Quand'ero piccolo, in un'età che nemmeno ricordo, facevo
smorfie e dicevo sciocchezze e i miei genitori ridevano. Questo mi dava
probabilmente un senso di appartenenza e di protezione.
Crescendo, nella naturale tendenza a ricercare l'approvazione del gruppo, cercavo di capire quali fossero le sciocchezze da dire e in che modo bisognasse dirle per muovere il riso negli altri.
Quando ho capito come fare non era più necessario dire sciocchezze, potevo dire qualsiasi cosa in un certo modo e la gente rideva, avevo la sua approvazione.
Da questo si deduce che chi fa il comico lo fa inseguendo un riflesso condizionato che lo spinge a cercare appartenenza e protezione.
Poi ho pensato che per essere un ottimo comico bisognasse essere anche un ottimo attore, così ho imparato a recitare. Ma recitare le cose non comiche dipende da un altro riflesso condizionato, probabilmente si tratta del mio senso d'inferiorità nei confronti di chi fa le cose serie, perché anch'io sono caduto nel tranello culturale in voga presso gli "intenditori" e cioè che il comico fosse una roba di livello più basso rispetto al tragico, questa ovviamente è una solenne cazzata, ma così la vedono i critici e in questa bugia si crogiolano gli intellettuali.
È naturale che non voglio giustificare questo mio senso d'inferiorità: ogni senso d'inferiorità è un'allucinazione perché la superiorità è un'allucinazione. Ma se non altro ho imparato a recitare.
Nel bellissimo film Neverland, in cui Jonny Depp interpreta l'autore di Peter Pan, si dice a un certo punto che i critici hanno rovinato il teatro perché l'hanno fatto diventare una cosa seria. Sono abbastanza d'accordo, quando gli attori smettono di giocare il teatro diventano infantili, seri e opprimenti, si ascoltano, sono in contemplazione di se stessi, cercano ammirazione invece di cercare meraviglia.
Insomma io mi rendo conto che, come tutti, sono preda di riflessi condizionati che a malapena riesco a individuare, ma una cosa la posso dire: il fatto che gli altri mi prendano sul serio, non significa che io mi prenda sul serio. E allo spettatore posso dire una cosa: se a teatro ti rompi i coglioni, hai il livello intellettuale sufficiente per uscire dalla sala, sei tu che decidi non i critici, non gli attori, non i registi. Quelli che se la tirano dicono che gli artisti come me hanno la colpa di portare a teatro un gran numero di persone impreparate a seguire il teatro. Il problema è che questo pubblico avrebbe dovuto essere preparato da quelli che se la tirano. A me non sembra di "portare" gente a teatro, l'impressione che ho è quella di "riportare" a teatro un sacco di gente che altri avevano fatto fuggire. Io dico che se dopo quarant'anni di teatro di ricerca la gente affolla i teatri amatoriali e il dialettale, non è colpa né dell'amatoriale né del dialettale, è che il teatro di ricerca ha fallito. Oggi per fortuna ci sono molti germi nuovi, c'è una roba che si definisce approssimativamente "teatro contemporaneo", che comprende molte tendenze anche molto giovani e che non segue tanto l'etichetta della "ricerca" anche se lo è, ma non ha vergogna di essere pop; Leo De Berardinis, che era un grande, diceva che non ci dovrebbe essere nessuna frattura tra il teatro di ricerca e il teatro popolare. Oggi, grazie a buone scuole ci sono ottimi attori giovani, c'è il germoglio di nuove generazioni che faranno ottime cose. Queste generazioni dovranno essere sostenute, valorizzate, bisogna lasciarli fare, non imporre loro vecchi modelli, e purtroppo il mondo degli stabili mortifica l'energia giovanile, la considera un difetto.
Noi diciamo ai giovani che quand'eravamo giovani noi, allora sì che mettevamo su una compagnia in quattro e quattr'otto, giravamo con un furgone, spaccavamo il mondo. Non è così giovani, non credete a noi cialtroni, perché quando eravamo giovani noi si faceva tutto in nero, oggi con tutti i paletti che le istituzioni, che si sono riprese il teatro dopo anni di giusta anarchia, vi stanno mettendo davanti non riuscite più a muovervi. Quello che si vuole è farvi sperare di vincere un provino, aspettare il vostro turno, sperare nelle fiction, stare al vostro posto e vi tratteranno da ragazzini fino a 40 anni e poi vi diranno che non siete più giovani, ribellatevi a questa logica del Fus e delle gerarchie ottocentesche che ancora dominano il teatro. Non occupate i teatri per avere un posto fisso, occupate i ministeri, andate a Roma in 100, in 1000, chiedete un incontro con i ministri, con Franceschini con questi qua, e dite loro che non è giusto che una giovane compagnia sia tassata dai primi anni, non chiedete sovvenzioni, chiedete esenzioni, chiedete strumenti, ne avete diritto. Ma davvero credete che sia giusto che i soldi del Fus vengano spesi per pagare l'albergo a dei vecchi? Ma una famiglia che avanza 100 euro li dà al nonno o al nipote?! E questi vecchi quand'erano giovani facevano tutto in nero!
Dunque, stavo dicendo, quand'ero piccolo...
Crescendo, nella naturale tendenza a ricercare l'approvazione del gruppo, cercavo di capire quali fossero le sciocchezze da dire e in che modo bisognasse dirle per muovere il riso negli altri.
Quando ho capito come fare non era più necessario dire sciocchezze, potevo dire qualsiasi cosa in un certo modo e la gente rideva, avevo la sua approvazione.
Da questo si deduce che chi fa il comico lo fa inseguendo un riflesso condizionato che lo spinge a cercare appartenenza e protezione.
Poi ho pensato che per essere un ottimo comico bisognasse essere anche un ottimo attore, così ho imparato a recitare. Ma recitare le cose non comiche dipende da un altro riflesso condizionato, probabilmente si tratta del mio senso d'inferiorità nei confronti di chi fa le cose serie, perché anch'io sono caduto nel tranello culturale in voga presso gli "intenditori" e cioè che il comico fosse una roba di livello più basso rispetto al tragico, questa ovviamente è una solenne cazzata, ma così la vedono i critici e in questa bugia si crogiolano gli intellettuali.
È naturale che non voglio giustificare questo mio senso d'inferiorità: ogni senso d'inferiorità è un'allucinazione perché la superiorità è un'allucinazione. Ma se non altro ho imparato a recitare.
Nel bellissimo film Neverland, in cui Jonny Depp interpreta l'autore di Peter Pan, si dice a un certo punto che i critici hanno rovinato il teatro perché l'hanno fatto diventare una cosa seria. Sono abbastanza d'accordo, quando gli attori smettono di giocare il teatro diventano infantili, seri e opprimenti, si ascoltano, sono in contemplazione di se stessi, cercano ammirazione invece di cercare meraviglia.
Insomma io mi rendo conto che, come tutti, sono preda di riflessi condizionati che a malapena riesco a individuare, ma una cosa la posso dire: il fatto che gli altri mi prendano sul serio, non significa che io mi prenda sul serio. E allo spettatore posso dire una cosa: se a teatro ti rompi i coglioni, hai il livello intellettuale sufficiente per uscire dalla sala, sei tu che decidi non i critici, non gli attori, non i registi. Quelli che se la tirano dicono che gli artisti come me hanno la colpa di portare a teatro un gran numero di persone impreparate a seguire il teatro. Il problema è che questo pubblico avrebbe dovuto essere preparato da quelli che se la tirano. A me non sembra di "portare" gente a teatro, l'impressione che ho è quella di "riportare" a teatro un sacco di gente che altri avevano fatto fuggire. Io dico che se dopo quarant'anni di teatro di ricerca la gente affolla i teatri amatoriali e il dialettale, non è colpa né dell'amatoriale né del dialettale, è che il teatro di ricerca ha fallito. Oggi per fortuna ci sono molti germi nuovi, c'è una roba che si definisce approssimativamente "teatro contemporaneo", che comprende molte tendenze anche molto giovani e che non segue tanto l'etichetta della "ricerca" anche se lo è, ma non ha vergogna di essere pop; Leo De Berardinis, che era un grande, diceva che non ci dovrebbe essere nessuna frattura tra il teatro di ricerca e il teatro popolare. Oggi, grazie a buone scuole ci sono ottimi attori giovani, c'è il germoglio di nuove generazioni che faranno ottime cose. Queste generazioni dovranno essere sostenute, valorizzate, bisogna lasciarli fare, non imporre loro vecchi modelli, e purtroppo il mondo degli stabili mortifica l'energia giovanile, la considera un difetto.
Noi diciamo ai giovani che quand'eravamo giovani noi, allora sì che mettevamo su una compagnia in quattro e quattr'otto, giravamo con un furgone, spaccavamo il mondo. Non è così giovani, non credete a noi cialtroni, perché quando eravamo giovani noi si faceva tutto in nero, oggi con tutti i paletti che le istituzioni, che si sono riprese il teatro dopo anni di giusta anarchia, vi stanno mettendo davanti non riuscite più a muovervi. Quello che si vuole è farvi sperare di vincere un provino, aspettare il vostro turno, sperare nelle fiction, stare al vostro posto e vi tratteranno da ragazzini fino a 40 anni e poi vi diranno che non siete più giovani, ribellatevi a questa logica del Fus e delle gerarchie ottocentesche che ancora dominano il teatro. Non occupate i teatri per avere un posto fisso, occupate i ministeri, andate a Roma in 100, in 1000, chiedete un incontro con i ministri, con Franceschini con questi qua, e dite loro che non è giusto che una giovane compagnia sia tassata dai primi anni, non chiedete sovvenzioni, chiedete esenzioni, chiedete strumenti, ne avete diritto. Ma davvero credete che sia giusto che i soldi del Fus vengano spesi per pagare l'albergo a dei vecchi? Ma una famiglia che avanza 100 euro li dà al nonno o al nipote?! E questi vecchi quand'erano giovani facevano tutto in nero!
Dunque, stavo dicendo, quand'ero piccolo...
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