Israele
non è l’unica democrazia nel Medio Oriente. Anzi, non è affatto una
democrazia. Agli occhi di molti Israeliani e dei loro sostenitori nel
mondo – inclusi coloro che criticano alcune delle sue politiche – Israele è, in
fin dei conti, uno stato democratico benevolo, che cerca la pace con i suoi
vicini, e che garantisce l’uguaglianza a tutti i suoi cittadini.
Coloro che
criticano Israele presumono che, se qualcosa è andato storto con la sua
democrazia, è stato a causa della guerra del 1967. Secondo questa opinione, la
guerra avrebbe corrotto una società onesta e laboriosa, offrendole facili
guadagni nei territori occupati, permettendo a gruppi messianici di introdursi
nella politica israeliana, e soprattutto rendendo Israele una forza occupante e
oppressiva nei nuovi territori.
Il mito
che uno stato democratico di Israele avrebbe avuto dei problemi nel 1967 pur
rimanendo una democrazia, è stato tramandato anche da alcuni illustri studiosi
palestinesi e pro-palestinesi – ma non ha fondamenti storici.
Israele prima del 1967 non era una
democrazia
Prima del
1967, Israele non avrebbe assolutamente potuto essere descritto come una
democrazia. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, lo stato sottoponeva un
quinto della sua cittadinanza ad un regime militare basato sulle draconiane
norme di emergenza del Mandato Britannico che negavano ai Palestinesi qualunque
diritto fondamentale, umano e civile.
I
governatori militari locali decidevano in toto della vita dei cittadini:
potevano ideare leggi speciali per loro, distruggere le loro case ed i loro
mezzi di sostentamento, ed imprigionarli quando volevano. Solo alla fine
degli anni Cinquanta emerse una forte opposizione ebraica contro questi abusi,
che infine allentò la pressione sui cittadini palestinesi.
Per i
Palestinesi che hanno vissuto nell’Israele dell’anteguerra e per quelli che
hanno vissuto nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza del dopo-1967, questo
regime ha permesso persino al soldato di grado più basso nell’esercito
israeliano di decidere della loro vita, e di rovinarla. Erano del tutto
indifesi se un certo soldato, o la sua unità o il suo comandante, decidevano di
demolire la loro casa, o di trattenerli per ore ad un posto di blocco, o di incarcerarli
senza un processo. Non c’era nulla che potessero fare.
Dal 1948
ad oggi c’è sempre stato qualche gruppo di Palestinesi che ha vissuto queste
esperienze. Il primo gruppo a soffrire sotto questo giogo fu la minoranza
palestinese all’interno di Israele. Tutto cominciò nei primi due anni dalla
nascita dello Stato, durante i quali vennero costretti a vivere
all’interno di ghetti, come la comunità palestinese di Haifa che viveva sul
monte Carmel, oppure furono espulsi dalle città in cui avevano vissuto per decenni,
come avvenne a Safad. Nel caso di Isdud, l’intera popolazione fu cacciata
nella Striscia di Gaza.
Nelle
campagne la situazione era persino peggiore. I villaggi palestinesi situati su
terreni fertili facevano gola ai vari movimenti Kibbutz. Compresi i
Kibbutzim socialisti Hashomer Ha-Zair, malgrado il loro presunto impegno di
solidarietà con entrambi i popoli.
Quando i
combattimenti del 1948 erano cessati da un pezzo, gli abitanti dei villaggi di
Ghabsiyyeh, Iqrit, Birim, Qaidta, Zaytun, e molti altri, furono indotti con
l’inganno a lasciare per un periodo di due settimane le loro abitazioni, di cui
l’esercito pretendeva di aver bisogno per esercitazioni, solo per scoprire al
ritorno che i loro villaggi erano stati rasi al suolo oppure erano stati
concessi a qualcun altro.
Un esempio
di questa condizione di terrore militare è il massacro di Kafr Qasim, nell’ottobre
del 1956, quando, alla vigilia dell’azione nel Sinai, quarantanove cittadini
palestinesi furono uccisi dall’esercito israeliano. Le autorità sostenevano che
erano rientrati tardi dal lavoro nei campi, mentre un coprifuoco era stato
imposto sul villaggio. Ma questa non era la vera ragione.
È stato
dimostrato successivamente che Israele aveva preso in seria considerazione
l’espulsione dei Palestinesi dall’intera area chiamata Wadi Ara e dal Triangolo
nel quale era situato il villaggio. Queste due regioni – la prima una
valle che collegava Afula ad est con Hadera sulla costa del Mediterraneo; la
seconda che estendeva l’entroterra orientale di Gerusalemme – erano state
annesse ad Israele nel quadro dell’armistizio del 1949 con la Giordania.
Come
abbiamo visto, aumenti di territorio erano sempre ben accolti da Israele,
mentre non lo era l’aumento della popolazione palestinese. Quindi, ad ogni
occasione di espansione dello stato di Israele, si cercava in ogni modo di
limitare la popolazione palestinese nelle nuove aree annesse.
Operazione
“Hafarfert” (talpa) era il nome in codice di una serie di proposte per
l’espulsione di Palestinesi nel momento in cui era scoppiata una nuova guerra
con il mondo arabo. Molti studiosi oggi credono che il massacro del 1956 sia
stato un esperimento per vedere se fosse possibile cacciar via la gente della
zona con l’intimidazione.
Gli
esecutori della strage furono processati grazie alla diligenza ed alla tenacia
di due membri della Knesset: Tawaq Tubi del Partito Comunista e Latif Dori del
Partito della Sinistra Sionista Mapam. Comunque, i comandanti responsabili
nella zona, e l’unità stessa che commise il crimine, se la cavarono con poco,
pagando solo piccole multe. Questa fu un’ulteriore prova di come l’esercito
potesse farla franca commettendo omicidi nei territori occupati.
La ferocia
sistematica non si palesa solo in eventi importanti come una strage. Le
atrocità peggiori possono riscontrarsi nella presenza quotidiana, ordinaria del
regime.
Eppure i
Palestinesi in Israele non parlano molto del periodo pre-1967, e i documenti di
quel periodo non ne mostrano un quadro completo. È sorprendente come sia nella
poesia che troviamo un’indicazione di come fosse la vita sotto un governo
militare.
Natan Alterman era uno dei poeti più
famosi ed importanti della sua generazione. Teneva una rubrica settimanale,
chiamata “La Settima Colonna”, in cui commentava gli avvenimenti dei quali
aveva letto o sentito. A volte ometteva dettagli su date o persino luoghi degli
avvenimenti, ma forniva ai lettori informazioni sufficienti per capire a cosa
si riferisse. Spesso esprimeva i propri attacchi in forma poetica:
La notizia
è comparsa brevemente per due giorni, poi è scomparsa. E nessuno sembra
preoccuparsene, nessuno sembra saperne niente. Nel lontano villaggio di Um
al-Fahem, dei bambini – dovrei dire dei cittadini dello stato – giocavano nel
fango. E uno di loro sembrò sospetto a uno dei nostri valorosi soldati che gli
urlò: Stop!
Un ordine
è un ordine. Un ordine è un ordine, ma lo sciocco ragazzino non si fermò.
Scappò via. Così il nostro valoroso soldato sparò, naturalmente. E colpì il
ragazzo e lo uccise. Nessuno ne ha parlato.
Una volta
scrisse una poesia su due cittadini palestinesi che erano stati uccisi in Wadi
Ara. Un’altra volta raccontò la storia di una donna palestinese molto malata
che era stata cacciata, con i suoi due bimbi di tre e sei anni, senza
spiegazione, e spinta al di là del Giordano. Quando provò a rientrare, lei ed i
suoi figli furono arrestati ed imprigionati a Nazareth.
Alterman
sperava che la sua poesia sulla madre avrebbe scosso cuori e menti, o che
almeno avrebbe ottenuto qualche risposta ufficiale. Invece, la settimana
successiva scrisse:
E
questo scrittore si era immaginato erroneamente che la storia sarebbe stata
negata o chiarita. Ma niente, non una parola.
Ci sono
altre prove che Israele non era una democrazia prima del 1967. Lo stato
perseguiva una politica di spara-per-uccidere verso gli
sfollati che provavano a rientrare in possesso della propria terra, dei
raccolti, del bestiame, ed inscenò una guerra coloniale per far cadere il
regime di Nasser in Egitto. Anche le forze di sicurezza avevano il grilletto
facile, uccidendo più di cinquanta cittadini palestinesi durante il periodo tra
il 1948 ed il 1967.
L’assoggettamento delle minoranze in
Israele non è democratico
La cartina
al tornasole di ogni democrazia è il livello di tolleranza verso le minoranze
che vivono al suo interno. Da questo punto di vista, Israele non è affatto
all’altezza di una vera democrazia.
Ad
esempio, dopo le nuove acquisizioni territoriali, diverse leggi vennero
approvate per assicurare alla maggioranza una posizione dominante: le leggi
sulla cittadinanza, le leggi sulla proprietà terriera e, la più importante di
tutte, la legge sul ritorno.
Quest’ultima
garantisce cittadinanza automatica a qualunque Ebreo del mondo, dovunque sia
nato o nata. Questa legge in particolare è palesemente antidemocratica, in
quanto si accompagna ad un totale rifiuto del diritto palestinese al ritorno –
riconosciuto a livello internazionale dalla Risoluzione 194 del 1948 dell’Assemblea Generale
dell’ONU. Questo rifiuto non permette ai cittadini palestinesi
di Israele di ricongiungersi con i loro più stretti familiari o con quelli
cacciati nel 1948.
Negare ad
un popolo il diritto al ritorno nella propria terra, offrendo allo stesso tempo
questo diritto ad altra gente che non ha alcun legame con il territorio, è un
modello di pratica non democratica.
Si è poi
aggiunto un ulteriore livello di negazione dei diritti del popolo palestinese.
Quasi tutte le discriminazioni ai danni dei cittadini palestinesi di Israele
sono giustificate dal fatto che non fanno il servizio militare. Il nesso tra
diritti democratici e doveri militari si comprende meglio ripercorrendo gli
anni di formazione dello stato, quando i decisori della politica israeliana
cercavano di capire come avrebbero potuto trattare un quinto della popolazione.
Il loro
assunto era che i cittadini palestinesi non desideravano comunque fare parte
dell’esercito, e che il presunto rifiuto, a sua volta, giustificava una
politica discriminatoria nei loro confronti. Questa ipotesi fu messa alla prova
nel 1954, quando il ministro della difesa israeliano decise di chiamare a
servire nell’esercito i cittadini palestinesi idonei al reclutamento. I servizi
segreti assicurarono al governo che ci sarebbe stata una diffusa renitenza alla
leva.
Con loro
grande sorpresa, tutti i richiamati si presentarono all’ufficio di
reclutamento, con la benedizione del Partito Comunista, a quel tempo la forza
politica più potente ed importante del paese. I servizi segreti spiegarono in
seguito che la ragione principale era stata la noia degli adolescenti di vivere
in campagna e il loro desiderio di azione e di avventura.
Malgrado
questo episodio, il ministro della difesa continuò a spacciare l’idea di una
comunità palestinese riluttante a prestare servizio nell’esercito.
Inevitabilmente,
con il passare del tempo, i Palestinesi si sono effettivamente ribellati
all’esercito israeliano, che era diventato il loro perenne oppressore, ma il
governo ha sfruttato questo elemento come un pretesto per la discriminazione,
ciò che getta un dubbio enorme sulla pretesa dello Stato di essere una
democrazia.
Se sei un
cittadino palestinese e non hai fatto il servizio militare, il tuo diritto
all’assistenza governativa in quanto lavoratore, studente, genitore, o membro
di una coppia, è fortemente ridotto. Ciò si riflette soprattutto sull’accesso
alla casa e all’occupazione, visto che il 70% di tutte le industrie israeliane
sono considerate a rischio sicurezza (security-sensitive) e quindi
precluse a questo tipo di cittadini come posti in cui cercare lavoro.
L’assunto
implicito del Ministero della Difesa è che ai Palestinesi non solo non piace
fare il servizio militare, ma che essi costituiscono un potenziale nemico
interno di cui non ci si può fidare. Il punto debole di questo ragionamento è
che in tutte le maggiori guerre tra Israele e il mondo arabo, la minoranza
palestinese non si è comportata come ci si poteva attendere, perché non ha
formato una quinta colonna, né si è rivoltata contro il regime.
Questo
fatto, però, non ha aiutato i Palestinesi, che sono visti ancora
oggi come un problema “demografico” da risolvere. L’unica consolazione è
che, ad oggi, la maggior parte dei politici israeliani non crede che il modo di
risolvere “il problema” sia quello di trasferire o di espellere i Palestinesi (almeno
non in tempo di pace).
La politica israeliana della terra
non è democratica.
La pretesa
di essere una democrazia appare discutibile anche quando si considera la
politica dei fondi coinvolti nella questione della terra. Fin dal 1948, le
assemblee locali e le municipalità palestinesi hanno ricevuto fondi molto
inferiori a quelli percepiti dalla controparte israeliana. La scarsità di terra
disponibile, assieme alla scarsità di opportunità lavorative, ha creato una
realtà socioeconomica abnorme.
Per esempio, la
più ricca comunità palestinese, il villaggio di Me’ilya nell’Alta Galilea, sta
peggio del più povero insediamento cittadino israeliano del Negev. Nel
2011, il Jerusalem
Post ha riportato che, “tra il 1997 e il 2009, il
reddito medio israeliano era tra il 40 % e il 60 % più alto del reddito medio
arabo”.
Oggi più
del 90 % della terra è in mano al Jewish National Fund (JNF). Ai proprietari
terrieri non è permesso condurre transazioni con cittadini non-ebrei, e la
terra demaniale è al servizio prioritario di progetti nazionali: ciò significa
che, mentre vengono costruiti nuovi insediamenti ebraici, non c’è praticamente
nessun nuovo insediamento palestinese. Così, la più grande città
palestinese, Nazareth, nonostante il fatto che dal 1948 la sua popolazione sia
triplicata, non si è espansa di un kilometro quadrato, mentre la
città-insediamento costruita sopra, Upper Nazareth, ha triplicato la sua
superficie, su terra che è stata espropriata a proprietari palestinesi.
Altri
esempi di questa politica si possono riscontrare nei villaggi palestinesi
sparsi per la Galilea: dal 1948 ad oggi stati ridotti in superficie del 40% e
talvolta persino del 60 %, mentre nuovi insediamenti ebraici sono stati
costruiti sulle terre espropriate.
In altre
aree ciò ha dato inizio a massicci tentativi di “giudeizzazione”. Dopo il 1967,
il governo israeliano ha cominciato a preoccuparsi della mancanza di ebrei che
vivessero nel nord e nel sud dello Stato e ha pianificato di incrementarne il
numero. Per realizzare un simile cambiamento demografico era necessario
confiscare della terra palestinese da destinare alla costruzione di
insediamenti ebraici.
La cosa
peggiore è stata l’esclusione di cittadini palestinesi da questi
insediamenti. Questa sfacciata violazione del diritto di un cittadino a
risiedere dove vuole continua fino ad oggi, e tutti gli sforzi delle ONG
israeliane per i diritti umani per contrastare tale apartheid si sono rivelate
fino ad ora totalmente fallimentari.
La Suprema
Corte Israeliana è stata in grado di mettere in discussione la legalità di
questo procedimento solo in alcuni singoli casi, ma non ha messo in discussione
il principio in sé. Immaginate se in Gran Bretagna o negli Stati Uniti,
ai cittadini ebrei, o anche cattolici, fosse proibito per legge di vivere in
certi villaggi, quartieri o, magari, intere città. Come si può conciliare una
situazione del genere con il concetto di democrazia?
L’occupazione non è democratica.
Quindi,
visto l’atteggiamento tenuto verso due gruppi palestinesi – i rifugiati e le
comunità palestinesi in Israele – non si può pensare in alcun modo che lo stato
ebraico sia una democrazia.
Ma la
sfida più ovvia a quest’assunto è l’atteggiamento spietato nei confronti di un
terzo gruppo di Palestinesi: tutti quelli che, dal 1967, vivono sotto il
controllo diretto o indiretto di Israele, a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e
nella striscia di Gaza. Dalle infrastrutture legali poste in essere allo
scoppio della guerra, al potere assoluto, mai messo in discussione,
dell’esercito all’interno della Cisgiordania e fuori dalla Striscia di Gaza,
alla quotidiana umiliazione di milioni di palestinesi; l’unica democrazia del
Medioriente si comporta come una dittatura della peggior risma.
La
principale risposta israeliana, accademica e non, a quest’ultima accusa, è che
tutte queste misure sono temporanee—cambieranno se i Palestinesi, dovunque essi
si trovino, si comporteranno “meglio”. Ma se uno facesse delle ricerche, per
non dire vivesse nei Territori Occupati, si renderebbe conto di quanto ridicole
siano queste argomentazioni.
I
legislatori israeliani, come abbiamo visto, sono determinati a mantenere in
piedi l’occupazione, fino a che lo stato ebraico continua a rimanere intatto.
E’ parte di ciò che il sistema politico israeliano considera come lo status
quo, che è sempre migliore di qualsiasi cambiamento. Israele controllerà la
maggior parte della Palestina e, poiché questa conterrà sempre un numero molto
considerevole di palestinesi, potrà farlo solo con mezzi non democratici.
Inoltre,
nonostante sia evidente il contrario, lo stato israeliano sostiene che la sua
occupazione sia di tipo “illuminato”. Il mito qui è che Israele sia arrivato
con le migliori intenzioni di condurre un’occupazione benevola, ma che sia
stato costretto ad adottare soluzioni più dure a causa della violenza
palestinese.
Nel 1967,
il governo ritenne la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, componenti integranti
di “Eretz Israel”– la Terra di Israele– e questo atteggiamento continua
invariato da allora. Se considerate il dibattito interno ai partiti israeliani
di destra e di sinistra su questo nodo cruciale, vi renderete conto che il loro
disaccordo riguarda il modo in cui raggiungere tale fine, non la sua validità.
Tra il
pubblico più ampio, c’è stato, in effetti, un genuino confronto tra quelli che
potremmo chiamare i “salvatori” e i “custodi”. I “salvatori” ritenevano che
Israele avesse recuperato il cuore antico della sua terra e che non avrebbe
potuto sopravvivere in futuro senza di esso. Al contrario, i “custodi”
ritenevano che i territori avrebbero dovuto essere scambiati con la pace:
pace con la Giordania–nel caso della West Bank– e pace con l’Egitto, nel caso
della Striscia di Gaza. In ogni caso questo dibattito pubblico ebbe scarso
effetto sul modo in cui i più incisivi legislatori cercarono di individuare
strategie per governare i Territori.
La parte
peggiore di questa “occupazione illuminata” fu costituita dai metodi per il
controllo dei Territori. All’inizio l’intera zona era stata divisa tra spazi
“Arabi” e spazi potenzialmente “Ebraici”. Le aree densamente abitate dai
Palestinesi divennero autonome, gestite da collaboratori locali sotto un regime
militare. Questo regime fu rimpiazzato da una amministrazione civile solo nel
1981.
Le altre
aree, gli spazi “ebraici”, furono colonizzati dagli insediamenti e dalle basi
militari. Questa politica aveva l’intento di lasciare la popolazione, sia
in Cisgiordania che a Gaza, in spazi chiusi (enclaves) non collegati tra loro,
privi di aree verdi e senza alcuna possibilità di espansione urbana.
Le cose
non fecero che peggiorare quando, subito dopo l’occupazione, Gush Emunim
cominciò a costruire insediamenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza,
rivendicando il diritto di seguire una mappa Biblica di colonizzazione
piuttosto che quella del governo. Man mano che gli israeliani penetravano nelle
aree palestinesi densamente popolate, lo spazio destinato ai locali si riduceva
ulteriormente.
Ciò di cui
ogni progetto di colonizzazione ha bisogno in primis è la
terra – nei Territori Occupati questo obiettivo è stato raggiunto solo
attraverso una massiccia espropriazione, allontanando la gente dal luogo in cui
era vissuta per generazioni e confinandola in enclave, le cui situazioni
ambientali erano difficili da sostenere.
Quando si
sorvola la Cisgiordania si può vedere con molta chiarezza il risultato
cartografico di questa politica: cinture di insediamenti che dividono la terra
e ritagliano– per le comunità palestinesi–spazi piccoli, isolati e
scollegati. Le cinture di giudeizzazione separano villaggio da villaggio, i
villaggi dalle città e, talvolta, tagliano in due un singolo villaggio.
Questo è
ciò che gli accademici chiamano una “geografia del disastro”, a maggior ragione
da quando tali politiche si sono rivelate un disastro anche ecologico, che
prosciuga le sorgenti e rovina alcune delle parti più belle del paesaggio
palestinese.
Inoltre,
gli insediamenti sono diventati focolai in cui l’estremismo ebraico è cresciuto
in modo incontrollabile, e le vittime principali ne sono i palestinesi. Per
esempio, l’insediamento di Efrat ha rovinato il sito, patrimonio dell’umanità,
della Valle di Wallayah, presso Betlemme, e il villaggio di Jafne– vicino a
Ramallah– che era famoso per i suoi canali d’acqua sorgiva, ha perso la sua
specificità come attrazione turistica. Questi non sono che due piccoli esempi:
se ne potrebbero fare a centinaia.
Distruggere le case dei Palestinesi
non è democratico
La
demolizione di case non è una novità in Palestina. Come è successo con molti
dei più barbari metodi di punizione collettiva usati da Israele dopo il 1948,
le demolizioni furono escogitate e usate dal governo del Mandato Britannico
durante la Grande Rivolta Araba del 1936-39.
Quella fu
la prima rivolta palestinese contro la politica filo-sionista del Mandato
Britannico, e ci vollero tre anni prima che l’esercito britannico riuscisse a
domarla. Nel frattempo, i Britannici distrussero circa duemila case nel
corso delle varie punizioni collettive inflitte alla popolazione locale.
Israele
cominciò a demolire case praticamente dal primo giorno dopo l’occupazione
militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. L’esercito ha
distrutto centinaia di case ogni anno, in risposta a determinate azioni
compiute dai singoli componenti della famiglia.
Si
trattasse di piccole infrazioni alle leggi militari o della partecipazione ad
atti violenti contro l’occupazione, gli Israeliani mandavano subito i bulldozer
per spazzar via non solo una costruzione materiale, ma anche qualunque centro
di vitalità e di presenza. Anche nell’area della Gerusalemme metropolitana
(così come all’interno di Israele) la demolizione veniva usata per punire
l’ampliamento abusivo di una casa già costruita o il mancato pagamento di
bollette.
Un’altra
forma di punizione collettiva che è comparsa di nuovo nel repertorio israeliano
consiste nel blocco delle case. Immaginate che
tutte le porte e le finestre della vostra casa siano bloccate con cemento,
calce e pietre, in modo che non possiate rientrarci o recuperare qualcosa che
non avete fatto in tempo a portar via. Ho cercato a lungo nei miei libri di
storia, ma non ho trovato altri esempi di una così brutale misura in
nessun’altra parte del mondo.
Schiacciare
la resistenza dei Palestinesi non è democratico
Inoltre,
grazie a questa “occupazione illuminata,” i coloni hanno potuto formare delle
bande di vigilantes che molestano la gente e ne distruggono le proprietà.
Queste bande hanno cambiato la loro tattica nel corso degli anni.
Durante
gli anni 1980, usavano veri e propri metodi terroristici: dal ferimento di
leader palestinesi (uno dei quali perse le gambe durante un attacco), al piano
per far saltare le moschee sul Monte del Tempio a Gerusalemme.
Nel nuovo
millennio, si sono dedicati a molestare quotidianamente i Palestinesi:
sradicando i loro alberi, distruggendo i loro raccolti, e sparando a caso sulle
loro case e le loro auto. Dal 2000, sono stati segnalati almeno cento attacchi
al mese di questo tipo in alcune zone come ad Hebron, dove i cinquecento
coloni, con la tacita collaborazione dell’esercito israeliano,
hanno molestato i residenti delle comunità vicine in modi ancora più brutali.
Fin
dall’inizio dell’occupazione, quindi, ai Palestinesi sono rimaste due
possibilità: o accettare il fatto di essere incarcerati continuativamente in
una mega-prigione per tempi lunghissimi, o sfidare la potenza del più forte
esercito del Medio Oriente. Quando i Palestinesi hanno resistito –come hanno
fatto nel 1987, 2000, 2006, 2012, 2014 e 2016–, sono stati trattati come
fossero soldati e unità di un esercito convenzionale. E così, villaggi e città
sono stati bombardati come se fossero basi militari e la popolazione civile è
stata colpita come se fosse un esercito sul campo di battaglia.
Oggi ormai
sappiamo sin troppo bene cosa significa vivere sotto occupazione, prima e dopo
Oslo, perché possiamo prendere sul serio l’affermazione che meno resistenza
vuol dire meno oppressione. Gli arresti senza processo, che abbiamo visto così
spesso nel corso degli anni, la demolizione di migliaia di case, l’uccisione o
il ferimento di innocenti, il prosciugamento delle sorgenti d’acqua, tutto ciò
sta a testimoniare che siamo di fronte a uno dei più brutali regimi dei nostri
tempi.
Amnesty
International documenta ogni anno in modo esauriente la natura
dell’occupazione. Questo è ciò che scrive nel suo Rapporto2015:
In
Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno commesso
uccisioni illegali di civili palestinesi, minori compresi, ed hanno incarcerato
migliaia di Palestinesi che protestavano o comunque si opponevano contro la
permanente occupazione militare di Israele, trattenendone centinaia in
detenzione amministrativa. Torture ed altri maltrattamenti hanno continuato a
imperversare e sono stati commessi impunemente.
Le
autorità hanno continuato a promuovere insediamenti illegali in Cisgiordania,
ed hanno limitato drasticamente la libertà di movimento dei Palestinesi, con un
ulteriore inasprimento di tali limitazioni nel corso di un aumento di violenza
a partire da metà ottobre, quando si son verificati attacchi palestinesi a
civili Israeliani seguìti da esecuzioni apparentemente extragiudiziali da parte
delle forze israeliane. Coloni israeliani in Cisgiordania hanno attaccato i
Palestinesi e le loro proprietà con sostanziale impunità. La Striscia di Gaza è
rimasta sotto il blocco militare israeliano che rappresenta una punizione
collettiva sugli abitanti. Le autorità hanno continuato a demolire case
palestinesi in Cisgiordania e in Israele, soprattutto nei villaggi beduini
della regione del Negev, trasferendo forzatamente i residenti.
Vediamo le
cose punto per punto. Innanzitutto gli assassinii (quelli che il Rapporto
di Amnesty chiama “uccisioni illegali”): circa 15mila Palestinesi sono stati
uccisi “illegalmente” da Israele dal 1967. Di questi, duemila erano minori.
Imprigionare Palestinesi senza
processo non è democratico
Un’altra
caratteristica della “occupazione illuminata” sono le carcerazioni senza
processo. Nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, un Palestinese su cinque
ha fatto questa esperienza.
È
interessante confrontare questa pratica israeliana con procedure americane
simili del passato e del presente, perché alcuni critici del movimento BDS
affermano che le pratiche USA sono di gran lunga peggiori. In realtà, il
peggior esempio americano è stato l’imprigionamento senza processo di
100mila cittadini giapponesi durante la seconda guerra mondiale, 30mila dei
quali detenuti poi per la cosiddetta “guerra al terrore.”
Nessuno di
questi numeri si avvicina al numero dei Palestinesi che hanno subìto questo
trattamento, compresi i bambini, i vecchi e i detenuti per lunghi periodi.
Subire un
arresto senza processo è un’esperienza traumatica. Non sapere di cosa sei
accusato, non aver contatti con un avvocato e quasi nessun contatto con i
familiari sono solo alcune delle preoccupazioni che tormentano il prigioniero.
Cosa ancor più brutale, molti di questi arresti vengono usati come uno strumento
per spingere le persone a diventare collaboratori. Diffondere pettegolezzi o
mortificare le persone per il loro vero o presunto orientamento sessuale, sono
altri metodi usati spesso per spingere alla complicità.
Quanto
alla tortura, l’affidabile sito web Middle East
Monitor ha pubblicato uno sconvolgente articolo in cui si
descrivono i duecento metodi usati dagli Israeliani per torturare i
Palestinesi. L’elenco si basa su un rapporto dell’ONU e su un rapporto
dell’organizzazione israeliana B’Tselem per i diritti umani. Tra i
vari metodi ci sono le percosse, oppure incatenare per ore i prigionieri a
porte o a sedie, rovesciar loro addosso acqua calda o fredda, divaricare le
dita o torcere i testicoli.
Israele
non è una democrazia
Quello che
dobbiamo contestare, quindi, non è solo la pretesa di Israele di portare avanti
un’occupazione illuminata, ma anche la sua pretesa di essere una democrazia. Il
comportamento che tiene verso milioni di persone sotto il suo dominio smentisce
questo imbroglio politico.
Ciononostante,
anche se larga parte della società civile nel mondo nega a Israele la sua
pretesa di democrazia, i leader politici, per una serie di ragioni, lo trattano
ancora come un membro dell’esclusivo club degli stati democratici. In un certo
senso, il successo del movimento BDS riflette la frustrazione di molte società
di fronte alle politiche dei loro governi verso Israele.
Per la
maggior parte degli Israeliani, queste critiche sono, nel migliore dei casi,
irrilevanti oppure sono addirittura calunniose. Lo stato di Israele resta
aggrappato all’idea di essere un occupante benevolo. Chi è favorevole alla tesi
della “occupazione benevola,” sostiene che, rispetto al cittadino ebreo medio
in Israele, i Palestinesi stanno molto meglio sotto occupazione e non hanno
alcuna ragione di opporvisi, tanto meno se lo fanno con la forza. E se uno è un
sostenitore acritico di Israele all’estero, finisce per accettare anche lui
queste affermazioni.
Ci sono,
tuttavia, settori della società israeliana che riconoscono la validità di
alcune delle affermazioni fatte qui. Negli anni 1990, seppure con vari livelli
di convinzione, un numero significativo di accademici, giornalisti e artisti
ebrei hanno espresso dei dubbi sulla definizione di Israele come una
democrazia.
Ci vuole
una certa dose di coraggio per contestare i miti fondativi della propria
società e del proprio stato. È per questo che alcuni dei contestatori hanno poi
fatto marcia indietro rispetto alle loro coraggiose posizioni iniziali e son
tornati a seguire pedissequamente la linea generale.
Tuttavia,
nell’ultimo decennio del secolo scorso, [questi intellettuali] hanno per un
certo tempo prodotto degli studi che mettevano in dubbio l’assunto di un
Israele democratico. Descrivevano anzi un Israele che apparteneva a un’altra
comunità: quella delle nazioni non-democratiche. Uno di loro, il
geografo Oren Yiftache ldella Ben Gurion University,
ha definito Israele come una etnocrazia, cioè un regime che governa uno stato
multietnico esercitando una preferenza legale e formale per un gruppo etnico al
di sopra degli altri. Altri sono andati anche oltre, etichettando Israele come
uno stato di apartheid o uno stato di insediamento coloniale.
In poche
parole, quali che fossero le descrizioni offerte da questi studiosi, la
“democrazia” non era una di queste.
Fonte: Information
Clearing House, 12 giugno 2018 tratto dal libro Ten Myths
About Israel, uscito lo scorso anno per Verso Book. L’articolo
era stato inizialmente pubblicato da “Jacobin” . La traduzione di Rosaria Brescia
e Anna Maria Torriglia è a cura di AssopacePalestina,
dal cui sito abbiamo ripreso questa versione.
Ilan Pappe è uno storico
israeliano e un attivista socialista. È professore al College
of Social Sciences and International Studies dell’Università di Exeter,
direttore dell’European Centre for Palestine Studies di quella università, e
condirettore dell’Exeter Centre for Ethno-Political Studies.
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