– A che serve pensarci? E’ andata così. Inutile fare i
filosofi e tirar fuori le verità universali, esclamò Francesco, avvilito.
Queste cose le fanno gli storici che vendono parole al miglior offerente.
Raccontano guerre e battaglie, ricordano generali, date e campi di
battaglia, ma cancellano i soldati, le popolazioni colpite, le donne, gli
uomini e il dolore. E’ così che la storia diventa la scienza dell’inganno. Mi
ricordo di uno che una sera alla tele parlava dell’Asiento…
– L’Asiento? E cos’è?, chiese Lucia, incuriosita.
– E’ una parola affascinante, lo so, ma ha un
significato terribile. Si parlava di grandi Stati, quelli che chiamano “fari della civiltà”, e tu capivi che c’era stata guerra
tra loro per il possesso di questa cosa che pare una musica: l’Asiento. Presto
però venne fuori che si trattava del monopolio degli
schiavi, un affare miliardario, che ognuno voleva tutto per sé: sovrani,
imprenditori, proprietari terrieri, militari. La grande assente era la sofferenza
degli sventurati venduti a milioni a questo o a quel padrone.
– Bestie e mercato, Francè, osservò Lucia.
E su queste parole il discorso s’inceppò. Pareva che
d’un tratto Francesco avesse indossato la sua vecchia tuta blu, logora e stinta, che gli intristiva
inspiegabilmente il viso tutto occhi neri sotto una nuvola di capelli bianchi.
– Bestie e mercato, ripeté Lucia, oppressa dal
silenzio. Nessuno ce la racconta mai così questa infamia che chiamano storia.
Francesco, però, continuava a stare zitto. Giocherellava
nervoso con la forchetta, davanti al bicchiere di vino rosso, gli occhi rivolti al televisore acceso sul
dibattito dell’ultima ora. C’era un’intervista all’immancabile neoliberista
travestito da studioso e il conduttore lo presentò con l’etichetta scientifica
con cui da tempo si vestivano a festa i teorici dello sfruttamento: un
giuslavorista.
– Lo scienziato del cazzo! urlò all’improvviso Francesco, terremotando il
tavolo con un terribile pugno. Giuslavorista! E che pensi, tu, che ci siamo
tutti rincoglioniti? Te la cavi perché le tue carognate vai a dirle là, dove
nessuno ti dice chi sei! Ma io ti conosco e lo so quanto vali!
Lucia sobbalzò.
– Ma che c’è? Un bicchiere solo e il vino ti va già
alla testa? E chi sarà mai questo qui, che per poco non sfasci il tavolo! Ma ti
pare questo il modo, scusa? M’hai spaventata! Non sarà stato lui che t’ha
mandato a casa!
La moglie, sbiancata a vederlo così esasperato, lo
fissava, scuotendo la testa. Si vedeva ch’era stata bella da giovane e aveva
ancora una luce vivissima negli occhi inquieti, che sembravano specchio del
mare. Anche le mani, che nell’evidente agitazione s’erano unite come in
preghiera, avevano l’eleganza naturale di due danzatrici levate sulle punte
alla ricerca del cielo. Da quanto tempo la durezza d’una vita di stenti
impediva a Francesco di stringerle come un tempo, quelle mani, con la forza
della passione e l’infinita dolcezza che l’aveva incantata in quel gigante che
metteva paura solo a guardarlo? A questa domanda Lucia non avrebbe saputo
rispondere, ma non ce l’aveva con lui. Non poteva. Gli avevano fatto così tanto
male, che s’era chiuso in se stesso e non lasciava spazi per la tenerezza.
Aveva paura di farlo, Lucia lo sentiva. Paura di cedere di schianto, di
cominciare a piangere e non riuscire più a smettere. E le tornavano in mente il
padre cupo e taciturno, negli anni della sua infanzia e la madre che ripeteva
ogni tanto una frase di cui solo ora riusciva a cogliere il significato
profondo e il dolore che nascondeva:
– Se a un uomo togli il lavoro, figlia mia, prima perde la sicurezza in se
stesso, poi si vergogna come fosse un ladro.
Di questa Waterloo dei
sentimenti non parlano mai gli esperti nelle loro inutili interviste. Eppure è
così che va: dopo la rabbia per l’ingiustizia, le rinunce cancellano i sogni. I
libri e i giornali sono pieni di pagine sul prodotto interno lordo, sui titoli,
le oscillazioni della Borsa, le importazioni, le esportazioni, ma di questa
Caporetto della vita, della miseria che mette in crisi l’intimità delle coppie,
delle innumerevoli famiglie travolte dalle “reazioni” del mercato, di tutto
questo non si cura nessuno.
– Privilegiati, ripeteva intanto, ossessivo, l’esperto, con una sicumera
provocatoria che gli veniva probabilmente dalla triplice veste di avvocato,
studioso e senatore. Privilegiati,
continuava; lui, proprio lui che, saltabeccando di qua e di là e fiutando il
vento, aveva messo assieme una pensione da parlamentare, una da ordinario di
diritto del lavoro nelle università ridotte alla bancarotta e i cospicui
introiti dello studio legale ereditato dal padre. Francesco lo ascoltava e sul
viso largo e onesto si vedeva la nausea.
– Privilegiati e super tutelati, sì. Ma che pretende
la Fiom? E’ ora di finirla, occorre mettere sullo stesso piano padri e i figli.
Ce l’aveva coi metalmeccanici e si capiva bene,
nonostante le cortine fumogene, che la sacra furia egualitaria aveva lo sguardo
tutto volto in basso.
– Bisogna riconoscerlo, insisteva, abbiamo vissuto al
di sopra delle nostre possibilità ed è tempo di piantarla con la difesa di
interessi corporativi. Tutelare tutti significa riconoscere che occorre ridurre
i salari per sostenere chi non lavora, consentire libertà di licenziamento e
mano libera all’iniziativa degli imprenditori.
Francesco sbottò, quasi fossero uno di fronte
all’altro e, a onor del vero, fu molto più preciso e concreto del presunto
esperto.
– Il professore dovrebbe saperlo. Quando a decidere
erano i padroni del vapore, c’era la Costituzione, ma si
licenziava chi dava fastidio. Nei primi anni della Repubblica ci sono stati sessantacinque morti
ammazzati in piazza. In Francia solo tre, senatore. Uno, due e tre! E una legge
da noi, nel 1974, ha riconosciuto che più di quindicimila lavoratori e
lavoratrici avevano subito persecuzioni politiche. Peggio che durante il
fascismo! E c’è voluto lo Statuto dei lavoratori per
fermare questa maledizione. Ora non c’è più e avete ricominciato.
L’esperto, però, che non poteva ascoltarlo, continuava
imperterrito:
– Occorre un sindacato realista.
La libertà di licenziamento è necessaria a un Paese
civile.
– E in cambio? – chiedeva con aria garbata il conduttore, senza nulla obiettare
– in cambio che propone ai lavoratori?
– In cambio gli imprenditori si impegneranno a
formarli e a ricollocarli.
Da queste ricette miracolose il giuslavorista aveva
ricavato premi, notorietà e quattrini. Stava a sinistra, ma a destra
l’avrebbero accolto coi tappeti rossi.
Francesco fremeva. Aveva sputato l’anima alla catena di montaggio e poi
l’avevano mandato a casa. Troppo presto per la pensione e troppo tardi per
riciclarsi nella giungla che l’esperto
chiamava “mercato del lavoro”. Per questo suo dramma, però, come
per tutti gli altri problemi dei lavoratori, il giuslavorista diceva di avere
già pronte le soluzioni. Le aveva presentate al Parlamento come progetto di
legge. Una riforma organica, sosteneva, ma a Francesco, che se ne intendeva,
pareva solo un imbroglio ben congegnato. Secondo l’operaio
non ci voleva molto a capire com’era andata: i padroni avevano
dettato, lo studioso aveva rinnovato l’impianto ch’era vecchio come Noè e alla fine aveva messo la sua illustre
firma. A Francesco toccava solo pagare, come da anni, del resto. I lavoratori
pagavano anche la scorta armata che proteggeva l’esperto.
L’operaio s’era calmato. Il volto pallido e pensoso
della moglie lo aveva ipnotizzato e non gli accadeva da anni. La donna – chissà
perché Francesco se ne accorgeva così tardi – aveva perso la sua battaglia con
la trama sottile delle rughe, ma il volto, ancora così dolce e le labbra
sensuali, gli facevano venire in mente gli anni della giovinezza. Per non darla
vinta a una tentazione che temeva disperata, indicò col dito l’esperto e
sussurrò:
– E’ lui che dovevi sposare, Lucia. Lui, non un
disgraziato come me. Chissà che vita che faresti… Te lo ricordi, quando ti
veniva appresso?
– Ma chi mi veniva appresso, Francé? – replicò la
moglie irritata e stupita. A te questo licenziamento ti sta facendo veramente
male. Di chi parli? E poi, se siamo a questo e ci tieni a saperlo, te lo dico.
Io non avrei dovuto sposare nessuno. Il matrimonio è la tomba dell’amore e
seppellisce soprattutto le donne…
Voglia di litigare Francesco non ne aveva. Più
guardava la donna, più sentiva un gran desiderio di abbracciarla e più si
rendeva conto di quanto feroce fosse stata la vita. Troppi stenti, troppa
fatica, pensò, e non si fermò sulle parole della moglie che gli avevano fatto
più male di uno schiaffone dato a tradimento.
– Davvero non te lo ricordi? Guardalo. Era con noi
alla Fiom. Paolo, si chiamava. Come fai a non
ricordare? Un dirigente giovanissimo, che s’accendeva come un cerino e ripeteva
sempre la stessa canzone…
– Un sindacato di lotta, contro i moderati e contro i
padroni…, sussurrò, come folgorata, Lucia, mentre si avvicinava incredula al
televisore. Guardò l’esperto per un lungo minuto, scosse la testa, poi si girò
verso il marito:
– Paolo, sì. Ora me lo ricordo anch’io. Come hai fatto
a riconoscerlo?
– Non è cambiato molto. E poi, come non ricordare?
L’autunno caldo, piazza Fontana, gli anni di piombo, le strade come campi di
battaglia. E lui con noi. Astratto, come oggi, ambiguo, ma con noi. Sta a
sentire, ascoltalo: col sindacato o contro il sindacato. Dei lavoratori non
parla mai. Oggi dice mercato come ieri diceva lavoro, ma di chi fatica, di chi
stenta ogni giorno in fabbrica e si logora, spremuto come un limone, non
capisce nulla. Se ne andò dal sindacato per passare al Partito, mi ricordo. Quattro anni, in Parlamento,
stipendio comunista, soldi quanti ne vuoi e se la prende coi privilegiati…
Come in trance, Lucia
ascoltava il marito e la storia incredibile del giuslavorista che si fa dieci
anni di Camera del Lavoro alla Cgil, rappresenta i
metalmeccanici, ma non è metalmeccanico e quando parla per loro non sa di che
parla.
– In Parlamento, proseguì
Francesco, finì naturalmente alla Commissione Lavoro e tornò ad occuparsi di
lavoratori. Lo sai com’è andata, no? Quanti ne abbiamo avuti di compagni così!
Tutti allo stesso modo: più salivano su, più si accorgevano di poter contare,
più facevano le amicizie giuste e più cambiavano pelle. Questo qui non s’è
lasciato mai sfuggire un’occasione.
– Che ha fatto nella vita?
– In Parlamento ha sfruttato leggi e leggine e ha
trasformato in lavoro la sua collaborazione col sindacato. Una dichiarazione
della Cgil ed ecco che sulle spalle dei lavoratori sono finiti i costi di
contributi che nessuno ha mai versato. Poi è passato all’università. Sai come
accade, no? Porti la borsa all’uomo giusto nel momento giusto e ti fanno
professore.
– Lo senti? interruppe Lucia. Ce l’ha coi fannulloni.
Ce l’ha con me e con te che siamo rimasti metalmeccanici…
– Certo – sorrise Francesco – lei, signora, non faccia
l’innocente, lo sa bene che ha contribuito ad affondare il Paese…
Lucia non rispose, ma aveva negli occhi la luce dei
vent’anni.
– Però non è felice, esclamò d’un tratto. Guardalo,
sembra livido. Uno così, non è in pace con se stesso. Non mi ricordo più di
come sia andata tra noi…
– Tra me e te?
– Ma che dici, Francè? Tra me e lui.
– Cercava una compagna… disponibile.
– Una puttana, dici?
– Pensava che tu ti vendessi.
– E’ così. Misuriamo gli altri da noi stessi.
– Sì, più siamo marci, più riteniamo che sia marcio il
mondo…
Paolo, l’esperto, era tornato intanto su una tesi che
gli stava più di tutte a cuore e ripeteva come un vecchio disco incantato:
– Se si consentisse agli imprenditori di licenziare, si potrebbero tutelare meglio gli
interessi dei lavoratori. Il sindacato è su posizioni di assurda conservazione.
Sono i limiti culturali della sinistra.
Lucia fece appena in tempo a commentare:
– Non dico una bella cosa, lo so, ma per forza ci
vuole la scorta…
Francesco la guardava come non capitava da tempo.
– Non gli basterà, la scorta. Faremo la rivoluzione…
– Come avessimo vent’anni, Francè… sussurrò Lucia con un tremito nella voce, mentre
la luce s’abbassava e la televisione d’improvviso taceva con uno zig zag
luminoso e un impercettibile fruscio.
– Sì, proprio così, come avessimo ancora vent’anni…
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