C’è una domanda ricorrente che da tanti anni mi viene fatta. Cambia l’oggetto, ma la domanda è sempre quella. La prima volta, almeno che io ricordi, dovevo avere una ventina d’anni. Qualcuno mi chiese perché mi fossi tanto impegnata a favore di una persona che neanche conoscevo e che stava subendo un sopruso. La domanda mi stupì e non trovai una risposta, mi sembrava di aver fatto una cosa normale. Dissi solo questo: «era normale farlo». Evidentemente non lo era. Almeno non era normale in senso statistico visto che il mio intervento sembrava un fatto strano.
Poi quella domanda mi sarebbe stata posta tante altre volte. C’è stato un periodo in cui mi si chiedeva spesso perché fossi tanto legata alla causa salvadoregna e trovassi vergognoso il silenzio del papa rispetto a monsignor Romero, peraltro assassinato in chiesa, visto che io ero anche atea. Allora rispondevo che mi sembrava normale fare il possibile perché quella situazione di violenza, ingiustizia e sopruso cessasse e chiunque doveva far qualcosa. Ma chi ti fa questa domanda, di solito, non ha quel tipo di empatia per il dolore altrui che fa diventare normale l’agire per tentare di interromperlo. Poi, se i media vogliono, l’empatia può spuntare e diventare di massa, ma questo succede solo quando i/le formatori/trici di opinione decidono di toccare il nervo giusto. In quel caso diventa normale. In quel caso nessuno ti fa più quella domanda.
Poi è arrivato il turno della Palestina. Mi viene chiesto continuamente perché da tanti anni mi sento legata alla causa palestinese. Di solito rispondo «perché è il paradigma del sopruso e dell’ingiustizia legalizzata», ma vedo sempre negli occhi di interlocutori/trici un’aspettativa non soddisfatta. Manca qualcosa…
Beh, improvvisamente, causa una vecchia foto di me bambina, si è aperto uno squarcio e la risposta vera è arrivata. Tutto cominciò tanti anni fa, quel giorno che mia madre mi fece le trecce. Avevo 4 o 5 anni e portavo sempre i capelli sciolti perché, secondo lei, mi proteggevano dal freddo. In realtà perché ero bionda e quei capelli erano occasione di complimenti che la facevano inorgoglire. Peccato veniale tipico di molte madri. Si può perdonare. Solo nei mesi estivi mi faceva una bella coda di cavallo che a me piaceva tanto. Ma quel giorno, chissà perché, mi fece le trecce.
Con noi viveva mia nonna paterna che non si amava con mia madre, ma che aveva sempre tante storie della sua gioventù da raccontarmi. Storie anche straordinarie e pazzescamente divertenti, che ancora me la fanno ricordare con un po’ di nostalgia.
Era molto vecchia mia nonna, era piccolina ed era stata sempre piccolina, anche se diceva, mentendo, che con l’età aveva perso l’altezza! Però era stata tanto bella da giovane e le piaceva raccontarmi che i ragazzi del suo paese facevano la sassaiola contro i ragazzi “forestieri” che venivano per corteggiare lei e una delle sue sorelle. Ancora di quella bellezza raccontata portava qualche traccia. Era nata a fine Ottocento da una famiglia, allora ricca, delle Marche “papaline” ma era analfabeta perché aveva imparato a ricamare, a ballare e a disegnare, e pure a ripetere le preghiere in latino. Un latino che ve lo raccomando! Aveva frequentato solo per un po’ la prima elementare, perché i casi della vita avevano deciso che lasciasse la scuola e, per la verità, non ne avrebbe risentito più di tanto.
Insomma, non era stupida mia nonna, ma era una donnina ignorante. Quando mi vide con le trecce si portò le mani al viso, sbarrò gli occhi come se avesse avuto chissà quale visione ed esclamò «oh Gesù mio, sei proprio come quella pupa! Oh Dio, Dio quanto je somigli! Pure lei portava le trecce, proprio come te! Bionda, piccoletta, c’avrà avuto manco cinquanni, proprio come te!» poi, seguendo il suo pensiero e il suo ricordo, proseguì «ma che paura! Mammamia ancora me lo ricordo. Che paura!» e allungava sempre molto sulla u.
Io ero là, davanti a lei, con le trecce. Mia madre, abbastanza impaziente, temendo qualche racconto che mi avrebbe affascinato e a lei avrebbe fatto perdere tempo, disse «vabbè, ora andiamo, saluta nonna che usciamo».
Eh no! Come facevo a salutarla senza farmi raccontare il seguito? Poi mia nonna, con una certa inflessione dialettale che soprattutto nell’accento si rinforzava ogni anno a settembre, dopo aver passato un paio di mesi tra Foligno, Colfiorito, Dignano e Serravalle in Chienti, cioè nei luoghi della sua gioventù dove ancora vivevano le sorelle, mia nonna, con quell’inflessione umbro-marchigiana che ho ancora nell’orecchio, mi disse: «Lo voi che nonna ti racconta?» e senza aspettare risposta, seguendo il suo pensiero, andò avanti così: «ma che paura! Se quelle bestie scoprivano che l’avevo nascosta non c’eri manco tu, sai? Manco tu, perché c’avrebbero ammazzat’a tutti, pure a papà tuo. Manco tu!» Ripeté quel “manco tu” come se io potessi scomparire di lì a un momento. Poi, seguitando a parlare a sé stessa più che a me, aggiunse «ma chissà adesso ‘ndo sta quella pupa! mi piacerebbe vedella, ma manco so come faceva di cognome! Però che paura!» Ripeté allungando sempre la u ogni volta che pronunciava quella parola e tenendosi ancora le mani sulle guance.
Io non è che avessi capito molto, ero piccola e mi piacevano tanto i suoi racconti di quando ballava nelle feste paesane fino alle cinque del mattino con i “giovanotti”, come li chiamava lei, che si litigavano per farle i “cavalieri”. Infarciva così bene di dettagli questi racconti, che io li vedevo tutti quei giovanotti, e lei, e i balli come fossero film. Ma questa della bambina nascosta per due giorni, che le faceva tanta paura anche solo a ricordare e che poteva essere causa dell’eliminazione di tutta la sua famiglia, compreso mio padre (mio padre! E no eh, mio padre allora era sacro!) non l’avevo mai sentita e non riuscivo a capire perché l’avesse fatto.
Mia madre scalpitava perché voleva portarmi via dall’influenza di mia nonna però, all’epoca, i vecchi si rispettavano – anche quando non si amavano – e quindi si limitava a stare sulla porta facendo sentire il piede che batteva a terra. Io stavolta non chiesi alla nonna il racconto dei particolari perché avvertivo il respiro nervoso di mia madre e poi non sapevo proprio nulla di leggi razziali e robaccia simile, quindi mi limitai a chiederle: «scusa nonna, ma se avevi tanta paura perché l’hai fatto?».
Ho detto che mia nonna era una piccola donna ignorante, sapeva ricamare, ballare e pregare in quel suo latino un po’ fantasioso, ma non avrebbe davvero mai saputo spiegare il concetto di “imperativo categorico”. Lei aveva molte parole per i racconti e ascoltarla mi piaceva da morire, ma non ne aveva certo per definire un concetto astratto.
Così mi guardò stupita. Come se le avessi chiesto qualcosa che dovesse essere chiaro di per sé. Fece una smorfia con le labbra, alzò le spalle come a dire “embè”, poi tolse le mani dalle guance e le aprì verso l’esterno in una gestualità che appartiene a tutto il centro Italia e che si fa più intensa e vivace man mano che si va al sud, ma che tutta la popolazione italiana, anche quella “nordista”, riconosce come propria e disse, con delle pause per cercare parole che non venivano – e non venivano perché in fondo ne bastava una sola – disse: «embè, perché! perché?… perché… perché era giusto!».
Perché era GIUSTO.
Poi, mentre mia madre diceva «dai, adesso da’ un bacetto a nonna e andiamo», la nonna ripeté «sì, era proprio bionda e con le trecce come te. Era giusto fallo, mica la potevo fa’ pijà da quelle bestie».
Credo di non averci più pensato per parecchio tempo, ma ci sono cose che segnano per sempre, nel bene e nel male e restano a lavorarti dentro. L’etologia e la psicologia le chiamano “imprinting”.
Dopo diversi anni, mentre studiavo un periodo cupo della nostra storia contemporanea, mi tornò alla mente il racconto di mia nonna e ne capii il contesto storico. Ma non serviva. Quello che lei mi aveva detto e che avrebbe indirizzato la mia vita, anche se non c’era stato bisogno di parlarne ancora, era tutto in quell’aggettivo con funzione di categoria morale. Era GIUSTO.
Alcune cose si fanno perché è giusto… e più non dimandare direbbe il Sommo, anzi la sua Guida! E con questo spero di aver risposto a chi mi domandava perché seguissi con tanto pathos la situazione salvadoregna o perché da tanti anni sono legata alla causa palestinese.
Cominciò tutto così, almeno credo, proprio quel giorno che mia madre mi fece le trecce.
Mia nonna, nella sua semplicità, mi aveva detto che il senso di giustizia non ammette compromessi. Lei aveva imparato a pregare in latino sì, ma non credo conoscesse il concetto di giustizia secondo i padri della Chiesa, forse non sapeva nemmeno che la giustizia secondo le Sacre Scritture è la prima delle virtù cardinali. L’unico san Tommaso che conosceva era il discepolo incredulo, non certo il filosofo. Figuriamoci poi se poteva conoscere Platone o Cartesio, o Spinoza o Kant! Ma il senso della giustizia ce l’aveva di suo, e talmente forte da rischiare la vita sua e della sua famiglia per proteggere una bambina che conosceva appena.
Per me cominciò così, prima di conoscere i grandi pensatori. Cominciò con il breve racconto di una piccola donna analfabeta che amava la vita eppure l’aveva rischiata per fare la cosa giusta.
Questo articolo è uscito anche su VitaMine Vaganti
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