A cent’anni dalla nascita
un ricordo/incontro di Pier Paolo Piludu
«E’ importante lassare bonos ammentos, come di uno che ha fatto qualche cosa per migliorare il
mondo» scriveva Salvatore Cambosu.
Per qualsiasi essere umano è
sicuramente bello essere ricordato dalle generazioni future per le tracce, non
importa se siano alberi o poesie, lasciate nel proprio passaggio sulla terra,
ma sarebbe auspicabile, soprattutto per noi sardi, che cominciassimo a prendere
atto con orgoglio del valore dei nostri più importanti scrittori e poeti non
solo dopo, ma soprattutto nel corso della loro esistenza. Bisognerebbe
inventare nuovi modi affinché siano costantemente presenti nel dibattito
politico, nella nostra vita di tutti i giorni. Forse nessuno meglio di loro
sarebbe in grado di darci una visione meno conformista e accomodante del mondo.
Soprattutto se gli scrittori e i poeti in questione sono riusciti a cantare con
dolore e con profondo affetto sa malefadada terra
nostra; se nel corso della loro vita hanno avuto il coraggio di opporsi, a mani
nude, con la sola forza della poesia, a volte quasi in solitudine, alle armate
di generali, petrolieri e faccendieri di turno. Soprattutto se stiamo parlando
di Francesco Masala.
Sin dalla prima lettura di «Quelli dalle labbra bianche» ero rimasto colpito dalla forza e dall’autenticità dei personaggi,
dalla suggestione e dal ritmo incalzante della vicenda. Ma, soprattutto,
avvertivo la sensazione che quella storia in qualche modo apparteneva a tutti
noi, aveva a che fare con un passato non tanto lontano che, direttamente o
indirettamente, riguardava ogni sardo. Oggi molti preferirebbero rimuovere la
fame subita da padri o nonni, e continuare a parlare del male inevitabile della
guerra come di qualcosa che (ci dispiace per loro) riguarda popolazioni
lontane. Francesco Masala ci fa vedere gli effetti devastanti, osceni, di chi
non ha pane per sé e per i figli. Ci mostra, uno per uno, gli sguardi di dieci
ragazzi che, con in mano la cartolina rossa dei richiamati, intuiscono che,
andando a combattere la guerra voluta dal Duce, difficilmente potranno vedere
di nuovo le madri, le fidanzate, le sorelle che diventano sempre più piccole,
mentre il vagone bestiame che li porterà verso il fronte si allontana dalla
stazione.
Nelle parole e nelle azioni dei protagonisti c’è un rifiuto
totale, viscerale della guerra. Il desiderio di bandirla per sempre, di
ripudiarla in tutte le sue forme in un modo ancor più perentorio del nostro
ormai mortificato articolo 11 della Costituzione. Nelle pagine del romanzo si
respira un antimilitarismo povero, contadino, materno, senza tracce di
retorica. Nell’avversione di Maria Girasole e Serafina nei confronti della
guerra non c’è niente di ideologico: sanno quanto è duro tirar su un figlio e
hanno terrore che la guerra, in quanto negazione della vita, glielo porti via.
Per questo «Quelli dalle labbra bianche» è un libro che finisce male, come ogni guerra. C’è poco spazio per
la speranza. Come dopo ogni guerra.
Nel 1998 ho manifestato a
Francesco Masala la mia intenzione di fare del romanzo un adattamento teatrale
e presentarlo sotto forma di monologo, alternando lingua italiana e logudorese:
m’interessava provare a narrare la storia nel modo più semplice possibile,
senza enfasi, quasi con leggerezza, facendomi accompagnare solo dai rintocchi
di Culubiancu, il campanaro, che richiama uno per uno, in una sorta di Spoon
River, i nove fedales morti
in Russia durante la seconda guerra mondiale. Non intendevo vestire i panni di
un personaggio particolare ma limitarmi a raccontare la vicenda cercando di
capire le ragioni di tutti i protagonisti della storia, provando a calarmi e a
perdermi nei sentimenti di Mammutone, di Rosa Fae, di Tric Trac…
Cicitu mi diede carta bianca e
dopo qualche mese «Sos laribiancos» diventò una nuova produzione del Cada Die Teatro, con la regia di
Giancarlo Biffi e le luci di Gianni Schirru. Lo spettacolo ha già fatto un
centinaio di repliche, molte delle quali in Continente, e anche il pubblico non
sardo sostiene che l’impianto bilingue del lavoro consente di seguire
perfettamente la vicenda; spesso spettatori e teatranti italiani mi hanno
addirittura invitato a privilegiare ancor più la lingua sarda logudorese. Da
parte mia continuo a portare in scena lo spettacolo con grande piacere. Il tema
della guerra, della miseria e delle ingiustizie è ancora, purtroppo, terribilmente
attuale: i potenti-prepotenti di allora non sono molto diversi da quelli di
oggi, a parte il fatto che attualmente sorridono un po’ di più.
Ogni tanto vado a casa di
Franziscu con qualche articolo pubblicato in Italia e puntualmente vengo a scoprire
qualcosa di nuovo. Lo scorso anno, dopo aver letto una recensione de «L’eco di
Bergamo» che faceva un raffronto fra «Sos laribiancos» e «Cent’anni di solitudine», Cicitu mi raccontò di un’intervista rilasciata da G. G.
Marquez tanti anni fa: lo scrittore colombiano parlava delle suggestioni avute
leggendo un romanzo di un autore sardo, un certo Francesco Masala, ambientato
ad Arasolè…
Ricordo benissimo la prima
volta che incontrai il “professor Masala”. Avevo letto con grande interesse le
sue opere principali e seguito numerosi suoi interventi e invettive a proposito
dei disastri dell’industria petrolchimica in Sardegna. Nonostante mi avessero
parlato della sua grande disponibilità, ero alquanto emozionato. Lui
probabilmente si accorse subito del mio imbarazzo e dopo il primo “professor
Masala” mi interruppe, invitandomi a chiamarlo per nome. Mi disse che era da
poco tornato da Nughedu, e che anche ad alcuni suoi giovani compaesani aveva
chiesto di mettere da parte i convenevoli. Ma, visto che loro continuavano a
interpellarlo con frasi tipo «professore cosa ci racconta?», «professore come
sta?», glielo aveva detto chiaro e tondo: «Ma la cherides finire cun custu “professore”? Se davvero volete sapere come sto, fatemi domande più
precise e più sincere: chiedetemi tranquillamente Cicitu, ses coddande meda? Ses coddande
bene?».
L’imbarazzo era sparito come d’incanto e, solo qualche minuto
dopo, venuto a sapere dei miei interessi, il professor Cicitu Masala mi aveva
regalato una sorta di colta conferenza a quattr’occhi, spaziando da Pirandello
al Toschi, dall’origine del teatro italiano al nostro “teatro gestuale
nuragico”…
In Francesco Masala la
dimensione artistico-intellettuale e lo schietto animo popolare convivono e si
esaltano a vicenda: i ricordi delle belle e sane coddate di
una volta non sono alternativi alle riflessioni epistemologiche o all’impegno
civile, ma sembrano parte integrante della sua Weltanschauung.
Se Franziscu Masala è riuscito
a regalarci capolavori come «Quelli dalle labbra bianche» è anche perché non ha mai voluto rompere il legame con
la sua gente: viceversa, gli studi e il successo internazionale hanno cementato
il rapporto. E’ diventato una coscienza critica del suo Paese (oltre che
dell’intera Sardegna) ma continua e vuole continuare ad essere uno di loro. Non
per niente Tolstoj in persona gli ha suggerito di lasciar perdere le grandi
città e di specializzarsi nel descrivere il suo villaggio; e questo non perché
Masala non sia capace di ambientare le sue storie a New York o a Singapore, ma
perché solo lui conosce così bene i sogni, le paure e le contraddizioni degli
abitanti del suo paese, il piccolo Nughedu San Nicolò, al confine tra Macondo,
Arasolé e Biddafraigada. Per questo, quando racconta la fame, l’amore, il
sapore amaro dell’ingiustizia che si vive nel suo villaggio, Francesco Masala
riesce a toccare così intensamente i nervi e il cuore delle lettrici e dei
lettori di qualsiasi età, di qualsiasi parte del mondo.
Nessun commento:
Posta un commento