Latina è chiaramente uno di quei posti dove vai solo se ti ci
mandano. E a Latina ci mandano (a noi, docenti sardi di
filosofia e storia), una chiara mattina di maggio, per svolgere la prova scritta
del concorso a cattedre. Premetto che un po’ ce la siamo cercata: un concorso
per l’immissione in ruolo l’anno dopo l’abilitazione richiede un po’ di
fortuna, di quella fortuna che il cosmo deve chiederti qualcosa in cambio:
vedere Latina, per l’appunto.
Ho pure
provato a leggermi Canale Mussolini, prima di
partire, ma era noioso e la sorte mi preservava un tiro mancino che suonava
così: troppo facile essere bravi quando si è studiato. Ci si mette a tavolino,
sui libri, si soffre, ci si annoia. Ma volete mettere l’irresponsabile felicità
del successo improvvisato?
Quando ci
sediamo al computer per svolgere il compito di filosofia quelle parole tornano alla mente. I
quesiti sono sei, ai quali si aggiungono due brevi testi in inglese con
relativi quesiti a risposta multipla di comprensione del testo (dieci in
totale). I minuti però sono solo 150, due ore e mezza: quel tanto che basta a
dedicare una ventina di minuti a domanda. Sono domande vaste e non troppo
circoscritte a cui puoi rispondere correttamente in tanti modi ed è lì che ti
puoi affidare all’improvvisazione. Peschi nel tuo bagaglio culturale, traduci
nel linguaggio della didattica e della pedagogia le tue pratiche e maledici il
fatto che sulla tua lista dei desideri hai un libro di Pierre Hadot che
non hai comprato proprio perché dovevi studiare per il concorso, e che invece
viene citato proprio in una delle domande.
Lo
scenario si ripete due giorni dopo per la prova di storia. Un
percorso sull’Islam dal VII al XXI secolo ti fa tremare le ginocchia, un altro
percorso sugli afroamericani in chiave culturalista ti fa ringraziare che il
tuo libro preferito sia Il falò delle vanità. Quando
finiamo e ci raduniamo all’aeroporto di Fiumicino per tornare a casa, nessuno
sa davvero dire come ha svolto la prova. Bene? Forse. Almeno non ho lasciato
nessuna domanda in bianco.
Pochi
giorni dopo, i più ansiosi cominciano già a monitorare le news dell’Ufficio
scolastico regionale. Io sono meno ansioso, e meno fiducioso dei tempi
burocratici, e lascio andare. Nel torrido caldo di agosto una notifica al
cellulare: non è un sms, è una mail targata MIUR: la S.V. ha
ottenuto il punteggio di… e quindi dovrà presentarsi il 31 agosto a sostenere
ecc. Dei trenta candidati sardi passiamo solo in tre, i posti banditi erano
nove. Non ancora capaci di spiegarci esattamente perché abbiamo passato la
prima selezione, una certezza in più la abbiamo: quello che abbiamo scritto è
piaciuto e per la prova orale questa deve essere la nostra bussola.
Il 30
agosto estraiamo l’argomento della lezione simulata che avremmo dovuto svolgere il giorno
successivo e guardiamo negli occhi i commissari che avevamo immaginato in tanti
modi diversi, magari pure con dei tratti mostruosi quando li sentivamo
falcidiare candidati in tutta Italia e in tutte le classi di concorso e quando
leggevamo delle condizioni economiche in cui erano costretti a lavorare. Passo
tutta la giornata in albergo, tranne una pausa per pranzo, a prepararmi per la
prova. La mattina successiva piove a dirotto a Latina. Uno dopo l’altro veniamo
convocati per la nostra esposizione, poi aspettiamo che gli esiti vengano
appesi. Una collega romana che concorre per la regione Lazio ripercorre il
cammino fino a qui. Le selezioni per accedere all’abilitazione (Tirocinio
formativo attivo, TFA), gli esami durante il TFA, la tesi e infine il concorso.
Facciamo due calcoli: se consideriamo i candidati ai due cicli del TFA e quanti
di questi sono passati di ruolo, la percentuale sul totale è dell’1,5%. «Ne
parlavo con una mia collega l’altro giorno» mi dice lei, «e noi tutto questo
l’abbiamo fatto per fare gli insegnanti, non gli astronauti!»
Non so,
né riesco a comprendere, cosa mi abbia permesso di passare il concorso e cosa
soprattutto abbia lasciato fuori tanti colleghi già selezionati e preparati. La
fortuna ha sempre la sua parte nelle performance individuali, però ci devono
essere ragioni più profonde. Il formato inedito del concorso ha sicuramente spiazzato tutti: e dopo
lo spiazzamento iniziale, avere a disposizione un tempo ridotto per la mole del
concorso richiedeva di riprendersi subito e cominciare a scrivere con
sicurezza. Quale approccio scegliere era un’altra questione di
improvvisazione: concentrarsi più sui contenuti o sulle metodologie? Lavorare
di fino o per grandi tematiche? E quando venivano richiesti brani e libri da
utilizzare durante le lezioni, o da consigliare agli studenti, si riusciva a
ripescarli nel grande archivio della nostra mente? Forse, a scombussolare più
di ogni altra cosa, era il conteggio caratteri in fondo a ogni quesito. A vederlo lì
in basso ci si poteva sentire sicuri, darsi un limite, capire se non cosa,
almeno quanto bisognasse scrivere. Invece, per ogni singolo quesito, erano
decine di migliaia di caratteri, cifre da saggio su rivista scientifica. Come a
dirti: se vuoi, dilungati pure, se riesci a noi sta bene.
Forte di
una certa praticità con la lingua inglese avevo lasciato alla fine i quesiti
relativi. I testi però non sono dei più semplici e soprattutto le domande
sarebbero già di per sé efficaci per una comprensione del testo in italiano. Di
riffa e di raffa credo di aver risposto correttamente, ma mezz’ora se ne va
così. Sono punti che si rosicchiano e dato che i voti, questo è tipico però dei
concorsi pubblici, non sono troppo alti, sono punti che pesano sul totale, per
raggiungere almeno quel 28/40 che vuol dire andare avanti.
Al netto
di queste considerazioni di forma, resta un problema di sostanza. Sotto esame
ci siamo trovati, per la maggior parte, tutti docenti già filtrati e formati e
questo, più di ogni altra cosa, cozza con le percentuali di bocciature che
toccano l’80% e
in alcuni casi perfino il 100%. Per la mia generazione, nata negli anni
Ottanta, la strada è stata in salita. L’avere passato l’infanzia nell’opulenza
di quel decennio, nelle promesse di poter realizzare ogni nostro sogno
solamente con l’impegno, non ci aveva preparato a essere la prima generazione più povera di quella dei propri genitori. Quando
ho svolto l’abilitazione e le prove del concorso, mi sono accorto di avere
intorno persone con ottimi risultati accademici, dottorati di ricerca,
pubblicazioni e conferenze: io stesso rientro in questa categoria. Abbiamo
passato quei quindici anni che ci separano dal nostro primo grande esame a
passare selezioni: test di ingresso, esami universitari, dottorati, borse di
ricerca, abilitazioni, concorsi. Un continuo essere esaminati, selezionati,
filtrati, alla ricerca di quel qualcosa che ci avrebbe permesso di costruire il
primo mattoncino di un’esistenza autonoma e dignitosa. Quando però a un
esame ne segue sempre un altro, quello che ti senti addosso è che il mondo ti
comunica la tua inadeguatezza, il tuo
non essere ancora pronto.
In questo
scenario ci è stato detto che siamo mammoni, fannulloni, choosy e non ricordo bene gli altri insulti,
ma l’antifona è chiara. E ora, da docenti, ci sentiamo dire (perché nella
categoria ci rientro pure io, a prescindere dai risultati del concorso) di
essere ignoranti. Come amava ripetere qualcuno: la situazione è sempre un po’
più complessa. È necessario prendere una consapevolezza di gruppo (o di classe,
se preferite) ed evitare quelle logiche — certo più comode — per cui il sistema
mette persone incolpevoli ma capaci le une contro le altre. Chi se la prende
con i vincitori di concorso perché dice di aspettare il ruolo da vent’anni, chi
accusa i colleghi bocciati con spocchia e sufficienza, chi rinfaccia ai
promossi di aver dimostrato solamente di essere veloci a battere sulla
tastiera. I problemi della scuola sono di carattere strutturale e se pure la legge 107 avrà
favorito la mia immissione in ruolo non posso ignorare le sue carenze.
L’autonomia, ad esempio, ha già mostrato all’università quali limiti e problemi
possa scatenare. In un libro che comprai in preparazione al concorso,
contenente le cosiddette «avvertenze generali» si legge — senza alcuna denuncia
— che con la legge 107 le scuole diventano come delle aziende, pronte a
competere sul mercato, offrendo servizi a studenti che sono degli utenti e che
quindi devono essere soddisfatti.
Quando si
entra in una qualsiasi scuola italiana si può sentire un grido di dolore unanime: riducete il numero di
studenti per classe. È il vecchio problema della relazione programmatica di Jerry McGuire: meno studenti (per classe) più
rapporti umani. C’è un grosso numero di insegnanti abilitati e capaci, che i
risultati del concorso non possono farci ignorare. Forse è ora di impiegarli
davvero in questo senso. Verrà il momento in cui lo Stato (perché la
scuola è lo Stato) si fiderà di se stesso e deciderà che le persone che ha
filtrato siano finalmente pronte per svolgere un ruolo autonomo?
Per tanti
passati di ruolo, quest’anno non ci sono le cattedre disponibili, anche a
fronte di un numero di promossi nettamente inferiore al numero di posti
banditi. La legge parla di assunzione scaglionata per tre anni scolastici,
senza precisare l’entità dei singoli scaglioni. Certo, è un finale effimero,
perché l’esperienza pregressa continua a dettare quel messaggio. Il ruolo
dovrebbe essere qui davanti e ancora dà l’idea di scivolare un pochino più in
là. Dovrebbe però riguardare, in un futuro non lontano, anche chi ora è rimasto
indietro.
Nessun commento:
Posta un commento