giovedì 19 luglio 2018

Ho contribuito ad iniziare le proteste di Gaza. E non me ne pento - Ahmed Abu Artema




Il seme che ha dato vita alla Grande Marcia del Ritorno di Gaza è stato piantato il 9 dicembre, pochi giorni dopo l'annuncio che il presidente Trump avrebbe riconosciuto Gerusalemme come capitale d'Israele.
I palestinesi hanno a lungo mantenuto il sogno di vedere Gerusalemme come nostra capitale, o almeno come capitale condivisa in un paese che offre uguali diritti a tutti. La sensazione di tradimento e di angoscia a Gaza era palpabile. Per schiarirci le idee, il mio amico Hasan e io abbiamo fatto una passeggiata lungo il confine, cosa che facciamo ogni tanto.
"Quella è la nostra terra," dissi a Hasan, mentre guardavo gli alberi dall'altra parte del recinto di filo spinato che ci confina, "a pochi chilometri da qui". Eppure, a causa di quella barriera e dei soldati che lo sorvegliano, quella terra è così lontana. La maggior parte delle persone della mia età non hanno mai avuto il permesso di lasciare Gaza, dal momento che l'Egitto controlla il suo confine meridionale e Israele limita l'accesso al nord - così come proibisce l'uso del nostro mare e dell'aeroporto (o di quello che ne è rimasto dopo tre guerre).
Quel pensiero è divenuto un desiderio espresso su Facebook. E ha toccato così tanto la gente di Gaza da dare il via ad un movimento che è culminato nelle proteste storiche che hanno avuto luogo nel corso dell'ultimo mese. Tragicamente, Israele ha reagito ancora più brutalmente di quanto mi aspettassi - e ho vissuto tre delle sue guerre. L'ultima stima del numero di manifestanti uccisi è 104; più di 50 sono morti solo lunedì. Altre migliaia sono state ferite. Ma le nostre voci dovevano essere ascoltate, e lo sono state.
Il mio odio per i confini è sia universale - nel senso che tutti i palestinesi ne soffrono - che molto personale. I miei nonni e i loro nonni sono nati e cresciuti nella città di Ramla, nel centro di quello che ora è Israele. Durante le mie passeggiate, ho immaginato la terra ancestrale della mia famiglia.
Ma ho anche sperimentato l'impatto distruttivo dei confini in modo più personale. Sono nato nel 1984, due anni dopo che Israele si è ritirato dalla penisola del Sinai, dividendo la mia città, Rafah, tra Gaza e l'Egitto. Il nucleo della città fu raso al suolo da Israele e dall'Egitto per creare una zona cuscinetto, separando le famiglie, compresa la mia, con il filo spinato. La famiglia di mia madre viveva nella parte egiziana e la divisione di Rafah finì col provocare la separazione dei miei genitori. Sebbene mia madre vivesse a un tiro di schioppo, passarono 19 anni prima che potessi rivederla.
In quel giorno di dicembre, mentre guardavo gli uccelli volare oltre il confine che non potevo attraversare, mi sono ritrovato a pensare a quanto gli uccelli e gli animali siano più intelligenti delle persone: si armonizzano con la natura invece di erigere muri. Quello stesso giorno mi sono chiesto su Facebook cosa sarebbe successo se un uomo avesse agito come un uccello e avesse oltrepassato quel recinto. "Perché i soldati israeliani dovrebbero sparargli addosso come se stesse commettendo un crimine?", ho scritto. Il mio unico pensiero era di raggiungere gli alberi, sedermi lì e poi tornare indietro.
Non potevo abbandonare quel pensiero. Un mese dopo, ho scritto un altro post. "Grazie, Israele, per averci aperto gli occhi. Se l'occupazione aprisse i valichi permettendo alle persone di vivere una vita normale e creando posti di lavoro per i giovani, potremmo aspettare alcune generazioni", scrissi. "Siamo costretti a scegliere tra lo scontro o la vita". Ho concluso il post con l'hashtag GreatReturnMarch.
I giovani di Gaza hanno reagito immediatamente al mio post, condividendolo e aggiungendo le proprie idee. Solo una settimana dopo sembrava che centinaia di persone ne parlassero. Abbiamo istituito un comitato giovanile e incontrato agenzie e istituzioni locali. Abbiamo anche incontrato i partiti politici nazionali: volevamo offrire a tutti i settori della società di Gaza l'opportunità di essere coinvolti.
Quanto è successo da quando abbiamo iniziato la Grande Marcia è stato in parte quello che speravo e mi aspettavo, e in parte no. Non è stata una sorpresa che Israele abbia risposto alla nostra marcia con violenza letale. Ma non mi aspettavo questo livello di crudeltà. Dall'altra parte, sono stato rincuorato dall'impegno alla non violenza tra la maggior parte della mia gente.
Un paio di anni fa, la gente qui avrebbe respinto l'idea che le dimostrazioni pacifiche potessero ottenere qualcosa di significativo. Dopotutto, ogni altra forma di resistenza non ha prodotto nulla di concreto. Ciò che mi stupisce è la trasformazione che stiamo vedendo nel modo in cui resistiamo. In precedenza la nostra lotta era tra combattenti armati palestinesi e cecchini israeliani, carri armati e F-16. Ora, è una lotta tra l'occupazione e manifestanti pacifici - uomini e donne, giovani e anziani.
La Grande Marcia del Ritorno ricorda al mondo l'origine del conflitto - lo sradicamento dalle nostre terre e dalle nostre vite, iniziato nel 1948 e sostenuto da allora. Abbiamo scelto il 15 maggio come il culmine delle nostre proteste perché è il giorno in cui i palestinesi commemorano la "nakba", la parola araba per catastrofe, il termine con cui chiamiamo le espulsioni dalle nostre case 70 anni fa. Qualunque soluzione sarà negoziata in futuro per consentire ai nostri due popoli di vivere insieme pacificamente e con giustizia deve iniziare con il riconoscimento di questo torto.
Tuttavia, nonostante la risposta dei cecchini israeliani, continuo a impegnarmi per la nonviolenza, così come tutte le altre persone che "coordinano" questa marcia. Uso le virgolette perché quando un movimento diventa così grande - attraendo ciò che stimiamo essere fino a 200.000 persone il venerdì - non può essere completamente controllato. Abbiamo scoraggiato il rogo delle bandiere israeliane e l'uso di bottiglie Molotov trasportate da aquiloni. Vogliamo che il nostro messaggio sia la coesistenza pacifica e con pari dignità.
Abbiamo anche cercato di scoraggiare i manifestanti da cercare di entrare in Israele. Tuttavia, non possiamo fermarli. È l'azione di un popolo imprigionato che anela alla libertà, una delle più forti motivazioni della natura umana. Per lo stesso motivo, la gente non se ne andrà il 15 maggio. Intendiamo continuare la nostra lotta fino a quando Israele non riconoscerà il nostro diritto di tornare alle nostre case e alla terra da cui siamo stati espulsi.
La disperazione alimenta questa nuova generazione. Non torneremo alla nostra esistenza subumana. Continueremo a bussare alle porte delle organizzazioni internazionali e dei nostri carcerieri israeliani finché non vedremo misure concrete per porre fine al blocco di Gaza.


(Abu Artema è un giornalista freelance e ha contribuito all'organizzazione della Grande Marcia del Ritorno.


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