Non è vero che non si può abbassare l’età pensionabile a 64 anni. Costa 9 e
non 18 miliardi. Molti interventi ridurrebbero la precarietà delle nostre vite.
E senza mettere in contrapposizione ex giovani e anziani o lavoratori stranieri
con italiani. Dagli stranieri 5 miliardi annui di saldo attivo.
Il dibattito
economico e politico riporta l’attenzione sulla previdenza, sui suoi bilanci e
sulle connessioni con le tendenze demografiche e i flussi migratori.
Poiché il
compito dei sistemi pensionistici è trasferire agli anziani parte del reddito
prodotto dagli attivi, è normale che l’aumento del rapporto numerico tra i
primi e i secondi connesso all’invecchiamento della popolazione faccia crescere
l’onerosità di questo trasferimento. Lo stesso accade se la quota di
popolazione occupata e la produttività diminuiscono. Il fatto è che nell’ultimo
quarto di secolo, specialmente in Italia, le politiche economico-sociali
improntate alla piena libertà dei mercati e all’austerità dei conti pubblici
hanno contribuito a tenere bassi sia il tasso di occupazione sia la dinamica
della produttività.
Per quanto
riguarda le tendenze demografiche, le nascite degli italiani, che negli anni
Sessanta avevano superato il milione annuo, attualmente sono scese fino a meno
della metà. Questo forte calo è stato parzialmente attenuato dal flusso degli
immigrati che, peraltro, non è tra i più elevati in Europa: in base agli ultimi
dati Eurostat riferiti al gennaio 2016, l’incidenza della popolazione straniera
su quella totale è dell’8,3% in Italia, del 10,5% in Germania, del 9,5% in
Spagna, dell’8,6% in Gran Bretagna e del 6,6% in Francia.
Fino al
2014, l’ingresso di stranieri è riuscito a impedire la decrescita della nostra
popolazione, ma successivamente è iniziato il declino dei residenti, alimentato
anche dalla ripresa delle nostre emigrazioni che includono molti giovani
laureati. Il complessivo calo demografico contribuisce ad accentuare l’aumento
del rapporto tra anziani e occupati e riduce le potenzialità della crescita
economica. Le prospettive sono ulteriormente appesantite dal fatto che le
previsioni economiche e previdenziali, finora basate sull’attesa – tra il 2015
e il 2020 – di un flusso annuo di immigrati oscillante tra i 270.000 e i
240.000, dovranno essere riviste in peggio se diventeranno permanenti le nuove
barriere all’entrata che vanno affermandosi anche nel nostro Paese.
L’offerta di
lavoro degli stranieri entra poco in concorrenza con quella degli italiani
poiché corrisponde a mansioni, specialmente nei servizi, per le quali c’è poca
disponibilità nella nostra popolazione attiva. Il calo degli immigrati potrebbe
lasciare scoperte quelle funzioni con conseguenze negative sia per il sistema
produttivo sia per le esigenze domestico-assistenziali delle nostre famiglie.
Effetti
negativi sulla finanza pubblica e sulla qualità degli equilibri nel mercato del
lavoro possono invece derivare dall’impiego irregolare dei lavoratori
stranieri: per il venir meno dei contributi sociali e per il rischio che si
diffondano un più generale degrado delle condizioni lavorative e un
peggioramento delle relazioni contrattuali. Per contrastare questi rischi che
interessano l’intero sistema economico-sociale, si rende necessario un forte e
lungimirante impegno non solo da parte delle organizzazioni delle forze
produttive, ma anche e soprattutto da parte delle istituzioni pubbliche tramite
incentivi, regolamentazioni e controlli.
Sul piano
specifico degli equilibri previdenziali, va tenuto presente che gli immigrati
(regolarizzati) al momento versano contributi ben superiori alle prestazioni
ricevute e il saldo netto positivo, intorno ai cinque miliardi di euro annui, è
utilizzato per finanziare le pensioni degli italiani.
Data la loro
composizione per età, che si concentra nella fascia lavorativa, gli immigrati
pensionati attualmente sono pochissimi e se quelli attivi rimarranno nel nostro
Paese fino all’età della pensione, in base alle regole vigenti, la riceveranno
solo se riusciranno ad accumulare contributi lavorativi per almeno 20 anni e
per un ammontare complessivo sufficiente a maturare una prestazione pari ad
almeno 1,5 volte l’assegno sociale.
Oltre a
quella tra lavoratori italiani e immigrati, un’altra falsa e deleteria
contrapposizione costantemente riproposta nel dibattito economico e politico è
quella tra giovani e anziani, fondata sull’idea che le pensioni ricevute dai
primi sarebbero un ostacolo alle prospettive di vita dei secondi. Questo
contrasto d’interessi sarebbe evidenziato dagli squilibri finanziari attribuiti
al sistema pensionistico e dai costi che richiederebbero alcune modifiche
proposte per migliorare il suo attuale assetto. Questa contrapposizione non c’è;
invece, avrebbe effetti negativi se fosse ritenuta vera.
Nell’ultimo
quarto di secolo, la torta del PIL prodotto annualmente è cresciuta poco e
specialmente nell’ultimo decennio, dominato dalla Grande recessione, è
diminuita a causa dell’affermazione di tendenze (globalizzazione non
regolamentata) e politiche (funzionali all’autonomizzazione dei mercati) che
hanno penalizzato l’intera collettività a prescindere dall’età.
Ma
specialmente quando il PIL cresce poco o addirittura si riduce, il mantenimento
della coesione sociale e le politiche per la ripresa economica richiederebbero
che il reddito disponibile fosse distribuito meglio (non peggio come invece sta
accadendo). Meno che mai andrebbe penalizzata (come invece sta avvenendo) larga
parte delle giovani generazioni entrate in età da lavoro già da un paio di
decenni, alle quali non solo si è riservata la “sorpresa” di poter accedere
solo a lavori precari e mal retributivi (pensavano che sarebbero stati meglio,
non peggio, dei genitori), ma si prospetta loro per la vecchiaia un tenore di
vita corrispondentemente compromesso.
Il rapporto
tra pensione media IVS e salario medio è previsto in calo di circa dodici punti
nel prossimo ventennio rispetto al valore attuale che, in base ai dati
ufficiali convalidati dall’Istat per il 2013, è pari a circa il 50%.
Va notato
che questo valore è molto inferiore all’85% indicato nella recente Relazione
del Presidente dell’Inps alla presentazione del XII Rapporto annuale dell’Ente;
peraltro, anche utilizzando i dati di base del Rapporto Inps, riferiti al 2017,
il rapporto tra il valore medio delle pensioni IVS e la retribuzione media dei
lavoratori di imprese private e pubbliche extra agricole risulta pari al 57%.
In ogni caso, si continuano a sostenere politiche restrittive per il sistema
pubblico (ma incentivando la previdenza privata), millantando una condizione
deficitaria del suo bilancio (che, invece, dal 1996 presenta stabilmente un
saldo tra contributi e prestazioni nette consistentemente attivo, pari a 39
miliardi di euro nel 2016).
Contemporaneamente
vengono sopravvalutati i costi di possibili interventi che avrebbero effetti
migliorativi sia per gli anziani che per l’occupazione dei giovani. Ad esempio,
l’onere finanziario immediato derivante dall’abbassamento a 64 anni dell’età di
pensionamento viene valutato in 18 miliardi nella Relazione INPS; tuttavia, in
base alle proiezioni del Centro di Politica Economica e Sociale operante in
“Sapienza”, anche se tutti gli aventi diritto decidessero di anticipare il
pensionamento, quell’onere si attesterebbe intorno alla metà di quella cifra;
comunque, il costo immediato derivante dall’anticipo di spesa sarebbe
compensato negli anni successivi dal minor importo della prestazione liquidata
ad un’età inferiore.
Le posizioni
restrittive vengono giustificate nell’interesse dei giovani quando invece
sarebbe necessario riformare le parti dell’assetto attuale da cui dipendono le
(loro) pensioni future. Ad esempio, riconoscere contributi figurativi per gli
anni di disoccupazione involontaria sperimentati nella vita lavorativa
attenuerebbe la condizione di precarietà oramai proiettata sull’intera
esistenza. Peraltro, ciò avverrebbe senza gravare sulle attuali
problematiche di bilancio pubblico e fornirebbe stimoli alla crescita. Circa la
metà di coloro che sono entrati nel mercato del lavoro a metà degli anni ’90
hanno accumulato contributi pensionistici corrispondenti a retribuzioni
inferiori alla soglia di povertà e, conseguentemente, riceveranno pensioni
“povere”.
L’introiezione
dello “status” di precari a tempo indeterminato da parte dei giovani (e di
molti, oramai, ex giovani) sta corrodendo non solo le loro vite, ma le
prospettive dell’intera collettività. Rimuovere questo “status” personale è un
presupposto cruciale per la coesione sociale e lo sviluppo economico, sociale e
civile del nostro Paese.
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