
Nel
frattempo, Omer Atidiah, con i coloni di Mevo'ot Yericho e di altre
comunità vicine, stanno facendo tutto il possibile per fermare e sabotare
i lavori di costruzione al fine di impedire ai palestinesi di costruire un
villaggio - Dio ci aiuti! - sulla propria terra, in un territorio
presumibilmente sotto il loro controllo. Eppure, meraviglia delle meraviglie,
sembra che questa volta la mano violenta dei coloni non vincerà e il
villaggio nascerà davvero.
Alcune settimane fa, l'organizzazione Regavim, il cui obiettivo è
"proteggere le terre nazionali di Israele", ha pubblicato una brusca
reazione sulla sua pagina Facebook ebraica Afferma che i
movimenti di terra si sono estesi oltre l'Area A (che per gli Accordi di Oslo
II è sotto il pieno controllo palestinese).
“Questo
accada grazie allo stato di Israele che chiude un occhio e alla sua grave
mancanza di determinazione. Quindi oggi abbiamo bloccato il lavoro.
Continueremo a rimanere sul campo per impedirne la ripresa ”
Sarebbe
difficile pensare a un'esibizione più impudente di ipocrisia e mancanza di
consapevolezza di sé quando si tratta di "chiudere un occhio" su
un trattore palestinese, mentre Einot Kedem, si estende su almeno
2.400 dunam ( 600 acri) - 4.000 dunam, secondo i calcoli dei palestinesi
. e non è mai stata intrapresa alcuna azione legale contro i coloni
.
Per quanto riguarda la legalità dei lavori un portavoce
dell'unità del Coordinatore delle attività governative nei Territori ha detto a
Haaretz : "Per quanto riguarda Havat Omer, la costruzione è stata
effettuata senza i permessi e senza le autorizzazioni necessarie".
"Quindi, quando la forza della legge verrà messa in pratica "? "L'applicazione
della legge verrà effettuata in conformità con i poteri e con le
procedure adeguate e soggette all'ordine delle priorità e delle
considerazioni operative."
Quando abbiamo
visitato questa settimana il futuro villaggio , enormi bulldozer sollevavano
nuvole di polvere a est di Einot Kedem, livellando l'area e preparandola per la
creazione del nuovo villaggio, ancora senza nome. I primi 200 dunam saranno
divisi e destinati ad ospitare centinaia di famiglie. Queste
famiglie sono membri della Jericho Association for Agricultural Aid, una sorta
di gruppo di investimenti immobiliari di fellahin palestinesi e pastori beduini
che stanno costruendo la nuova comunità con i propri soldi e senza aiuti
esterni.
Nel cuore profondo di questo luogo remoto e desolato un sentimento di
selvaggio West è rimasto sospeso in aria, sullo sfondo degli attacchi dei
coloni. È diventato ancora più intenso quando un furgone con targa
israeliana è apparso all'improvviso nell'area dove sono parcheggiati i
pesanti sollevatori di terra , nascosti dietro le colline in questo luogo
di fine mondo. Dal veicolo è uscito un giovane grassoccio e sorridente
con un cappello a tesa larga, che si è presentato come "Sufian
Sawaad di Dimona".
Ora la
fantasia è completa: un arabo israeliano, di ritorno da 13 anni in
esilio nella Carolina del Nord, che gestisce i massicci trattori a
cingoli D10 di proprietà di suo padre. Che cosa ha fatto all'estero? “Quello
che fanno tutti gli israeliani nella Carolina del Nord. Ho lavorato nei
chioschi del centro commerciale e con i cellulari ”, risponde ridendo al vento
del deserto.
Sawaad, che
è cresciuto a Dimona, ora vive a Shfaram, una città per lo più musulmana nel
nord di Israele. Insieme all'ingegnere Tahar Hanani, di Nablus, sta ora
costruendo un villaggio palestinese nella Valle del Giordano occupata e quasi
annessa. Anche lui ha sentito l'ira dei coloni.
Armati di
pistole e fucili spesso bloccano il suo passaggio lungo il sentiero
sterrato che conduce al cantiere, costringendolo a tornare indietro.
"Non abbiamo alcun problema con te, abbiamo un problema con gli
altri", gli dicono magnanimamente.
La scena si
ripete costantemente. I coloni affermano che i movimenti di terra sono
illegali, convocano l'esercito e l'amministrazione civile, l'ingegnere e
l'imprenditore mostrano loro sulle mappe che si trovano nell'area A e i coloni
se ne vanno. Sawaad dice che cerca di evitare scontri con loro, ma è spaventato
da loro .
Muwafek
Hashem è lo spirito commovente che alimenta questa impresa audace e
ambiziosa. Cinquantenne, membro di una delle comunità beduine nella zona di
Gerico, dirige l'associazione agricola che sta costruendo il villaggio sulla
terra di Waq. I rilievi sono iniziati nel 2017 e il lavoro in loco è stato
avviato l'11 settembre 2019. Il vento sparpaglia le mappe e le fotografie aeree
che ha portato per mostrarcele . Corre per recuperare i documenti e
riesce finalmente a raccoglierli tutti.
I coloni hanno convocato l'esercito il primo giorno di lavoro, ma dopo che
Hashem ha mostrato loro che il progetto era limitato all'Area A, gli è stato
permesso di continuare.
L'unità del
coordinatore delle attività governative nei Territori ha dichiarato a Haaretz
questa settimana: "I lavori di costruzione menzionati nella vostra
interrogazione vengono eseguiti nell'area A. Com'è noto, l'amministrazione
civile è responsabile solo dell' area C, secondo gli accordi di Oslo. La
costruzione palestinese non è , quindi, sotto la responsabilità
dell'amministrazione civile. "
In almeno
tre occasioni, dice Hashem, i coloni hanno puntato i fucili alle loro
testa. Una dozzina di volte hanno strappato i pali di acciaio installati
dai periti e gli operai hanno dovuto ricominciare tutto da capo. Sono stati
vandalizzati due contenitori di gasolio e quattro contenitori di acqua sono
stati rubati,ma lo spirito di Hashem è rimasto imperterrito . Due guardie
beduine sono sul posto ventiquattro ore su ventiquattro per sorvegliare
l'attrezzatura.,ma quando i coloni piombano con i loro minacciosi veicoli
fuoristrada, le guardie (che sono ovviamente
disarmate) scappano per salvare le loro vite sulle colline.
Le
abitazioni non saranno fatte di pietra,non ci sono soldi per quello - ma
saranno capanne e case mobili. Una grande sfida sarà quella di collegare il
nuovo villaggio alla rete idrica e alla rete elettrica . Non ci sono
finanziamenti esterni per il progetto, sottolinea Hashem, né dall'AP né
dall'Unione europea. Il finanziamento proviene interamente dalle 600 famiglie
dell'associazione. Il budget per i lavori è di circa 2 milioni di shekel
(circa $ 580.000) e la posa della linea di galleggiamento costerà un altro
mezzo milione di shekel.
Il piano per
la prossima tappa del sogno prevede la bonifica di 3.800 dunam di terra di Waqf
nell'area C (pieno controllo israeliano), che ovviamente a Hashem non sarà
mai permesso di fare. Nel frattempo, sogna le colture che cresceranno nel nuovo
villaggio: papaia, arance, limoni ecc. .
Questa
settimana tre enormi D10 stanno lavorando a pieno ritmo. L'ultima sezione di 10
dunam è programmata per la fine del lavoro . È la sezione più vicina alla
fattoria di Omer e hanno paura.
Articolo in inglese qui
“Quando non si ha pietà neanche dei morti, quando come
monito si decide di non restituire i loro corpi alle famiglie, allora vuol dire
che a morire in Terrasanta è l’umanità”.
Ad affermarlo in esclusiva a Globalist è Mairead
Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976. Nata a Belfast da
famiglia cattolica, Maguire, decise di dedicarsi alla pace nel suo paese dopo
che i tre figli della sorella furono investiti e uccisi da un’auto di cui aveva
perso il controllo un membro dell’esercito repubblicano irlandese, colpito poco
prima a morte da un soldato inglese.
A seguito di quella tragedia la sorella si tolse
la vita e Mairead fondò con Betty William, con cui ha condiviso il Nobel, il
movimento “Donne per la pace”. Maguire è stata anche presidente della
Nobel Women’s Initiative, la fondazione che unisce le donne insignite di questo
prestigioso riconoscimento. Maguire conosce molto bene le drammatiche condizioni
di vita dei palestinesi in Cisgiordania e, soprattutto, nella Striscia di Gaza.
La notizia è che Israele ha deciso di non restituire alle famiglie i resti dei
palestinesi uccisi negli scontri con le forze dello stato ebraico.
Il ministro della Difesa e capo della formazione
centrista Blu e Bianco, Benny Gantz, ha accolto con favore il via libera dato
al suo piano di non "restituire (alle famiglie) i corpi dei
terroristi". Fino ad ora il governo consentiva a Israele di conservare
soltanto i resti dei combattenti di Hamas, il movimento integralista islamico
al potere nella Striscia di Gaza, uccisi nei combattimenti che avevano
provocato vittime israeliane. La nuova direttiva estende questa misura ai corpi
di tutti i palestinesi, indipendentemente dalla loro affiliazione, uccisi negli
scontri con Israele, anche se questi scontri non hanno provocato vittime
israeliane, hanno spiegato le autorità.
“Questa decisione – commenta la Premio Nobel per
la Pace – va ben oltre il diritto di difesa invocato e praticato da Israele.
Non restituire alle loro famiglie i corpi di palestinesi uccisi negli scontri
con Israele, è qualcosa di disumano. Anche quando si è in guerra, esistono dei
codici di comportamento, normati dalla Convenzione di Ginevra, che riguarda la
restituzione dei nemici uccisi. Qui siamo di fronte all’ennesima punizione
collettiva che Israele infligge ai palestinesi”. Pietà l’è morta Questa nuova
misura fa parte del "nostro impegno a riportare a casa i nostri"
ragazzi, ha detto Gantz, riferendosi ai due ostaggi israeliani e ai due corpi
di israeliani nelle mani di Hamas, considerati merce di scambio per garantire
il rilascio dei detenuti palestinesi o il rimpatrio delle salme.
"Consiglio ai nostri nemici di afferrare e interiorizzare questo messaggio",
ha aggiunto Gantz, le cui osservazioni sono state criticate dall'ong israeliana
Adalah.
“La restituzione dei cadaveri dei nemici uccisi
è un dovere morale che riguarda tutti, anche Hamas – dice Maguire -. Sono da
sempre fautrice della disobbedienza civile e della resistenza non violenta. Ho
vissuto gli anni terribili della guerra in Ulster e la mia famiglia ha pagato
un prezzo pesantissimo in quel conflitto. Ho imparato allora la potenza del
dialogo, dell’unirsi per chiedere pace, perché l’altro da sé non venisse visto
come un nemico ma come qualcuno con cui incontrarsi a metà strada. . La pace,
per essere davvero tale, deve coniugarsi con la giustizia. Senza giustizia non
c’è pace. E non c’è pace quando un popolo è sotto occupazione, quando viene
derubato della sua terra o segregato in villaggi-prigione. Quello palestinese è
un popolo giovane, e intere generazioni sono nate e cresciuto sotto
occupazione, passando da un conflitto all’altro, senza speranza, con la sola
rabbia come compagna. E dove c’è rabbia, dove la quotidianità è sofferenza, è
impossibile che cresca la speranza”. Per aver sostenuto queste idee Corrigan
Maguire Maeread Maguire è stata ritenuta da Israele “persona non gradita”.
Definizione soft, per non dire nemica.
“Ho imparato sulla mia pelle cosa significhi
discriminazione e odio – dice la Nobel per la Pace -. Io mi sento amica
d’Israele e un amico vero è quello che prova a convincerti che stai sbagliando,
che proseguendo su una certa strada finirai male. È questo che provo a dire
agli israeliani: riconoscere il diritto dei palestinesi a uno Stato
indipendente, al fianco del vostro Stato, porre fine all’embargo a Gaza e alle
inumane punizioni collettive, è fare onore a voi stessi, alla vostra storia. È
investire su un futuro di pace che non potrà mai essere realizzato con le armi.
Lo ripeto: non si può spacciare l’oppressione come difesa. Questo è immorale.
La colonizzazione non favorisce la pace, ma alimenta l’ingiustizia. Da tempo
nei Territori vige un sistema di apartheid e denunciarlo non significa essere
‘nemica d’Israele’ e tanto meno antisemita. Significa guardare in faccia la
realtà”. Resta il fatto che la questione palestinese sembra essere uscita
dall’agenda, per rientrarci solo se essa viene gestita da attori esterni come,
per venire ai giorni nostri, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, o se è legata
ad episodi di terrorismo. È terribile il solo pensare che per “far notizia” si
debba usare l’arma del terrore. È una cosa terribile, contro cui continuerò a
battermi in ogni dove. La violenza è un vicolo cieco, un cammino insanguinato.
Ma cinque milioni di palestinesi non sono diventati tutto ad un tratto dei
“fantasmi”.
Non si sono volatilizzati. Continuano a vivere
sotto occupazione e sotto un’apparente “tranquillità” cresce la rabbia, la
frustrazione, sentimenti sui quali possono far presa gruppi estremisti. Per
questo occorre rilanciare il dialogo dal basso, favorire le azioni non
violente, la disobbedienza civile, e in questa pratica unire palestinesi e
israeliani, musulmani, cristiani, ebrei, come riuscimmo a fare noi in Irlanda
del Nord, marciando insieme cattolici e protestanti. E poi c’è la diplomazia,
la politica, che è fatta anche di atti simbolici che possono avere in
prospettiva un grande peso”. E un atto del genere, aggiunge Maguire – può
essere Il riconoscimento dello Stato di Palestina. “Un atto politicamente
forte, che faccia rivivere l’idea di una pace fondata sul principio ‘due
popoli, due Stati’. Sarebbe un bel segnale se fosse l’Europa, come Unione e non
solo come singoli Paesi membri, a rilanciare questa prospettiva. In nome di una
pace nella giustizia. La pace vera. Un mondo senza guerra e violenza è
possibile”.
Il crimine delle punizioni collettive Un esperto
delle Nazioni Unite per i diritti umani ha invitato Israele a porre
immediatamente fine al blocco di Gaza, aggiungendo che si tratta di una
“punizione collettiva” contro il popolo palestinese. Michael Lynk, relatore
speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, ha
definito il blocco che dura da 13 anni una “grave violazione contro i
Palestinesi” in una dichiarazione pubblicata dall’Ufficio dell’Alto
commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.
“Quanto sia devastante la politica di punizione
collettiva esercitata da Israele si può apprezzare appieno considerando il
blocco imposto da 13 anni a Gaza, che ora soffre per un’economia completamente
crollata, per le infrastrutture devastate e per un sistema di servizi sociali a
malapena funzionante” ha detto Lynk. “Queste pratiche comportano gravi
violazioni ai danni dei Palestinesi, tra cui il diritto alla vita, la libertà
di movimento, la salute, un alloggio adeguato e un livello di vita dignitoso”,
ha affermato Lynk. Israele ha imposto dal 2007 un blocco devastante su Gaza,
lasciando circa l’80% dei Palestinesi della Striscia praticamente dipendenti
dagli aiuti internazionali. Più di un milione di persone vivono con 3,50
dollari o meno al giorno. Il mare, una volta fonte vitale di reddito per i
residenti di Gaza, è soggetto a restrizioni in continua evoluzione sui diritti
di navigazione e di pesca.
Il sistema sanitario di Gaza è da tempo
sull’orlo del collasso, soffre per carenza di farmaci e materiali sotto il
blocco di Israele, mentre le strutture sanitarie sono stremate per le numerose
campagne militari israeliane. Una situazione resa oggi ancor più drammatica dai
primi decessi accertati per Covid-19. Il relatore speciale ha affermato che la
strategia di Israele per controllare la popolazione palestinese e i suoi
movimenti ha violato le regole fondamentali di ogni moderno sistema legale.
Lynk ha invitato Israele a interrompere immediatamente tutte le azioni che
equivalgono a “punizioni collettive contro il popolo palestinese, con milioni
di innocenti danneggiati quotidianamente e con l’unico risultato di tensioni
più profonde e un clima favorevole a ulteriori violenze”. La chiusura
israeliana di Gaza è un “affronto alla giustizia e allo stato di diritto”, ha
detto Lynk.
“Mentre la giustificazione di Israele per
imporre il blocco a Gaza era quella di contenere Hamas e garantire la sicurezza
di Israele, il risultato reale della chiusura è stata la distruzione
dell’economia di Gaza, causando una sofferenza incalcolabile ai suoi due
milioni di abitanti”, ha affermato il relatore.
“La punizione collettiva è stata chiaramente
vietata dal diritto internazionale umanitario ai sensi dell’articolo 33 della
Quarta Convenzione di Ginevra. Non sono ammesse eccezioni.” Il rapporto di Lynk
ha anche criticato la politica israeliana di demolizione punitiva delle case di
famiglie palestinesi. “Dal 1967, Israele ha distrutto più di 2.000 case
palestinesi, allo scopo di punire le famiglie residenti per atti che alcuni dei
loro membri potrebbero aver commesso, ma certamente non tutti loro”, ha detto.
“Questa pratica viola chiaramente l’articolo 53 della Quarta Convenzione di
Ginevra”, ha aggiunto. L’illegalità impunita “La Palestina - annota Fulvio
Vassallo Paleologo, avvocato, componente della Clinica legale per i diritti
umani (Cledu) presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di
Palermo -è stata il primo territorio nel quale si è sperimentato come i diritti
umani proclamati dalle Convenzioni internazionali e dalle Carte costituzionali
potessero essere violati impunemente in base ai rapporti di forza tra gli
stati, ed agli interessi economici delle multinazionali più grandi. Dalla
guerra fredda alla globalizzazione nessun popolo ha subito una serie tanto
rilevante di violazioni dei deliberati delle Nazioni Unite, inflitte dallo Sato
di Israele, e coperte dagli Stati Uniti.
Gli uomini di pace come Rabin, che pure
all’interno di Israele si erano battuti per una prospettiva di pace, non sono
stati sconfitti politicamente ma uccisi con le armi in attentati che hanno
segnato la vittoria dei metodi terroristici per modificare le linee di governo
e la natura stessa di uno Stato.
Le violazioni dei diritti umani in Israele, ai
danni del popolo palestinese – rimarca il professor Vassallo Paleologo - sono
state nascoste da chi ha professato una finta equidistanza, e poi supportate da
chi ha avallato la politica israeliana della ‘soluzione finale’, della
liquidazione di qualunque prospettiva di rilevanza politica della Palestina, e
dei rappresentanti del popolo palestinese, sia nei territori occupati che nelle
città che restavano autonome. Il processo di pace che aveva suscitato tante
speranze è ormai sepolto, rimane solo la prospettiva di una dittatura militare
sulla popolazione palestinese esercitata da uno Stato che si continua a
dichiarare ‘democratico’. Sono decenni che la pratica degli arresti arbitrari,
della tortura anche ai danni di minori, della violenza istituzionale,
caratterizza sia le fasi di tregua che i momenti di conflitto più acuto, quando
si spara da entrambe le parti. Ma la violenza non è simmetrica, sia per la
intensità di fuoco che per le ragioni che vi stanno dietro.
Da una parte si continua a violare impunemente
quanto deciso nei documenti adottati dalle Nazioni Unite, dall’altra si rimane
impigliati in un reticolo di alleanze fluttuanti condizionate dalle opportunità
economiche e dagli interessi geo-politici del momento. Le divisioni nel mondo
arabo allontanano le prospettive di pace”. Cosi come l’allontanano misure
disumane come quella adottata ieri da Israele. PS Di tutto ciò non c’è notizia
sui “grandi” giornali.
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