«Io sono Mimmo
Mignano, uno dei cinque licenziati dalla Fiat» così inizia il racconto di un
signore che incontro a Napoli in un teatro a Montecalvario nei Quartieri
Spagnoli, quella zona del mondo che agli occhi di
Stendhal «è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo».
Mi chiedono di fare
una fotografia, di firmare una petizione e io gli chiedo di incontrarli, di
raccontarmi la loro storia. Accendo la videocamera e registro l’incontro al
Nuovo Teatro Nuovo, accanto al palcoscenico dove, tra qualche ora, farò
spettacolo.
Mimmo mi dice che
«ci sono due sentenze contro di noi. Nei tribunali vogliono far passare qualcosa che per legge hanno più
problemi, cioè il diritto di espressione, di satira». Sta
parlando di un fatto avvenuto veramente, ma che sembra l’invenzione di uno
sceneggiatore per qualche commedia cinematografica. È la storia di un
pupazzo che
è stato impiccato durante una manifestazione. Non un attentato con decine di
morti, non una gambizzazione e nemmeno un sequestro, ma un pupazzo di stoffa. E
nemmeno la rappresentazione di un omicidio (nella tradizione dei nostri
carnevali si ammazzano i re da secoli e nessun giudice processa il popolo che
uccide il Re Carnevale), ma un suicidio: la messa in scena del suicidio di
Marchionne.
C’è un capannone che la Fiat chiama Polo Logistico di Nola, ma gli operai
lo chiamano “Reparto Confine” (Accornero parlava della stessa
strategia della Fiat già alla fine degli anni Cinquanta) «nel senso che
Marchionne prende gli operai più sindacalizzati, quelli più scamazzati dalle
catene di montaggio, come si chiamano… Rcl, ridotte capacità lavorative, li
sposta a una ventina di chilometri gli fa fare qualche giorno di lavoro e poi
li mette per anni in cassa integrazione. In questo periodo buio di cassa
integrazione due nostri colleghi si tolgono la vita: Peppe
De Crescenzo si impicca nella sua camera da pranzo e tre mesi dopo Maria
Baratto la trovano morta suicidata con le coltellate allo stomaco.
E questa compagna aveva rimasto pure una lettera testimoniale della gravità
della sua condizione di vita sociale e economica».
Nel documentario di
Rossomando “La fabbrica incerta” la Baratto dice «le patologie causate dalla
catena di montaggio? A ventidue anni montavo il tergilunotto sull’Alfa 33, da
sola. Oggi prendo psicofarmaci». Due anni dopo accusa «l’intero quadro
politico-istituzionale, che da sinistra a destra ha coperto le insane politiche
della Fiat» e poi si lacera il ventre a coltellate.
Aveva scritto che «a Pomigliano l’unica certezza dei cinquemila lavoratori
consiste nella lettera di altri due anni di cassa integrazione
speciale per cessazione di attività di
Fiat Group Automobiles nella consapevolezza che buona parte di loro non saranno
assunti da Fabbrica Italia. Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui
auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova dei giorni
scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla Fiat per futili
motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di
ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la
punta dell’iceberg della barbarie
industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori».
Così scriveva, poi s’è ammazzata anche lei.
Dopo il suicidio di
Maria «la pelle s’è fatta d’oca. Stavamo in una situazione di drammaticità
enorme e inscenammo un finto suicidio di Marchionne con un finto testamento nel
quale, prendendo dalle parole di Maria Baratto, scrivemmo che lui chiedeva
scusa di questi suicidi e chiedeva di far ritornare i 316 al proprio posto di
lavoro, cioè all’interno della Fiat di Pomigliano D’Arco. Da qui è scattata la
lettera di contestazione e di seguito il licenziamento».
Mimmo dice che loro hanno sempre fatto satira nelle loro manifestazioni.
«Ci siamo travestiti da pagliacci davanti allo stabilimento di Melfi quando
Renzi è stato in visita allo stabilimento, ci siamo travestiti da fantasmi… Noi
usavamo la satira per denunciare quello che avveniva all’interno della
fabbrica. E infatti con te non vogliamo parlare dei cinque licenziati per
quel fatto del pupazzo di Marchionne suicida, ma ci rendiamo conto che se passa
in tribunale una sentenza che vieta il diritto di critica, di espressione, di
satira… se passa nei tribunali per i più deboli, tra qualche anno arriva anche
a Ascanio Celestini e Moni Ovadia, a Daniela Sepe e a Francesca Fornario…,
insomma a quelli che fanno satira, cinema, teatro, letteratura, che scrivono
sui giornali, che disturbano i potenti. Quante migliaia di licenziamenti
avremo nei prossimi anni perché un operaio si permette di dire: come è cattivo
il mio padrone! Se viene meno questa democrazia andiamo oltre la questione dei
licenziati».
E per Francesca
Fornario sono venuti a Roma, alla Rai ad esprimere la loro solidarietà. Mimmo
s’è incatenato al cavallo di Viale Mazzini, Francesca arriva di corsa, si commuove
e scrive:
«Leggo il comunicato
e penso: È uno scherzo… Vedo la foto, lo striscione, controllo se non sia un
fotomontaggio. Operai. Licenziati. Di Pomigliano. Che srotolano uno striscione
davanti alla Rai. Non per chiedere indietro il lavoro. Non per chiedere
indietro la casa, che i più hanno lasciato alla moglie che ha lasciato loro,
negli anni in cassintegrazione a Nola, mentre a Pomigliano si facevano gli
straordinari ogni sabato per produrre automobili e loro no, loro in automobile
ci dormivano. Non per chiedere indietro la vita, la loro e quella dei colleghi
che hanno provato a togliersela, perché la vita in cassintegrazione al reparto-confino
di Nola crolla per “l’effetto domino”, lo chiamano così, mimando il crollo di
un palazzo con le mani: 700 euro al mese per un lavoro che non c’è più, i soldi
che non bastano per pagare la mensa a scuola e l’assicurazione della macchina e
allora vai in giro senza fino a quando non ti fermano e ti tolgono la patente
precipitandoti nell’illegalità, e allora ti deprimi e ti incazzi e tua moglie
ti lascia». «Lo striscione che si sono portati da Acerra chiede indietro
la satira. “Satira Libera”. Mi precipito a Viale Mazzini e li trovo lì, stupiti
del mio stupore”. Mi spiegano che è la stessa guerra. Che anche loro hanno
perso il posto per aver osato criticare l’azienda. “Sì, ma io me ne sono andata
perché non c’erano più le condizioni per…”. Che anche a loro è stato impedito
di fare satira su Marchionne. “Eh?!”. E via con le battute su Marchionne che
facevo a Radio2. Marchionne che va a produrre la Panda in Polonia dove gli operai non
pretendono di fare la pausa-pranzo. Fino
a quando non scopre che lungo il Gange c’è un ashram di fachiri in grado di
trattenere la pipì per 36 ore e trasferisce lì la produzione della Panda.
Fino a quando non legge su Focus che i macachi delle Filippine sanno avvitare i
bulloni…»
Nel piccolo teatro dei
Quartieri Spagnoli di Napoli accanto a Mimmo c’è
Antonio Montella che sul suo profilo Facebook si descrive così: Licenziato
presso Fiat Group.
«Dopo che la Fiat ha
acquistato l’Alfa Romeo» dice «si è cercato testardamente di capire quali
progetti c’erano per Pomigliano. Quando sono entrato io nell’89 la fabbrica era
un cesso, si lavorava a cappello d’asino. Ora le migliorie sono per
l’ergonomia, per aumentare la linea di produzione. E invece le battaglie che
abbiamo fatto noi è di farci licenziare per fare assumere anche le donne, per
esempio. La battaglia per un operaio con l’ernia al disco che doveva prendere
un ammortizzatore da un cassone, lo doveva sollevare con le braccia per
metterlo su una postazione, abbiamo lottato per un paranco. Abbiamo lottato per
i carroponti che c’erano i freni che contengono ferròdo e sappiamo che il
ferròdo, per il raffreddamento, contiene amianto. E quanti
operai sono morti in meccanica, in carrozzeria, in verniciatura, da tutte le
parti? Siamo capatosta, così si dice a Napoli. La
classe operaia è colei che mantiene uno Stato così corrotto e così indegno di
essere chiamato Stato. La Classe operaia è colei che mantiene il prodotto
interno lordo, è colei che mantiene tutto. Non a caso questa compagna Maria
Baratto per istinto e cose interne della persona scrisse proprio quella cosa
sui suicidi in Fiat. Cioè che non erano suicidi casuali, ma suicidi per i sacrifici della classe operaia.
E noi chiediamo rispetto per questa cosa. In seconda cosa chiediamo la
sicurezza sul posto di lavoro. In terza cosa, soprattutto, chiediamo la
democrazia: il diritto di satira, di critica, di espressione. È una cosa che
non ci possono togliere. Ci abbiamo impiegato secoli per uscire dal
silenzio del dolore e della sottomissione. Adesso non è più possibile stare
zitti e, come scrive Di Ruscio pensando a qualche derelitto proletario «se gli
dicono di smetterla
canta più forte»
canta più forte»
E dunque urleranno
questi operai. Urleranno forte nelle piazze e nei tribunali.
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