giovedì 15 settembre 2016

Cicitu, Ciccìttu, Frantziscu, insomma Francesco Masala

A cent’anni dalla nascita
un ricordo/incontro di Pier Paolo Piludu


«E’ importante lassare bonos ammentos, come di uno che ha fatto qualche cosa per migliorare il mondo» scriveva Salvatore Cambosu.
Per qualsiasi essere umano è sicuramente bello essere ricordato dalle generazioni future per le tracce, non importa se siano alberi o poesie, lasciate nel proprio passaggio sulla terra, ma sarebbe auspicabile, soprattutto per noi sardi, che cominciassimo a prendere atto con orgoglio del valore dei nostri più importanti scrittori e poeti non solo dopo, ma soprattutto nel corso della loro esistenza. Bisognerebbe inventare nuovi modi affinché siano costantemente presenti nel dibattito politico, nella nostra vita di tutti i giorni. Forse nessuno meglio di loro sarebbe in grado di darci una visione meno conformista e accomodante del mondo. Soprattutto se gli scrittori e i poeti in questione sono riusciti a cantare con dolore e con profondo affetto sa malefadada terra nostra; se nel corso della loro vita hanno avuto il coraggio di opporsi, a mani nude, con la sola forza della poesia, a volte quasi in solitudine, alle armate di generali, petrolieri e faccendieri di turno. Soprattutto se stiamo parlando di Francesco Masala.
Sin dalla prima lettura di «Quelli dalle labbra bianche» ero rimasto colpito dalla forza e dall’autenticità dei personaggi, dalla suggestione e dal ritmo incalzante della vicenda. Ma, soprattutto, avvertivo la sensazione che quella storia in qualche modo apparteneva a tutti noi, aveva a che fare con un passato non tanto lontano che, direttamente o indirettamente, riguardava ogni sardo. Oggi molti preferirebbero rimuovere la fame subita da padri o nonni, e continuare a parlare del male inevitabile della guerra come di qualcosa che (ci dispiace per loro) riguarda popolazioni lontane. Francesco Masala ci fa vedere gli effetti devastanti, osceni, di chi non ha pane per sé e per i figli. Ci mostra, uno per uno, gli sguardi di dieci ragazzi che, con in mano la cartolina rossa dei richiamati, intuiscono che, andando a combattere la guerra voluta dal Duce, difficilmente potranno vedere di nuovo le madri, le fidanzate, le sorelle che diventano sempre più piccole, mentre il vagone bestiame che li porterà verso il fronte si allontana dalla stazione.
Nelle parole e nelle azioni dei protagonisti c’è un rifiuto totale, viscerale della guerra. Il desiderio di bandirla per sempre, di ripudiarla in tutte le sue forme in un modo ancor più perentorio del nostro ormai mortificato articolo 11 della Costituzione. Nelle pagine del romanzo si respira un antimilitarismo povero, contadino, materno, senza tracce di retorica. Nell’avversione di Maria Girasole e Serafina nei confronti della guerra non c’è niente di ideologico: sanno quanto è duro tirar su un figlio e hanno terrore che la guerra, in quanto negazione della vita, glielo porti via.
Per questo «Quelli dalle labbra bianche» è un libro che finisce male, come ogni guerra. C’è poco spazio per la speranza. Come dopo ogni guerra.
Nel 1998 ho manifestato a Francesco Masala la mia intenzione di fare del romanzo un adattamento teatrale e presentarlo sotto forma di monologo, alternando lingua italiana e logudorese: m’interessava provare a narrare la storia nel modo più semplice possibile, senza enfasi, quasi con leggerezza, facendomi accompagnare solo dai rintocchi di Culubiancu, il campanaro, che richiama uno per uno, in una sorta di Spoon River, i nove fedales morti in Russia durante la seconda guerra mondiale. Non intendevo vestire i panni di un personaggio particolare ma limitarmi a raccontare la vicenda cercando di capire le ragioni di tutti i protagonisti della storia, provando a calarmi e a perdermi nei sentimenti di Mammutone, di Rosa Fae, di Tric Trac…
Cicitu mi diede carta bianca e dopo qualche mese «Sos laribiancos» diventò una nuova produzione del Cada Die Teatro, con la regia di Giancarlo Biffi e le luci di Gianni Schirru. Lo spettacolo ha già fatto un centinaio di repliche, molte delle quali in Continente, e anche il pubblico non sardo sostiene che l’impianto bilingue del lavoro consente di seguire perfettamente la vicenda; spesso spettatori e teatranti italiani mi hanno addirittura invitato a privilegiare ancor più la lingua sarda logudorese. Da parte mia continuo a portare in scena lo spettacolo con grande piacere. Il tema della guerra, della miseria e delle ingiustizie è ancora, purtroppo, terribilmente attuale: i potenti-prepotenti di allora non sono molto diversi da quelli di oggi, a parte il fatto che attualmente sorridono un po’ di più.
Ogni tanto vado a casa di Franziscu con qualche articolo pubblicato in Italia e puntualmente vengo a scoprire qualcosa di nuovo. Lo scorso anno, dopo aver letto una recensione de «L’eco di Bergamo» che faceva un raffronto fra «Sos laribiancos» e «Cent’anni di solitudine», Cicitu mi raccontò di un’intervista rilasciata da G. G. Marquez tanti anni fa: lo scrittore colombiano parlava delle suggestioni avute leggendo un romanzo di un autore sardo, un certo Francesco Masala, ambientato ad Arasolè…
Ricordo benissimo la prima volta che incontrai il “professor Masala”. Avevo letto con grande interesse le sue opere principali e seguito numerosi suoi interventi e invettive a proposito dei disastri dell’industria petrolchimica in Sardegna. Nonostante mi avessero parlato della sua grande disponibilità, ero alquanto emozionato. Lui probabilmente si accorse subito del mio imbarazzo e dopo il primo “professor Masala” mi interruppe, invitandomi a chiamarlo per nome. Mi disse che era da poco tornato da Nughedu, e che anche ad alcuni suoi giovani compaesani aveva chiesto di mettere da parte i convenevoli. Ma, visto che loro continuavano a interpellarlo con frasi tipo «professore cosa ci racconta?», «professore come sta?», glielo aveva detto chiaro e tondo: «Ma la cherides finire cun custu “professore”? Se davvero volete sapere come sto, fatemi domande più precise e più sincere: chiedetemi tranquillamente Cicitu, ses coddande meda? Ses coddande bene?».
L’imbarazzo era sparito come d’incanto e, solo qualche minuto dopo, venuto a sapere dei miei interessi, il professor Cicitu Masala mi aveva regalato una sorta di colta conferenza a quattr’occhi, spaziando da Pirandello al Toschi, dall’origine del teatro italiano al nostro “teatro gestuale nuragico”…
In Francesco Masala la dimensione artistico-intellettuale e lo schietto animo popolare convivono e si esaltano a vicenda: i ricordi delle belle e sane coddate di una volta non sono alternativi alle riflessioni epistemologiche o all’impegno civile, ma sembrano parte integrante della sua Weltanschauung.
Se Franziscu Masala è riuscito a regalarci capolavori come «Quelli dalle labbra bianche» è anche perché non ha mai voluto rompere il legame con la sua gente: viceversa, gli studi e il successo internazionale hanno cementato il rapporto. E’ diventato una coscienza critica del suo Paese (oltre che dell’intera Sardegna) ma continua e vuole continuare ad essere uno di loro. Non per niente Tolstoj in persona gli ha suggerito di lasciar perdere le grandi città e di specializzarsi nel descrivere il suo villaggio; e questo non perché Masala non sia capace di ambientare le sue storie a New York o a Singapore, ma perché solo lui conosce così bene i sogni, le paure e le contraddizioni degli abitanti del suo paese, il piccolo Nughedu San Nicolò, al confine tra Macondo, Arasolé e Biddafraigada. Per questo, quando racconta la fame, l’amore, il sapore amaro dell’ingiustizia che si vive nel suo villaggio, Francesco Masala riesce a toccare così intensamente i nervi e il cuore delle lettrici e dei lettori di qualsiasi età, di qualsiasi parte del mondo.

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