Il 5 luglio al ministero dell’istruzione è stato presentato il rapporto nazionale sulle prove Invalsi. Si
tratta dell’indagine più rappresentativa mai condotta sugli studenti italiani,
sulle scuole e sugli insegnanti.
Le proteste dei docenti e i boicottaggi dei test hanno accompagnato le
prove fin dal suo primo anno di vita, il 2008. Nel frattempo l’istituto Invalsi
(Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di
formazione) si è ingrandito, ha raddoppiato i finanziamenti che riceve ogni
anno (attualmente circa cinque milioni di euro), ha cercato di ripensarsi
rispetto alle critiche e, soprattutto, ha aumentato il suo peso nel dibattito
pubblico sulla scuola, con ripercussioni più o meno evidenti anche sulla
didattica.
Le prove Invalsi sono somministrate a tutti gli studenti italiani che
frequentano la seconda e la quinta elementare, la terza media e la seconda
superiore per misurare le competenze in italiano, matematica e inglese. Da
quest’anno sono state introdotte alcune importanti novità: innanzitutto si è
passati alla versione computer based delle
prove (gli studenti, solo quelli delle scuole secondarie, hanno usato un pc
della scuola); e in quinta elementare e in terza media è stata introdotta la
prova di inglese. Le prove inoltre sono state svincolate dal voto per l’esame
finale delle medie: l’accoppiamento era stato sempre molto criticato,
soprattutto per la scarsa corrispondenza tra valutazione dei docenti e
risultati Invalsi. Bisognava comunque aver svolto la prova per essere ammessi
all’esame di terza media e dall’anno prossimo sarà lo stesso per l’esame di
maturità: gli studenti del quinto superiore saranno tutti testati a marzo.
La più comune perplessità rispetto alle prove Invalsi è che trasformino la
scuola in un grande testificio (nonostante dall’Invalsi insistano perché non si
usino i termini test o quiz ma sempre prove), in cui la
valutazione sostituisce del tutto la ricerca pedagogica: due critici di
rilievo, per esempio, sono stati negli anni il pedagogista Benedetto Vertecchi
e il matematico Giorgio Israel, che hanno entrambi lavorato al ministero
cercando di ridimensionarne il ruolo e addirittura di cancellarli. Per avere un’idea
di questa prospettiva critica, basta sfogliare un paio di testi recenti
come La
tirannia della valutazione di Angelique del Rey
e Valutatemi! di
Bénédicte Vidaillet, in cui si sottolinea come l’eccessivo peso attribuito a
questo tipo di test generi negli studenti ansia da prestazione e da
competizione.
Il rischio che viene paventato è che lo studente sia ridotto a un codice a
barre, esaminato, classificato e selezionato: pronto per il mercato
dell’istruzione e poi del lavoro. Il valore originario che invece viene
rivendicato da chi le elabora è che le prove servono per migliorare la scuola.
L’attuale presidente dell’istituto, Annamaria Ajello (dal 2017) , è la
prima a non provenire da una formazione economica (i primi a occuparsi di
Invalsi sono stati funzionari dalla Banca d’Italia): è infatti ordinaria di
psicologia alla Sapienza. Nella sede dell’Invalsi in via Ippolito Nievo a Roma,
ci tiene a sottolineare l’aspetto al tempo stesso scientifico e costituzionale
del suo lavoro: “In Italia la problematicità di nozione di apprendimento non è
affrontata da un punto di vista scientifico. Innanzitutto occorre capire che
tipo di apprendimento si valuta attraverso le prove: non tutte le materie
vengono esaminate con l’Invalsi. Certo, ci si può chiedere a cosa serve una
prova rispetto alla comprensione di un testo, alla matematica, o all’inglese.
Ma la cosa fondamentale è riconoscere che dobbiamo garantire che almeno in
terza media le persone sappiano leggere e comprendere un testo. Questo è un
diritto che viene negato a metà della popolazione degli studenti”.
Il criterio fondamentale per Ajello è quindi: valutare non tutte le
conoscenze, ma solo alcune competenze
basilari (posizione che sembra in palese contraddizione con la recente apertura
del ministro Marco Bussetti, che ha detto di voler allargare le prove alla
geografia).
Ma se sull’idea di valutare lo stato della scuola per capire come
rinnovarla sono tutti d’accordo, la differenza più profonda tra chi difende a
spada tratta i test Invalsi e chi invece ne critica l’impianto, si concentra
spesso tra una valutazione di tipo censuario e una di tipo campionario. Ovvero,
per avere a disposizione dei dati per migliorare la scuola, ha senso esaminare
tutti o basterebbe lavorare con un campione statistico ben scelto?
Ajello è convinta che le prove Invalsi siano necessarie per “dare conto” in
modo sistematico di quello che fa e quello che non fa la scuola italiana: “Le
prove sono in linea con le Indicazioni nazionali, ed è necessario che siano
obbligatorie, per controllare il funzionamento del sistema. Quello che manca è
invece una pianificazione del miglioramento a partire da quello che ci mostrano
i dati”, che non è una cosa da poco.
Lei lo dice pacatamente, ma il paesaggio fotografato dal rapporto 2018 non
soltanto è drammatico, ma è – si potrebbe dire – esponenzialmente tragico: dove
negli ultimi anni le cose sono andate male, peggiorano. I progressi sono
evidenti invece dove la scuola funziona meglio. Le disuguaglianze tra nord e
sud, isole comprese, aumentano; quelle tra aree metropolitane e aree interne
anche; pesano molto le differenze di genere; lo status socioculturale delle
famiglie continua a incidere parecchio sui risultati scolastici e sulla scelta
della scuola superiore. “Per chi va a scuola in Veneto è come se, per
competenze acquisite, di fatto facesse un anno in più di chi va a scuola in
Calabria”, dice Roberto Ricci, responsabile dell’area prove durante la
presentazione del rapporto annuale.
Certo Ajello sottolinea come negli ultimi anni l’Invalsi si sia impegnato
anche a riconoscere il valore aggiunto della
singola scuola rispetto ai risultati degli studenti – e nel 2018 quella più
virtuosa è a Catania, ossia nel sud che il resto delle prove ci mostra depresso
– ma questo non significa che gli esiti siano incoraggianti, perché il contesto
sociale e familiare è così rilevante da denunciare solo come “la scuola da sola
non ce la fa”, il che è non poco sconfortante.
Se le intenzioni dell’Invalsi sono palesi, gli aspetti ancora opachi sono
diversi. Il primo riguarda l’uso dei dati. In una società che ha sempre più
bisogno di valutazioni su larga scala, una così vasta rilevazione è un boccone
prelibato per chi – dalle università alle aziende – immagina di fare selezione
servendosene. L’Invalsi diventa di fatto uno strumento dell’istruzione a numero
chiuso. Questo rischio l’istituto lo riconosce, ed evitarlo negli anni futuri
sarà sempre più difficile.
In generale la critica più profonda che tocca le prove è che l’esame che
compie l’Invalsi volga lo sguardo al passato per distribuire meriti o colpe,
mentre la valutazione dovrebbe analizzare i processi per indirizzare le
attività future.
E un forte imbarazzo emerge quando ci si accorge come a scuola una parte
sempre più ampia del tempo sia dedicato alla preparazione ai test. Addirittura
in libreria il reparto pedagogia è sempre più stretto, a scapito delle
pubblicazioni ad hoc, tipo gli Alpha test: un’editoria di allenamento
all’Invalsi simile a quella fiorita per i quiz per il numero chiuso
universitario.
Il nodo più critico riguarda il rapporto tra la didattica e le prove.
Perché, nonostante si faccia tutto per evitarlo, il pericolo di dare così tanto
rilievo ai test porta non solo molti professori a impostare la didattica
proprio per il teaching to test, ma anche molti
libri e manuali scolastici ad ampliare sempre di più lo spazio dato
all’allenamento all’Invalsi, in termini di pagine e di ore spese in classe.
L’anno prossimo, in cui per le ultime classi delle superiori i test Invalsi si
aggiungeranno alle ore destinate all’alternanza scuola-lavoro (requisito
obbligatorio anche questa per sostenere la maturità), quanto tempo e quanta
libertà didattica verrà sottratta agli insegnanti e agli studenti?
Se questi sono rischi meno visibili, la mancanza più chiara e grave nella
lettura dei dati 2018 è quella politica. Il ministro Marco Bussetti il 5 luglio
ha introdotto la presentazione del rapporto con due considerazioni generiche e
poi ha lasciato la sala. La fotografia nitidissima di un’Italia divisa dalle
povertà educative ha lasciato tutti indignati e preoccupati, ma è molto più
allarmante che non si reagisca a questa fotografia dichiarando con semplicità
quali iniziative si vogliono prendere.
Questo articolo è stato scritto con la collaborazione di Giulia Addazi.
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