Non abbiamo voluto crederci. Ci aveva avvertito, oltre vent’anni fa, il defunto subcomandante Marcos, ma non abbiamo voluto dargli
ascolto. Ci sembrò una metafora utile per l’analisi, non quel che era, un
avvertimento. Siamo di fronte a
una guerra. Non possiamo continuare a comportarci come se non lo fosse o non ci
toccasse direttamente.
La guerra ha aspetti apertamente criminali. Il Messico è già il paese più violento del mondo, in particolare
per certe categorie di persone, come i giornalisti, i dirigenti sociali e i
difensori dei diritti umani. Con l’attuale amministrazione (quella progressista
guidata da Andrés Manuel López Obrador, AMLO, ndt), si verificano già quattro assassinii ogni ora.
Zone sempre più ampie del paese vengono controllate con la forza. In alcune di
esse a farlo sono i cosiddetti “cartelli”, che distribuiscono risorse o
impongono il coprifuoco. In altre c’è la Guardia Nazionale, che ha un numero di
effettivi tre volte superiore a quello della guerra di Calderón,
oltre alle forze paramilitari e alle squadre d’assalto. Alcune di queste sono
una metamorfosi grottesca di organizzazioni sociali, come quelle che hanno appena attaccato le
basi di appoggio zapatiste; altre sono frammenti agguerriti usciti dai
sindacati confederali, che controllano lo stesso opere pubbliche e sistemi di
trasporto. Nulla di tutto questo,
naturalmente, si considera corruzione. Viene consentito e promosso dal governo.
La guerra modifica le relazioni sociali e i
modelli di vita. Riduce le modalità classiche della condizione operaia ed
emergina il sindacalismo, che negli Stati Uniti è già tornato ai livelli degli
inizi del XX secolo. In Messico la guerra ha smantellato le nostre capacità produttive
mediante il “libero commercio”, che fu siglato da Salinas (il presidente che
allora AMLO indicava come “il capo di tutte le mafie”, ndt) e si è
approfondito lo scorso anno (con AMLO presidente, ndt) con grande
entusiasmo di Trump. I lavoratori del settore manifatturiero si trovano soprattutto
nelle maquiladoras, nelle quali prevalgono le donne, molte di loro
indigene.
Dagli anni Novanta la guerra ha creato una nuova classe sociale: gli
scartabili, coloro che mai vorrà impiegare o usare il capitale. La Banca
Mondiale ha progettato, per loro, quelli che saranno di troppo, programmi che
li manterranno sotto stretti livelli di sussistenza e permetteranno loro di
compiere qualche funzione di consumo. Nell’amministrazione del governo di AMLO chiamano questo programmi
sociali.
Già nel 2003, il defunto Marcos sembrava anticipare la forma-pandemia di
praticare la guerra, quando descriveva la nuova forma del complesso
industriale: “Alcune pecore si tosano e
altre vengono sacrificate per ottenere alimenti, le “inferme” vengono isolate,
eliminate e ‘bruciate’ perché non contaminino il resto“. In questa
guerra, “la dignità, la resistenza, la solidarietà, disturbano”. Non si
distrugge fisicamente il genere umano, però lo si distrugge “in quanto essere umano”. Non sono
solo i funzionari etnocidi e i sicari a perdere la condizione umana. La perdono anche coloro che si attaccano a
dispositivi elettronici che li formattano e li controllano. Nel 2011,
poco prima di morire, in una lettera a Luis Villoro, il defunto Marcos mostrava
come si impone la paura, l’incertezza e la vulnerabilità, una imposizione che
da gennaio ha preso la forma pandemia e ha provocato l’esercizio
dell’obbedienza passiva più grande della storia umana, per imporre condotte che
dissolvono l’umano. Il confinamento esaspera tutti gli individualismi. La
mascherina impedisce di vedere le persone sorridere.
La guerra ha trasformato in nemici le persone di uno stesso settore
sociale, nel quale si potevano condividere interessi, essere amici, compagni.
Sono, in primo luogo, i desaparecidos che si vedono obbligati
ad agire come sicari, oppure coloro che nella vita non trovano altra opzione
che una forma di delinquenza, ma sono anche quelli che affidano le proprie
illusioni all’apparizione di un qualche messia e poi trasformano in nemici
quelli che non ne condividono la fede. Altri ancora formano le onde contrapposte di quello che oggi si chiama
“polarizzazione” e che in paesi come gli Stati Uniti prende già forme di guerra
civile.
Fin dal 1997, però, lo scomparso Marcos aveva aperto la porta alla
speranza. “L’impero delle borse finanziarie affronta la ribellione delle borse
della resistenza”, diceva. E aggiungeva: “Se l’umanità ha ancora speranze di
sopravvivenza, di essere migliore, quelle speranze sono riposte nelle borse che
formano gli esclusi, gli avanzi, gli scartabili”. (Per questa e tutte le
citazioni precedenti: Le 7 tessere ribelli del
rompicapo globale – La IV guerra mondiale è cominciata a cura
di Camminar Domandando).
Nel 2019 quelle borse si
stavano moltiplicavano già da ogni parte. Estese mobilitazioni hanno
scosso molti paesi. Si sono formati collettivi sempre più autonomi, che presto
si consolideranno come nuclei molto solidi di resistenza. L’8 di marzo di quest’anno la
speranza ha acquisito un significato nuovo, di peculiare radicalità. Le donne hanno fatto il passo avanti. Hanno
rotto coraggiosamente la presunta “normalità” patriarcale, quella che per
migliaia di anni ha “naturalizzato” la gerarchia maschile e il suo esercizio
violento e distruttivo. Con loro, dal basso e a sinistra, si tesse ogni giorno
il limite della guerra e si creano piccole isole di vita nelle quali entrano
ancora il piacere e la speranza, sebbene intorno continuino a
perseguitare la pandemia e la violenza, in questa guerra opprimente che sembra
senza fine.
Fonte: La Jornada. Titolo originale: Aprender guerra
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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