L’altare al Pergamonmuseum di Berlino pare qualcosa che precede l’uomo. La Gigantomachia, in effetti, sembra profezia in marmo, dove serpe e dio, leone e tormento, gloria e punizione sono intrecciati in evidenza, appunto, disumana. È come il dispiegarsi della storia, il caos a zanne, sulla fatua volontà umana. Davanti all’altare di Pergamo, del II secolo prima di Cristo, s’innalza uno dei romanzi più clamorosi del secolo scorso, Die Ästhetik des Widerstands, “Estetica della Resistenza”, pubblicato in tre tomi (usciti rispettivamente nel 1975, 1978, 1981), scritto da Peter Weiss. Fu un evento. Sconvolgente. Di cui noi non abbiamo compreso la forza, l’impeto, l’importanza. Come se ci avessero negato, chessò, la ‘Recherche’ di Proust, i libri di Thomas Mann, quelli di Philip Roth.
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Peter
Weiss (1916-1982),
presumo, lo conosciamo tutti: è il grande, contradditorio, centrale drammaturgo
tedesco di La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat e L’istruttoria. Un
tempo Weiss era molto tradotto, di solito da Einaudi, da Feltrinelli, da
Cronopio. Qualcosa si trova ancora. Tra i testi da tradurre, forse sfiziosi, c’è il carteggio con Hermann
Hesse, che ha legato i due dal 1937 al 1962, è edito da Suhrkamp. Beh,
io non ne sapevo nulla finché Giovanni Pacchiano, studioso e lettore
fenomenale, non mi ha lanciato l’amo. “Sto leggendo in francese L’esthétique
de la résistance… lo trovo straordinario e ricco di spunti”.
Cerco. In Francia lo traduce Klincksieck, il romanzo conta
quasi 900 pagine. Tre anni fa “Le Monde” lo ha inserito in una
aristocratica classifica di “grandi romanzi da riscoprire”. “Questo è un romanzo di culto… una delle
opere fondamentali della letteratura del XX secolo… spesso comparato alla
‘Recherche’ di Proust e all’Ulisse di Joyce”, leggo tra le note. Parole,
parole, parole. Calco il giudizio di W.G. Sebald, allora: “Peter Weiss ha
cominciato a scrivere Estetica della Resistenza quando aveva
più di cinquant’anni, compiendo un pellegrinaggio tra gli aridi meandri della
storia culturale contemporanea, accompagnato dal terrore notturno, carico di un
mostruoso peso ideologico. Siamo al cospetto di un capolavoro, che non è
espressione di effimero desiderio di riscatto, ma di una volontà di stare, alla
fine dei tempi, dalla parte dei vinti”.
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Mi muovo in ambito anglofono. The Aestethics of Resistance è
pubblico dalla Duke University Press, dal 2005. Il secondo
volume della trilogia è uscito quest’anno. In questo modo Robert Cohen cerca di centrarne
la ‘trama’: “Estetica della Resistenza inizia con un’assenza. Manca
Eracle, il grande eroe della mitologia greca. Lo spazio occupato un tempo
dall’enorme fregio che raffigurava la battaglia dei Giganti contro gli dèi è
vuoto. Più di duemila anni fa, quel fregio adornava le pareti esterne del tempio
di Pergamo, in Asia Minore. Verso la fine del XIX secolo i resti dell’antico
monumento furono scoperti dall’ingegnere tedesco Carl Humann, quindi spediti in
Germania. I frammenti ricomposti nel Pergamonmuseum, costruito appositamente a
Berlino, capitale della Germania guglielmina, sono l’emblema delle
rivendicazioni del potere imperiale tedesco. Nell’autunno del 1937 tre giovani
sono davanti al fregio. Due di loro, Coppi e il narratore, il cui nome non è
mai menzionato, sono lavoratori. Il terzo, un sedicenne di nome Heilmann, è
ancora studente. Coppi è un membro dell’illegale Partito Comunista, Heilmann e
il narratore sono simpatizzanti. Tutti e tre militano nella resistenza
antifascista. Durante una lunga discussione, i tre amici tentano di interpretare
gli eventi raffigurati nel fregio in relazione al loro impegno nella lotta
politica quotidiana. Eppure, non riescono a rintracciare Eracle. A parte un
frammento del suo nome e la zampa in pelle di leone, nulla resta del
condottiero degli dèi nella battaglia contro i Giganti. Il ‘capo’ del 1937,
d’altronde, è una forza onnipresente, anche nelle sale del Pergamonmuseum, dove
i soldati delle SS si aggirano, con le insegne naziste ben visibili, tra i
visitatori. Sotto la pressione del presente, vite in perpetuo pericolo, i tre
antifascisti leggono lo spazio vuoto del fregio come un presagio”. Estetica
della Resistenza è un romanzo europeo, del pensare: discute Marx e
Picasso, si muove tra Germania, Francia, Spagna, ragiona su alcune opere
emblematiche, il tempio di Angkor Wat in Cambogia, Dürer, Géricault, il
dadaismo, il ‘realismo socialista’. Le fonti letterarie principali di Weiss
sono la Divina Commedia e Franz Kafka.
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Un frammento
dalla descrizione dell’altare di Pergamo, per capirci. “Tutto intorno a noi si elevano corpi di
pietra, si ammassano in turbe, si intrecciano e si spaccano in frammenti,
accennando ai loro corpi con un busto, un braccio, l’anca esposta, un vortice
di schegge, sempre in gesti di guerra, mentre schivano, colpiscono, si riparano,
allungati e ripiegati, piedi che scattano, schiena contorta, polpacci
imbragati, il tutto in un unico oceanico moto. Una lotta gigantesca, abnorme
emerge dal fondo grigio, richiamando la perfezione, sprofondando
nell’informe. Una mano si spalanca dal suolo accidentato, pronta ad
afferrare, attacca la spalla di un corpo spiantato, viso che abbaia, crepe che
sbadigliano, bocca che grida, occhi atterriti, volto accerchiato dalla barba,
pieghe tempestose di un abito, ogni cosa prossima alla sua estremità, alla sua
origine”.
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Il romanzo
ha una eminenza ‘politica’, agisce – perché questo è il genere romanzo – per
scavare uno scandalo. In una recensione uscita su “The
Nation” (ottimo titolo: Fighting the Abyss) Noah Isenberg ne scrive così: “I
passi più avvincenti – i più riusciti – del romanzo sono quelli in cui Weiss
offre un esame dettagliato dei capolavori di Delacroix, Goya, Géricault, Munch…
e del loro rapporto con le lotte contemporanee. Così, ad esempio, scrive
del Guernica di Picasso: ‘Il dipinto presentava qualcosa di assolutamente nuovo, di
incomparabile. Con crudeltà, con violenza, le ombre nette e i coni di luce,
arti e facce mastodontiche s’intersecano, mentre diagonali e verticali
contraddicono una densità profonda, immobile. L’aria è grave del canto
metallico dei grilli’. Queste e altre analisi egualmente sontuose
pareggiano i proclami politici (‘Restiamo schiavi salariati che non guidano i
processi di produzione’) e tradiscono l’autentico genio di Weiss per la
descrizione visiva, vivida, costante nel suo lavoro”.
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Esito. Rischiamo che Estetica della
Resistenza sia il libro più importante del secolo non tradotto
in Italia. Il problema, d’altronde, è di soldi, economie, salari,
cultura vs. convenienza, etc. etc. Insomma, puro Peter Weiss. Olè. (d.b.)
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