Ho deciso di
pubblicare interamente questo servizio davvero meritorio di Francesco Floris
dell'AGENZIA REDATTORE SOCIALE, che è andato a rivedere tutto quello che i
nostri generali e i nostri ammiragli hanno dichiarato in sedi ufficiali negli
anni scorsi, a cominciare dalle audizioni in Parlamento. "E' illegale
riportare in Libia i migranti", "Il diritto del mare non vieta alle
Ong di entrare in acque libiche", "Se c'è pericolo, un'operazione di
polizia diventa soccorso". Tutto questo, all'attenzione del ministro
dell'Interno Matteo Salvini e di chi la pensa come lui.
MILANO - “Il diritto
del mare non vieta ad eventuali imbarcazioni delle organizzazioni non
governative di prestare soccorso anche in acque Ecco quanto emerge dalle
audizioni in Parlamento e dai documenti degli ultimi anni. Melone (Guardia
Costiera): “Illegale riportare in Libia i migranti”. Credendino (Eunavfor Med):
“Il diritto del mare non vieta alle ong di entrare in acque libiche”. Screpanti
(GdF): “Se c'è pericolo, operazione di polizia diventa soccorso” territoriali
libiche” dice, il 6 aprile 2017, l'ammiraglio Enrico Credendino, capo in
comando di “Sophia”, l'operazione di contrasto ai trafficanti nel Mediterraneo,
gestita dal dispositivo militare europeo Eunavfor. Lo dichiara di fronte alla
commissione Difesa del Senato che lo incalza sul tema delle ong in mare.
"Ma la presenza di navi, civili e militari, nei pressi delle acque
territoriali libiche non fa aumentare le partenze?", domandano numerosi
senatori di diversi schieramenti politici. “Un'ipotesi che non appare
credibile” la definisce Credendino, che sulla base di quanto riferitogli dagli
ambasciatori di cinque Paesi del Sahel afferma: “I migranti risultano
consapevoli dei rischi che corrono e ciò nonostante preferiscono affrontarli
piuttosto che rimanere nei Paesi d'origine: i loro cittadini sono perfettamente
a conoscenza del fatto che è molto alto il rischio di morire nel deserto o in
mare, e che le donne vengono sistematicamente stuprate”. Nelle settimane in cui
si assiste a un aspro dibattito sul tema dell'immigrazione e del soccorso in
mare, è interessante rileggere cosa dicono e scrivono i militari e gli uomini
delle forze dell'ordine quando vengono ascoltati nelle sedi ufficiali.
Il problema dei
“fattori di attrazione” che portano i migranti a partire era già stato trattato
da Credendino un anno prima che scoppiasse la polemica. L'ammiraglio italiano a
capo della missione Ue aveva già risposto alla stessa domanda il 4 febbraio
2016, nella commissione congiunta Camera-Senato, spiegando che “quanto al pull
factor, cioè al fatto che, in qualche modo, noi contribuiamo ad attirare i
migranti, faccio presente che ogni giorno nell’area circa 20-22 mercantili
vanno e vengono dalla Libia e decine e decine di mercantili vi circolano.
Pertanto, se non ci fossero le navi militari i migranti verrebbero comunque
salvati da altre imbarcazioni”.
Passiamo dalla marina
militare alle Fiamme Gialle. “La stessa operazione di polizia, quando assume
profili di pericolosità, diventa un'operazione di soccorso”. Parole del
Generale di Divisione Stefano Screpanti, capo del III Reparto Operazioni del
Comando Generale della Guardia di Finanza. È il 20 marzo 2015 quando Screpanti
spiega, durante una tavola rotonda organizzata nella sede romana di Confitarma
(la principale associazione italiana che riunisce armatori e imprese della
navigazione), come in presenza di pericolo per persone e natanti, le operazioni
di polizia cessino per dare priorità a quelle di soccorso. E aggiunge: “Anche
nelle operazioni di contrasto all'immigrazione clandestina la salvaguardia
della vita è un obiettivo centrale”. E ancora ribadisce: “È necessario mettere
in atto ogni soluzione operativa che possa supportare l'acquisizione di
elementi utili per approfondimenti investigativi e d'intelligence” ma “senza
interferire sulle priorità attività di recupero e soccorso dei migranti”.
Cos'è allora
un'operazione di soccorso e quando finisce? “L'obbligo di prestare soccorso non
si esaurisce nell'obbligo di assistenza in mare ma comporta anche quello
accessorio di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro”. È quanto dice a Palazzo
Madama il 4 maggio del 2017, l'ammiraglio Vincenzo Melone, Comandante generale
del Corpo di Capitaneria di Porto, poi congedato l'11 febbraio del 2018. Che
risponde anche ai dubbi su cos'è un luogo sicuro? “Nel caso di salvataggio in
mare di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in situazione irregolare, la
nozione di 'luogo sicuro' non può essere limitata alla sola protezione fisica
delle persone, comprendendo necessariamente il rispetto dei loro diritti
fondamentali”. Rispetto dei diritti che, aggiunge Melone, “impone agli Stati,
pena la violazione della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status
di rifugiati del 1951 e della Convezione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, di astenersi dal ricorrere a qualsiasi
pratica che possa essere assimilata a un respingimento diretto o indiretto e di
considerare 'luogo sicuro' un luogo che possa rispondere alle necessità delle
persone sbarcate e che non metta in alcun modo a rischio i loro diritti
fondamentali”.
Passa meno di una
settimana da quell'audizione e l'ammiraglio Melone viene ascoltato una seconda
volta, l'11 maggio 2017. Il senatore Alicata di Forza Italia gli domanda quanto
l'operato della Guardia costiera sia influenzato dall'indirizzo politico del
Governo Gentiloni. Risposta: “Il Corpo delle capitanerie di porto obbedisce
alle convenzioni internazionali, a prescindere dagli orientamenti politici del
governo pro-tempore”. Gli viene anche chiesto se le ong spengano i transponder
per non farsi vedere dalle autorità. Perché in quei mesi il dibattito è
incentrato su possibili collusioni fra ong e trafficanti. Melone risponde che
quelle “apparecchiature operano su frequenze VHF e che trasmettono il segnale
in linea retta senza seguire la curvatura del globo terrestre”. Questo comporta
“una portata limitata – dice l'ammiraglio –. Se non c'è una nave militare in
zona, eventuali unità, incluse quelle delle ong, potrebbero non essere
visibili”. E chiude spiegando che comunque “alla Guardia costiera non risultano
casi in cui dei battelli operanti per le ong abbiano spento le loro
apparecchiature”.
È curioso notare che
mentre la politica accusava le ong di spegnere i transponder, l'operazione
“Sophia” scriveva il contrario nei propri documenti: nel novembre 2016 la
missione invia dal quartier generale romano di via Centocelle un report
semestrale a Bruxelles sulle proprie attività. A pagina 8 si legge che “i
trafficanti sembrano essere consapevoli di dove trovare gli assetti navali di
salvataggio, in particolare le ong che trasmettono le loro posizioni attraverso
l'Automatic Identification System (AIS)”. L'Ais, cioè il sistema di tracciamento
e identificazione automatica che le navi sono obbligate a montare, in ausilio
ai sistemi radar, per evitare le collisioni. È su questi segnali che per
esempio funzionano diversi siti internet che monitorano il traffico marittimo
in tutto il mondo.
Da ultimo, quando il
senatore Paolo Romani domanda all'ammiraglio se i migranti soccorsi in acque
libiche potrebbero essere riaccompagnati in Libia, con l'ausilio della Guardia
costiera italiana, Melone risponde che “ciò non è possibile in quanto contrario
al principio di non respingimento”. Visto che “la Libia è un Paese connotato da
grave instabilità interna e che non ha recepito la convenzione di Ginevra”
allora per Melone “ciò comporta l'impossibilità per qualsiasi autorità,
italiana o europea, che gestisca i soccorsi di riportare in Libia le persone
soccorse”.
Toni diversi rispetto a quelli del dibattito politico attuale sulle migrazioni africane e via mare. Frasi che fanno specie, soprattutto se si pensa che tutti gli ufficiali e i militari citati sono a vario titolo sostenitori dell'addestramento della Guardia costiera libica e di accordi con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti.
(Francesco Floris, AGENZIA REDATTORE SOCIALE)
Toni diversi rispetto a quelli del dibattito politico attuale sulle migrazioni africane e via mare. Frasi che fanno specie, soprattutto se si pensa che tutti gli ufficiali e i militari citati sono a vario titolo sostenitori dell'addestramento della Guardia costiera libica e di accordi con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti.
(Francesco Floris, AGENZIA REDATTORE SOCIALE)
- "È l'ordine più infame che abbia mai eseguito. Non ci ho dormito, al
solo pensiero di quei disgraziati", dice uno degli esecutori del
"respingimento". "Dopo aver capito di essere stati riportati in
Libia - aggiunge - ci urlavano: "Fratelli aiutateci". Ma non potevamo
fare nulla, gli ordini erano quelli di accompagnarli in Libia e l'abbiamo
fatto. Non racconterò ai miei figli quello che ho fatto, me ne
vergogno".
Parlano i militari delle motovedette italiane - quella della Guardia di Finanza, la "Gf 106" e quella della Capitaneria di porto, la "Cpp 282" - appena rientrati dalla missione rimpatrio. Sono stati loro a riportare in Libia oltre 200 extracomunitari, tra i quali 40 donne (3 incinte) e 3 bambini, dopo averli soccorsi mercoledì scorso nel Canale di Sicilia. Un "successo", lo ha definito il ministro Maroni, che finanzieri e marinai delle due motovedette non condividono anche se hanno eseguito quegli ordini. Niente nomi naturalmente, i marinai delle due motovedette rischierebbero quanto meno una punizione se non peggio. Ma molti non nascondono il loro sdegno per quello che hanno vissuto e dovuto fare. "Eravamo impegnati in altre operazioni - dicono fiamme gialle e marinai della capitaneria - poi improvvisamente è arrivato l'ordine di andare a soccorrere quelle tre imbarcazioni, di trasbordarli sulle nostre motovedette e di riportarli in Libia".
Non è stato facile, a bordo di quelle carrette del mare c'erano donne incinte, tre bambini e tutti gli altri che avevano tentato di raggiungere Lampedusa. "Molti stavano male, alcuni avevano delle gravi ustioni, le donne incinte erano quelle che ci preoccupavano di più, ma non potevamo fare nulla, gli ordini erano quelli e li abbiamo eseguiti. Quando li abbiamo presi a bordo dai tre barconi ci hanno ringraziato per averli salvati. In quel momento, sapendo che dovevamo respingerli, il cuore mi è diventato piccolo piccolo. Non potevo dirgli che li stavamo portando di nuovo nell'inferno dal quale erano scappatati a rischio della vita".
Parlano i militari delle motovedette italiane - quella della Guardia di Finanza, la "Gf 106" e quella della Capitaneria di porto, la "Cpp 282" - appena rientrati dalla missione rimpatrio. Sono stati loro a riportare in Libia oltre 200 extracomunitari, tra i quali 40 donne (3 incinte) e 3 bambini, dopo averli soccorsi mercoledì scorso nel Canale di Sicilia. Un "successo", lo ha definito il ministro Maroni, che finanzieri e marinai delle due motovedette non condividono anche se hanno eseguito quegli ordini. Niente nomi naturalmente, i marinai delle due motovedette rischierebbero quanto meno una punizione se non peggio. Ma molti non nascondono il loro sdegno per quello che hanno vissuto e dovuto fare. "Eravamo impegnati in altre operazioni - dicono fiamme gialle e marinai della capitaneria - poi improvvisamente è arrivato l'ordine di andare a soccorrere quelle tre imbarcazioni, di trasbordarli sulle nostre motovedette e di riportarli in Libia".
Non è stato facile, a bordo di quelle carrette del mare c'erano donne incinte, tre bambini e tutti gli altri che avevano tentato di raggiungere Lampedusa. "Molti stavano male, alcuni avevano delle gravi ustioni, le donne incinte erano quelle che ci preoccupavano di più, ma non potevamo fare nulla, gli ordini erano quelli e li abbiamo eseguiti. Quando li abbiamo presi a bordo dai tre barconi ci hanno ringraziato per averli salvati. In quel momento, sapendo che dovevamo respingerli, il cuore mi è diventato piccolo piccolo. Non potevo dirgli che li stavamo portando di nuovo nell'inferno dal quale erano scappatati a rischio della vita".
A bordo hanno anche pregato Dio ed Allah che li aveva risparmiati dal deserto, dalle torture e dalla difficile navigazione verso Lampedusa. Ma si sbagliavano, Roma aveva deciso che dovevano essere rispediti in Libia. "Nessuno di loro lo aveva capito, ci chiedevano come mai impiegavamo tanto tempo per arrivare a Lampedusa, rispondevamo dicendo bugie, rassicurandoli".
La bugia non è durata molto, poco prima dell'alba qualcuno ha notato che le luci che vedevano da lontano non erano quelle di Lampedusa ma quelle di Tripoli. Alla fine i marinai italiani sono stati costretti a spiegare: "Non è stato facile dire a tutta quella gente che li avevamo riportati da dove erano partiti. Erano stanchi, avevano navigato con i barconi per cinque giorni, senza cibo e senza acqua. Non hanno avuto la forza di ribellarsi, piangevano, le donne si stringevano i loro figli al petto e dai loro occhi uscivano lacrime di disperazione".
Lo sbarco a Tripoli è avvenuto poco dopo le sette del mattino: "Vederli scendere ci ha ferito tantissimo. Ci gridavano: "Fratelli italiani aiutateci, non ci abbandonate"". Li hanno dovuti abbandonare, invece, li hanno lasciati al porto di Tripoli dove c'erano i militari libici che li aspettavano. Sulla banchina c'erano anche i volontari delle organizzazioni umanitarie del Cir e dell'Onu, ma non hanno potuto far nulla, si sono limitati a contare quei disperati che a fatica, scendevano dalla passerelle delle motovedette per tornare nell'inferno dal quale erano scappati. Le donne sono state separate dagli uomini e portati in "centri d'accoglienza" vicino Tripoli. Non si sa che fine faranno.
Solo uno è riuscito a sfuggire al rimpatrio. Un ventenne del Mali che aveva intuito cosa stava succedendo a bordo e si era nascosto sotto un telone. Ha messo la testa fuori solo quando la motovedetta della Finanza è attraccata a Lampedusa, ha aspettato che a bordo non ci fosse più nessuno e poi è sceso anche lui. È stato rintracciato mentre passeggiava nelle strade dell'isola ed ha subito confessato. Adesso si trova nel centro della base Loran di Lampedusa. Un miracolato.
(9 maggio 2009)
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