Il seme che ha dato vita alla Grande Marcia del Ritorno di Gaza è stato
piantato il 9 dicembre, pochi giorni dopo l'annuncio che il presidente Trump
avrebbe riconosciuto Gerusalemme come capitale d'Israele.
I palestinesi hanno a lungo mantenuto il sogno di vedere Gerusalemme come
nostra capitale, o almeno come capitale condivisa in un paese che offre uguali
diritti a tutti. La sensazione di tradimento e di angoscia a Gaza era
palpabile. Per schiarirci le idee, il mio amico Hasan e io abbiamo fatto una
passeggiata lungo il confine, cosa che facciamo ogni tanto.
"Quella è la nostra terra," dissi a Hasan, mentre guardavo gli
alberi dall'altra parte del recinto di filo spinato che ci confina, "a
pochi chilometri da qui". Eppure, a causa di quella barriera e dei soldati
che lo sorvegliano, quella terra è così lontana. La maggior parte delle persone
della mia età non hanno mai avuto il permesso di lasciare Gaza, dal momento che
l'Egitto controlla il suo confine meridionale e Israele limita l'accesso al
nord - così come proibisce l'uso del nostro mare e dell'aeroporto (o di quello
che ne è rimasto dopo tre guerre).
Quel pensiero è divenuto un desiderio espresso su Facebook. E ha toccato
così tanto la gente di Gaza da dare il via ad un movimento che è culminato
nelle proteste storiche che hanno avuto luogo nel corso dell'ultimo mese.
Tragicamente, Israele ha reagito ancora più brutalmente di quanto mi aspettassi
- e ho vissuto tre delle sue guerre. L'ultima stima del numero di manifestanti
uccisi è 104; più di 50 sono morti solo lunedì. Altre migliaia sono state
ferite. Ma le nostre voci dovevano essere ascoltate, e lo sono state.
Il mio odio per i confini è sia universale - nel senso che tutti i
palestinesi ne soffrono - che molto personale. I miei nonni e i loro nonni sono
nati e cresciuti nella città di Ramla, nel centro di quello che ora è Israele.
Durante le mie passeggiate, ho immaginato la terra ancestrale della mia
famiglia.
Ma ho anche sperimentato l'impatto distruttivo dei confini in modo più
personale. Sono nato nel 1984, due anni dopo che Israele si è ritirato dalla
penisola del Sinai, dividendo la mia città, Rafah, tra Gaza e l'Egitto. Il
nucleo della città fu raso al suolo da Israele e dall'Egitto per creare una
zona cuscinetto, separando le famiglie, compresa la mia, con il filo spinato.
La famiglia di mia madre viveva nella parte egiziana e la divisione di Rafah
finì col provocare la separazione dei miei genitori. Sebbene mia madre vivesse
a un tiro di schioppo, passarono 19 anni prima che potessi rivederla.
In quel giorno di dicembre, mentre guardavo gli uccelli volare oltre il
confine che non potevo attraversare, mi sono ritrovato a pensare a quanto gli
uccelli e gli animali siano più intelligenti delle persone: si armonizzano con
la natura invece di erigere muri. Quello stesso giorno mi sono chiesto su
Facebook cosa sarebbe successo se un uomo avesse agito come un uccello e avesse
oltrepassato quel recinto. "Perché i soldati israeliani dovrebbero
sparargli addosso come se stesse commettendo un crimine?", ho scritto. Il
mio unico pensiero era di raggiungere gli alberi, sedermi lì e poi tornare
indietro.
Non potevo abbandonare quel pensiero. Un mese dopo, ho scritto un altro
post. "Grazie, Israele, per averci aperto gli occhi. Se l'occupazione
aprisse i valichi permettendo alle persone di vivere una vita normale e creando
posti di lavoro per i giovani, potremmo aspettare alcune generazioni",
scrissi. "Siamo costretti a scegliere tra lo scontro o la vita". Ho
concluso il post con l'hashtag GreatReturnMarch.
I giovani di Gaza hanno reagito immediatamente al mio post, condividendolo
e aggiungendo le proprie idee. Solo una settimana dopo sembrava che centinaia
di persone ne parlassero. Abbiamo istituito un comitato giovanile e incontrato
agenzie e istituzioni locali. Abbiamo anche incontrato i partiti politici
nazionali: volevamo offrire a tutti i settori della società di Gaza
l'opportunità di essere coinvolti.
Quanto è successo da quando abbiamo iniziato la Grande Marcia è stato in
parte quello che speravo e mi aspettavo, e in parte no. Non è stata una
sorpresa che Israele abbia risposto alla nostra marcia con violenza letale. Ma
non mi aspettavo questo livello di crudeltà. Dall'altra parte, sono stato
rincuorato dall'impegno alla non violenza tra la maggior parte della mia gente.
Un paio di anni fa, la gente qui avrebbe respinto l'idea che le dimostrazioni
pacifiche potessero ottenere qualcosa di significativo. Dopotutto, ogni altra
forma di resistenza non ha prodotto nulla di concreto. Ciò che mi stupisce è la
trasformazione che stiamo vedendo nel modo in cui resistiamo. In precedenza la
nostra lotta era tra combattenti armati palestinesi e cecchini israeliani,
carri armati e F-16. Ora, è una lotta tra l'occupazione e manifestanti pacifici
- uomini e donne, giovani e anziani.
La Grande Marcia del Ritorno ricorda al mondo l'origine del conflitto - lo
sradicamento dalle nostre terre e dalle nostre vite, iniziato nel 1948 e
sostenuto da allora. Abbiamo scelto il 15 maggio come il culmine delle nostre
proteste perché è il giorno in cui i palestinesi commemorano la
"nakba", la parola araba per catastrofe, il termine con cui chiamiamo
le espulsioni dalle nostre case 70 anni fa. Qualunque soluzione sarà negoziata
in futuro per consentire ai nostri due popoli di vivere insieme pacificamente e
con giustizia deve iniziare con il riconoscimento di questo torto.
Tuttavia, nonostante la risposta dei cecchini israeliani, continuo a
impegnarmi per la nonviolenza, così come tutte le altre persone che
"coordinano" questa marcia. Uso le virgolette perché quando un
movimento diventa così grande - attraendo ciò che stimiamo essere fino a
200.000 persone il venerdì - non può essere completamente controllato. Abbiamo
scoraggiato il rogo delle bandiere israeliane e l'uso di bottiglie Molotov
trasportate da aquiloni. Vogliamo che il nostro messaggio sia la coesistenza
pacifica e con pari dignità.
Abbiamo anche cercato di scoraggiare i manifestanti da cercare di entrare
in Israele. Tuttavia, non possiamo fermarli. È l'azione di un popolo
imprigionato che anela alla libertà, una delle più forti motivazioni della
natura umana. Per lo stesso motivo, la gente non se ne andrà il 15 maggio.
Intendiamo continuare la nostra lotta fino a quando Israele non riconoscerà il
nostro diritto di tornare alle nostre case e alla terra da cui siamo stati
espulsi.
La disperazione alimenta questa nuova generazione. Non torneremo alla
nostra esistenza subumana. Continueremo a bussare alle porte delle
organizzazioni internazionali e dei nostri carcerieri israeliani finché non
vedremo misure concrete per porre fine al blocco di Gaza.
(Abu Artema è un giornalista freelance e ha contribuito all'organizzazione della Grande Marcia del Ritorno.
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