martedì 1 settembre 2020

Diseredati - Hatim Kanaaneh

 


Ormai da anni, ogni mattina studio Haaretz per valutare l’opinione pubblica in Israele. La versione in inglese con una selezione degli articoli mi viene consegnata a casa quotidianamente assieme al New York Times internazionale.

Questa mattina [la scorsa settimana], una foto di una decina di studenti maschi ebrei ortodossi con mascherina (come per il COVID-19) in una classe occupa la parte centrale della prima pagina del giornale. Un ritratto di Golda Meir è appeso sopra il gruppo e, accanto al ritratto nella foto, c’è in evidenza la citazione ebraica:

«Se non fosse stato per lo studio del giudaismo, saremmo stati come tutti i goy che c’erano una volta ma ora non più …»

Questo mi mette al posto mio. Quasi a riconfermare la mia irrilevanza nell’arena mediorientale, il titolo principale del giorno annuncia:

“Kushner: Israele non farà annessioni senza il nostro consenso, e questo non ci sarà per «un po’ di tempo»“

Nessuno sembra prendere in considerazione la mia presenza palestinese. Immagino di essere incluso nel genere “tutti i goy che c’erano una volta ma ora non più”.

Ho la gola secca. Vado in cucina per un bicchiere di acqua fresca. Per rassicurarmi, guardo sul piano della credenza la mostra di foto delle varie combinazioni dei miei cinque nipoti. Quale impurità! Arabi, cinesi, giapponesi, caucasici, ebrei e chissà cos’altro. Basterebbe solo il mio personale amalgama di tutti gli storici invasori della Palestina nel corso dei millenni che hanno depositato i loro disparati geni nel mio albero genealogico. Hanno lasciato in alcuni miei fratelli e sorelle imprevedibili occhi color miele, o capelli chiari per impreziosire la dominante pelle olivastra e il naso prominente o adunco che potrebbe smentire l’accusa di goy lanciata contro noi palestinesi.

O forse voleva essere un insulto religioso? Sono ancora più lontano dall’essere religioso che dall’avere una coscienza di razza. Potrebbe essere a causa del mio cognome rivelatore, la forma araba di Cananea. Vai a capire!

Altri due titoli in prima pagina riguardano i principali grattacapi israeliani attuali, COVID-19 e la svolta diplomatica con gli Emirati Arabi Uniti. Un terzo titolo sembra meno familiare e ho letto:

“L’IDF ha grandi progetti…”

Mi suona futuristico, un’esplorazione fantascientifica di ciò che l’esercito israeliano metterà in commercio in futuro sulla base dei suoi test di armi fatti sul campo a Gaza: droni con un nuovo livello di intelligenza artificiale per mutilare e uccidere irritanti umani usa e getta. Una rapida occhiata conferma il mio sospetto con l’aggiunta di un cenno a Beirut e Hezbollah come possibili obiettivi aggiuntivi.

Questo è tutto per oggi, penso. Finché non mi fermo per un caffè a casa di un amico. Nessuna preoccupazione! Entrambi manteniamo la distanza sociale, indossiamo mascherine e sorseggiamo il nostro caffè nella brezza di una veranda aperta.

Si dà il caso che anche lui studi Haaretz. Ma è abbonato alla versione originale in ebraico. Questa ha 12 pagine mentre la mia copia inglese solo otto. Parlo correntemente arabo, ebraico e inglese. Una rapida occhiata mi rivela che la versione inglese salta diversi elementi che l’editore deve ritenere di scarso interesse per chi non parla ebraico. Insisto nella mia esplorazione e a pagina 8 trovo un articolo molto interessante con il titolo (mia traduzione):

Senza coordinamento, l’IDF ha trasformato un antico oliveto in Alta Galilea in un poligono di tiro“.

Olive in Galilea! Ovviamente si parla di me. Prendo tempo e continuo a leggere. L’articolo inizia con la descrizione romantica dell’oliveto “vandalizzato” come “un sogno pastorale di olivi antichi cresciuti sul ripido pendio accanto a mandorli e melograni [con un ruscello alimentato] da una sorgente che rifiuta di prosciugarsi”.

 

 

Le mie fonti fanno risalire al 1949 l’istituzione dell’insediamento esclusivamente ebraico di Amuka, sulle terre del villaggio palestinese di A’mka (vedi resti della moschea sopra), nome derivato apparentemente dall’ebraico o aramaico per ‘valle’, ovviamente dalla stessa radice della parola araba per “profondo”. La località è menzionata da secoli dagli storici e persino identificata da una scuola costruita dal sistema ottomano nel 1887.

Ma l’articolo di Haaretz ad uso e consumo israeliano data l’insediamento di sette famiglie nel villaggio ebraico intorno al 1980.

Nonostante questa superficiale prospettiva storica, la famiglia ebrea intervistata nell’articolo mostra un attaccamento ‘profondo’ al campo che l’Autorità per la Terra di Israele le ha assegnato sulla base di un contratto di locazione annuale rinnovabile: “È una fonte di reddito ma anche uno stile di vita”, dice la moglie, “uno stile di vita che stanno per troncare.” Il marito aggiunge: “Maiali selvatici, porcospini e studenti della Bibbia che girano qui intorno… Sono 38 anni che lavoro qui. Sono unito al luogo con le gambe e tutto il mio corpo. Sono innamorato di questo posto. E’ terapia d’azione. Conosciamo ogni pietra qui … ”

Come palestinese, leggere l’articolo mi lascia con un senso di surrealismo. Vorrei gridare al tipo: “Puoi ‘conoscere ogni pietra qui’. Ma la domanda è: le pietre conoscono te? Avanti! Lanciamene qualcuna. Scommetto che le pietre si allontaneranno dal mio corpo! Noi ci conosciamo molto meglio di quanto pensi! Poi non dare la colpa a me se misteriosamente si girano e ti colpiscono in testa.”

Sono nato e cresciuto con olive e pietre tutto intorno a me. A poca distanza dal luogo dove si svolge il dibattito oggetto dell’articolo ci sono altri, non meno umani, credimi, che sono l’attuale anello nella lunga catena di eredità spezzata di quei campi di ulivi, per quanto tempo solo Dio lo sa, e che ora sopravvivono con donazioni come rifugiati oltre confine o con la paga di un lavoro umile negli insediamenti ebraici come Amuka. Sono stati diseredati come sfollati interni “attuali assenti” per mano dello stesso IDF che ora assegna ai suoi veterani israeliani le loro olive a volontà.

Ho cugini nei campi profughi nel sud del Libano provenienti da questa stessa area. Vivono ancora un vivido “sogno pastorale di olive antiche” e ruscelli che rifiutano di prosciugarsi.

 

Hatim Kanaaneh è un medico palestinese che ha lavorato per oltre 35 anni per portare assistenza medica ai palestinesi in Galilea, contro una cultura di discriminazione anti-araba. È autore del libro A Doctor in Galilee: The Life and Struggle of a Palestinian in Israel. La sua raccolta di racconti dal titolo Chief Complaint è stata pubblicata da Just World Books nella primavera del 2015.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org

 

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