Sono almeno 450 le vittime delle misure migranticide del governo in
carica e di Salvini in specie. Alludo, ovviamente, alla guerra aperta e
senza remore condotta contro le Ong che praticano ricerca e soccorso in mare e
all’interdizione dei porti italiani a imbarcazioni che osino salvare vite
migranti: non solo alle navi delle Ong, ma anche a quelle dell’Operazione
Sophia, a un rimorchiatore battente bandiera italiana, finanche a
un’imbarcazione della nostra Guardia costiera. Arrogandosi, il ministro
dell’Interno, ruoli che non gli competono, fino a invocare le manette per i
sopravvissuti ribellatisi alla prospettiva d’essere deportati nell’inferno
libico. In realtà, tutto ciò s’inscrive
nel contesto di quella che, sulla scia di Michel Foucault, potrebbe
definirsi tanatopolitica,
configurata dalle scelte e dall’operato di buona parte d’istituzioni e Stati
dell’Unione europea.
Basta dire
che, nel momento in cui scrivo, dall’inizio di quest’anno più 1.422 sono gli
scomparsi nel corso della traversata del Mediterraneo, cui devono aggiungersi i
46 lungo percorsi terrestri europei. E’ una cifra agghiacciante se si considera
il drastico calo delle partenze e degli arrivi: i primi di maggio erano
diminuiti almeno del 75 per cento rispetto all’anno precedente, sicché, come
documenta l’UNHCR, se nel 2017 si
contava una vittima ogni otto profughi, nel 2018 siamo già a uno ogni sette,
nonostante – ripeto – la netta riduzione dei “flussi” (come si usa dire con una
brutta metafora naturalistica).
Sì, il
Mediterraneo è ormai divenuto un vasto cimitero acquatico e il Canale di
Sicilia ha “guadagnato” il sinistro primato di confine più letale al mondo. A
tale primato hanno contribuito non solo la guerra contro le Ong, ma anche la
fine della missione Mare Nostrum nonché
gli attuali, ripetuti tentativi, praticati dal ministro dell’Interno con
inusitato cinismo, d’intralciare perfino le operazioni di salvataggio condotte
dalla Guardia costiera e dalla Marina militare, che in passato avevano salvato
centinaia di migliaia di vite.
Non si creda, tuttavia, che si perisca solo ingoiati
dalle acque del Mare nostrum.
Per merito di UNITED – rete “contro il nazionalismo,
il razzismo, il fascismo e in supporto di migranti e rifugiati”, la quale coinvolge ben 550
organizzazioni della società civile, provenienti da 48 diversi paesi europei
– sappiamo che la tanatopolitica dell’Ue
uccide, direttamente o indirettamente, anche in altre forme, le più svariate.
Attraverso un accurato monitoraggio condotto nel corso del
tempo, tale rete ha compilato una lista, relativa al periodo che va dal 1993 al 2018, di ben 34.361 morti di rifugiati e migranti
attribuibili alle “funeste politiche restrittive della Fortezza Europa”,
alla “militarizzazione delle frontiere, alle leggi sull’asilo, alle politiche
di detenzione e deportazione”. Questo catalogo è assai parziale, si avverte,
poiché “molto probabilmente migliaia di vittime
non sono state mai ritrovate”.
L’inventario
funesto ci dice che si perde la vita uccisi dalla polizia o dalle guardie di
frontiera di questo o quel Paese, europeo o non. Si muore travolti,
spesso intenzionalmente, da treni o
camion, come accade di frequente nei pressi di Calais. Si perisce, delle volte
bruciati vivi, nel corso di attacchi a centri “di accoglienza” da parte di
gruppi di estrema destra. Una volta raggiunto l’agognato suolo europeo, si può
soccombere a causa del diniego di prestazioni mediche. In non pochi casi si è
uccisi non appena toccato il suolo di Paesi quali l’Iraq e l’Afghanistan, dai
quali si era fuggiti per esservi poi deportati. Si
muore anche suicidi, e in gran numero, allorché si apprende o si teme
fondatamente che la propria domanda di asilo sarà rifiutata oppure a causa
delle intollerabili condizioni di vita del centro “di accoglienza”.
Bisognerebbe
darsi la pena – come ha fatto chi scrive – di leggere un caso dopo l’altro di
questa lista (meritoriamente pubblicata dal manifesto,
il 22 giugno scorso, in forma di supplemento), per immaginare quale abisso di disperazione abbia spinto
circa 450 persone, fra le quali non pochi minorenni, a togliersi la vita, dopo
aver coraggiosamente affrontato viaggi costellati da ogni sorta di pericoli,
sofferenze e orrori (basta pensare ai lager libici).
Dell’ampio
catalogo riporto solo alcuni esempi, tra i più emblematici, tragici, non
remoti. Il 22 aprile 2018, nel centro per richiedenti-asilo di Eckolstädt, in Germania,
un’eritrea di diciannove anni strangola il suo bambino di sei mesi e poi s’impicca.
Tra gennaio e febbraio del 2017, in Svezia, cinque adolescenti si suicidano in
diversi centri per richiedenti-asilo. Il 25 aprile 2016 si uccide un
diciassettenne maliano, illegittimamente rinchiuso in prigione a Loiret, in
Francia. Il 16 gennaio 2012, una ventiquattrenne, preveniente dallo Sri Lanka
dà fuoco alla stanza del centro per rifugiati di Førde, in Norvegia, uccidendo
se stessa e il suo bambino di due anni: la sua domanda d’asilo era stata
respinta. Infatti, tra i “diniegati”,
come si dice in gergo burocratico, non pochi sono coloro che scelgono il modo
più atroce di togliersi la vita facendosi torce umane: l’auto-immolazione, si
sa, è per eccellenza atto estremo di protesta e/o rivolta (si
veda: A. Rivera, Il fuoco della
rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa, Dedalo, Bari 2012).
Che il suicidio sia uno degli esiti tragici, dal
carattere strutturale,
della tanatopolitica europea è dimostrato anche da un caso assai recente. Il 4 luglio scorso 69 afghani
sono deportati dalla Germania verso il loro paese di origine. Il ministro
dell’Interno, Horst Seehofer, una sorta di Salvini in versione teutonica, osa
compiacersi pubblicamente che ciò avvenga giusto il giorno del suo compleanno,
quasi fosse un regalo. Uno
dei deportati s’impiccherà non appena arrivato a Kabul. Aveva ventitre anni e,
pur risiedendo in Germania sin dalla prima adolescenza, aveva visto respinta,
in via definitiva, la sua domanda d’asilo.
Ho riportato
questi casi per tentare di sottrarre all’indistinzione, alla riduzione a massa
irrilevante, se non alla reificazione, le biografie di questi tragici eroi del
nostro tempo. Sebbene insufficiente a scardinare il circolo vizioso del
razzismo, ormai dilagante, l’esercizio
dell’empatia, se praticato da
un buon numero di cittadini/e, potrebbe contribuire almeno a incrinarlo, quel
circolo vizioso che lega razzismo istituzionale, mediatico, “popolare”. Certo,
viviamo in un tempo infelice, quando perfino
certi dotti, di sicuro antirazzisti, perlopiù d’orientamento postcoloniale,
disprezzano apertamente l’etica della compassione, che, pur se intesa nel senso
più letterale quale partecipazione alla
sofferenza altrui, a loro dire sarebbe nient’altro che un retaggio del
paternalismo colonialista.
Per non dire di altri i quali, dalle colonne di un
quotidiano assai di sinistra, collocandosi inconsapevolmente sulla scia del
vecchio giudizio dalemiano a proposito della Lega quale “costola della
sinistra”, denegano o minimizzano come semplice,
legittimo voto di protesta quello guadagnato da Salvini e co. grazie a elettori
un tempo di sinistra. I
quali esprimerebbero come possono la loro protesta, essendo anch’essi
vittime, quasi quanto i migranti. Vi è
anche qualche dotto che, minimizzando il ruolo del tema immigrazione e dello
stesso razzismo rispetto ai risultati elettorali, arriva a sostenere che quella
minoranza d’italiani/e la quale teme di vivere in un Paese fascista e razzista
sarebbe votata ad affermare solo il proprio, esclusivo “suprematismo morale”.
Eppure è
tutt’altro che azzardato ipotizzare, come faccio da qualche tempo, che siamo nella fase marcescente del neoliberismo o, per dirla in altri
termini, del capitalismo finanziarizzato. Intendendo quel qualificativo nel
senso di ciò che, pur affetto da putredine, sopravvive annunciando un possibile
esito di tipo totalitario. A tal proposito,
non è anacronistico citare Hannah Arendt, la quale ne La banalità del male (1963)
così scriveva: “Certamente il fascismo è stato già sconfitto una volta, ma
siamo ben lungi dall’aver sradicato definitivamente questo male supremo del
nostro tempo: le sue radici sono infatti profonde e si chiamano antisemitismo,
razzismo, imperialismo”.
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