Tre piccole storie, piccole in quanto brevi da
raccontare, ma lunghe tutte e tre oltre settant’anni. Più lunghe dell’età dei
tre protagonisti. Il più giovane, Basel Ayoub, ne ha 18 e al momento è sulla
sedia a rotelle. Il più vecchio, Mohammed E., non raggiunge i 60 e cammina
sorretto da due stampelle. Come Khaled Bashir, che potrebbe essere il figlio di
Mohammed e il padre di Basel e che, come loro, è stato ferito dagli snipers
israeliani nel concentramento di Abu Safia, al nord della Striscia, durante i venerdì
della Grande Marcia del Ritorno.
Incontrati per caso nell’ospedale Al Awda, a
Jabalia, dove eravamo andati per fare il punto della situazione in attesa della
marcia di domani con la quale i palestinesi riproporranno le loro
richieste di rispetto delle Risoluzioni Onu e dove gli israeliani
riproporranno la loro risposta negativa attraverso lacrimogeni e pallottole. Lo
sanno bene tutti, eppure non si demorde. Il numero dei manifestanti si è
ridotto rispetto ai primi venerdì, ma c’è uno “zoccolo duro” di notevole
tenacia che ha deciso di non cedere finché i palestinesi non avranno raggiunto
il loro obiettivo, peraltro legale. Questo ci dice il giovane Basel, ferito ben
tre volte ma regolarmente tornato al border. Questo ci conferma il contadino
Mohammed, padre di dieci figli tra a 12 e i 30 anni, i cui più grandi, ci dice
con orgoglio, sono tutti laureati, uno in ingegneria, una in lingue, una in
scienze mediatiche e così via.
Mohammed lo incontriamo sulla porta
dell’ascensore e, nonostante si appoggi alle stampelle, ci lascia il passo
invitandoci ad entrare prima di lui. E’ così che cominciamo a parlare e ci
racconta la sua storia. Era il 14 maggio, il giorno della Nakba, quello in cui
Trump, alleato numero uno di Israele, concretizzava il furto di Gerusalemme, e
tutta la Palestina insorgeva. Lui era andato al border di Abu Safia a gridare
il suo sdegno come decine di migliaia di palestinesi in altri punti del border.
Quel giorno fu una vera mattanza, Israele dovrebbe portarne a lungo la
vergogna, ma ancora è presto, ancora seguita a ferire e uccidere impunemente
perché è comunque sostenuto da importanti alleati ai quali la sua funzione è
utile.
Quel giorno Mohammed fu colpito a entrambe le
gambe. Gli chiediamo se per caso si trovasse sotto la rete e la sua risposta
decisa è “No, là mi avrebbero ammazzato. Ero nella zona delle tende ma i colpi
arrivavano anche lì”. Lui è un rifugiato, nato nel campo profughi di Jabalia
dove i genitori, cacciati dal loro villaggio, avevano avuto la tenda dell’URWA
circa 70 anni fa. Nonostante la condizione difficile, anche Mohammed, come la
maggior parte dei gazawi, è riuscito a far studiare i suoi figli pur essendo un
semplice allevatore di polli. Ha lo sguardo vivo e il sorriso sempre accennato
che fa supporre si tratti di una persona che sa bene quel che vuole. Ora vuole
che l’assedio finisca, vuole libertà e lavoro adeguato per i suoi figli e per i
ragazzi come loro, ma non tornerà al border i prossimi venerdì, perché non
riesce a camminare e se un cecchino volesse ucciderlo sarebbe facile preda e
lascerebbe la sua famiglia senza sostegno. Quindi per un po’ sarà fermo e
sosterrà la Great march solo a distanza. Ci mostra il segno della prima ferita
ormai cicatrizzata, mentre la seconda dovrà essere sottoposta ad altra operazione
ed è qui per questo motivo. L’ospedale Al Awda, a parte la professionalità
indiscussa di medici e infermieri, ha un suo statuto improntato a un’ideologia
di carattere socialista (in senso proprio) e quindi medici e infermieri si
pongono volontariamente a servizio dei pazienti considerando questo un dovere
morale che si aggiunge a quello derivante dal giuramento di Ippocrate.
Lasciato Mohammed alle cure mediche con tanti
auguri di buona fortuna, incrociamo un uomo giovane, magrissimo e con l’aria
molto severa. Anche lui ha una stampella per aiutarsi a camminare. Mentre è in
attesa del medico gli facciamo qualche domanda. E’ anche lui un ferito della
Great March. Si trovava vicino all’ambulanza, insieme al gruppo dei paramedici
che si occupavano dei soccorsi quando gli hanno sparato. Lui non è un
paramedico era soltanto vicino ed offriva il suo aiuto, come fanno in tanti in
un clima di grande solidarietà cui abbiamo assistito personalmente in più
occasioni. L’ambulanza dovrebbe essere anche il luogo più sicuro, questo
ovviamente se si rispettano le norme del diritto internazionale, e invece gli
snipers israeliani hanno sparato proprio contro il personale e i veicoli di
soccorso. Era il 6 giugno quando l’hanno colpito. Khaled ci tiene a specificare
che per lui era una marcia veramente pacifica, che è davvero la fine
dell’assedio e una vita di pace quello per cui lui era lì a dimostrare. Ci dice
che si trovava abbastanza vicino alla rete di separazione, ma non tanto da
rappresentare un pericolo, che poi, essendo disarmato, non avrebbe comunque
potuto esserlo. Lui era vicino all’ambulanza e voleva aiutare a soccorrere i
ragazzi che erano stati feriti, ma i cecchini, ci ripete, hanno sparato contro
i soccorritori.
Parlando della sua vita privata, Khaled ci
dice che ha due bambini e che vorrebbe vederli crescere fuori da questa galera.
Loro sono nati sotto assedio e la libertà la sognano per averne sentito
parlare. A Khaled l’assedio ha interrotto anche il suo sogno di diventare
ingegnere perché la mancanza di denaro dovuta alla situazione lo ha costretto
ad abbandonare gli studi. Frequentava l’Al Azhar University fino a dieci anni
fa ma non aveva i mezzi per vivere e così ha lasciato gli studi per trovare
qualche lavoro di sostentamento. Ha fatto il muratore, il bracciante, ha fatto
tutti i lavori che gli capitavano e ora fa il contadino. In questo modo riesce
a sbarcare il lunario con la sua famiglia. E i suoi sogni si trasferiscono sui
suoi figli.
Non è pentito di essere andato al border, ci
ripete che c’è andato in pace ed ora ha una doppia ferita: quella alla gamba,
che sembra non voler guarire e quella nell’animo perché lui voleva per davvero
andare in pace e lo hanno colpito gratuitamente sparando contro l’ambulanza,
sparando nel mucchio dei soccorritori con tanto di simbolo ben evidente della
Mezzaluna Rossa (la Croce Rossa locale). Questo, ce lo ripete più volte, perché
riapre vecchie ferite ed è la “prova che Israele non vuole la pace, non vuole
riconoscere i nostri diritti e ci spara addosso piuttosto che riconoscerli.”
Khaled non potrà riprendere a studiare, ma non abbandona il sogno di vedere la
Striscia di Gaza libera dall’assedio e di veder riconosciuto il diritto
affermato nella Risoluzione Onu 194. Lo lasciamo appena arriva il medico che lo
ha in cura e non facciamo cinque passi per raggiungere l’ufficio che ci
incrociamo con un giovane su una sedia a rotelle spinta da un uomo con accanto
un bambino. Si tratta Basel Ayoub, 18 anni.
Basel è stato ferito ad Abu Safia, anche lui
come Mohammad e Khaled, è per questo che sono tutti nell’ospedale Al Awda,
perché i feriti vengono portati negli ospedali più vicini al campo in cui si
trovavano a manifestare. Infatti qui all’Al Awda hospital, come negli altri
ospedali della Striscia, stanno già organizzandosi per l’emergenza perché sanno
che domani ci sarà una nuova mattanza e dovranno essere pronti. Salvare una
vita o salvare una gamba è questione a volte di momenti, oltre che di strumenti
e medicinali che scarseggiano sempre più. Così ci ha detto Rami, il capo infermiere
del settore emergenza che siamo andati a salutare prima di entrare nell’altro
settore dell’ospedale.
Tornando a Basel la sua storia ha
dell’incredibile. All’inizio non ha voglia di parlare ed è un po’ scostante.
Rispetto la sua ritrosia, lo saluto e gli faccio i miei auguri, chiedo a suo
padre da dove vengono e mi dice da Brer. Ma Brer non c’è più. Brer era un
villaggio vicino all’attuale Ashkelon, quindi capisco che sono rifugiati.
Infatti la domanda giusta da fare a un palestinese per sapere dove vive non è
“di dove sei?” ma “dove abiti”, perché “di dove sei” è in fondo tutto
compreso nelle ragioni della Grande Marcia del Ritorno. La risposta che si ha
in questi casi sembra dire “sono del villaggio o della città da cui hanno
cacciato la mia famiglia e in cui ho il diritto di tornare come stabilisce
l’Onu nella Risoluzione 194” cioè la risposta è in uno dei due motivi per cui i
palestinesi al border rischiano la vita. L’altro motivo è la fine dell’assedio.
Vive a Beitlaya, Basel, ma è di Brer, così risponde
suo padre e a questo punto Basel inizia a parlare. La sua storia ha veramente
dell’incredibile e forse chi legge non ci crederà. I medici confermano che è
vero. Praticamente l’ultima pallottola che ha colpito questo ragazzo alla
coscia aveva una potenza d’attrito tale che è uscita dalla sua gamba ed ha
ferito altri tre ragazzi entrando ed uscendo dall’uno all’altro fino a fermarsi
nel quarto. Gli esperti di balistica potranno fare le loro ipotesi, noi ci
limitiamo a parlare con Basel visto che ora è disposto a raccontarci qualcosa
di sé. Ha finito la scuola superiore ma non sa se andrà all’università, ha
tanti fratelli e tutti vanno al border a prescindere dall’età, perché tutti
sono… di Brer!
Ma la storia di Basel è una sorta di allegoria
della storia di questo popolo. L’ultima ferita, quella per cui è sulla sedia a
rotelle e ha subito e dovrà ancora subire altre operazioni chirurgiche, è un
“regalo” del 16 luglio. Lui era uno dei ragazzi che rischiano la vita per
proteggere se stessi e gli altri col fumo nero dei “caucciù”, come chiamano i
vecchi copertoni bruciati. Ma i caucciù sono efficaci come cortina protettiva
solo se il fumo è vicino ai cecchini, altrimenti non serve. Perciò qualcuno
deve rischiare e Basel è uno dei tantissimi ragazzi (e anche qualche ragazza)
che rischiano correndo a portare il loro pezzetto di difesa dai micidiali
proiettili dei killers appostati oltre la rete.
Abbiamo detto che la storia di questo ragazzo
è una sorta di allegoria di questo popolo, ma non lo è per questa ferita, ma
perché questa è la terza ferita dal giorno in cui è stata lanciata la
marcia. La prima, un proiettile al ginocchio destro, l’ha ricevuta il 30 marzo,
ma la ferita non lo ha fermato e il 13 aprile si trovava di nuovo a manifestare
quando un cecchino gli ha sparato alla spalla. Gli ha sparato alla spalla
mentre correva per tornare verso il campo dopo aver lanciato il caucciù il cui
fumo forse lo ha protetto. Infatti il cecchino che lo ha colpito – alle spalle
è bene puntualizzare – probabilmente ha sbagliato la mira di qualche centimetro
e Basel, ancora vivo e determinato, ha seguitato ad andare al border a fare
quello che lui, e suo padre conferma, ritiene essere suo dovere. In questo
senso la sua storia di ferite sembra un po’ il paradigma della storia
della Palestina: non conta quante volte si cade, conta rialzarsi e resistere.
In ogni famiglia palestinese c’è almeno un
martire, e quel che Israele non ha ancora capito – noi seguitiamo a ripeterlo
sapendo che la nostra voce non è tanto forte da raggiungere Israele, ma
seguitiamo a ripeterlo perché non si dimentichi – è il fatto che i martiri non
nutrono la rassegnazione alla sconfitta, ma nutrono la determinazione alla
resistenza e Basel ce lo dimostra dicendoci che Mohammed Ayoub, l’ultimo
ragazzino di 13 o 14 anni che Israele ha ucciso alcuni giorni fa, era suo
cugino e che il dolore per la sua morte si è trasformato nella maggior
convinzione che resistere sia un dovere.
Il padre di Basel accarezza il bambino che gli
sta vicino e dice “anche lui viene alla marcia, tutti noi andiamo alla marcia,
non abbiamo perso un solo venerdì. Noi non andiamo per farci uccidere ma per
dire che vogliamo vivere e che abbiamo il diritto di vivere liberi”.
Facciamo tanti auguri a Basel e a suo padre ed
io e Haneen Wishah, la bravissima coordinatrice dell’UHWC cui l’ospedale Al
Awda è collegato e che mi ha fatto da guida e da interprete, riprendiamo i
nostri diversi lavori.
Tutto questo succedeva ieri. Ora, dopo aver
sbobinato le interviste ed aver finito di scrivere queste righe, sento il
Muezzin che chiama alla preghiera. E’ la preghiera di mezzogiorno. Tra poco si
comincerà ad andare al border.
Israele oggi ha minacciato ancor più violenza
in risposta al lancio degli aquiloni con la codina in fiamme. Israele
minacciava violenza, e rispettava la promessa, anche prima degli aquiloni.
Israele pratica violenza e trova voci mediatiche pronte a giustificarla,
qualunque sia la giustificazione. Sempre! I palestinesi lo sanno ma non hanno
le voci sufficientemente alte per presentare al mondo la verità e, quindi, i
loro diritti continuamente violati. Ma esattamente come Basel, vanno avanti
convinti che prima o poi la giustizia gli aprirà le braccia.
Intanto tra poco si partirà per i vari punti
del confine, laddove si va per affermare quel diritto alla libertà che Israele
non riesce a conculcare neanche con i suoi aerei da guerra, gli stessi che usa
contro gli uomini e contro gli aquiloni che però, ne siamo sicuri, anche
oggi seguiteranno a volare.
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