Dalle parti loro si dice lasciare
la croce. Vuol dire che dopo un funerale non si torna subito a casa, né si
va in visita da parenti o amici. Se si è in confidenza con la famiglia del
morto si va da loro, ed è lì che si lascia. La croce, dico. Come depositare
temporaneamente il peso della scomparsa.
Però né Francesca né Antine avevano
confidenza.
Emersi dalla ressa addobbata a lutto,
andarono dunque dritti verso il bar, ad occupare un tavolo discreto, lontano
dalle vetrine. Perché se il morto lo conosci abbastanza da dispiacerti e
stringere le mani dei parenti al suo funerale, ma non tanto da farti offrire il
caffè in casa loro, allora devi andare al bar.
Il bar è l’alternativa, dalle loro parti.
Ai funerali come in molte altre occasioni.
Maria la conosceva tutto il paese, e non
aveva nemici. Ma i suoi amici l’avevano persa di vista, da quand’era andata a
vivere su, dalle parti di Verona.
Mancava a tutti, e tutti le volevano bene.
Ma in pochissimi, ormai, abbastanza da andare a casa dei suoi, consolarli un
poco e bere con loro una tazzina di caffè accompagnata da un biscotto. Ci
penseranno i parenti, dissero. E andarono tutti al bar, a lasciare la croce.
Antine e Francesca sapevano che sarebbe
successo, e camminarono spediti, dal primo banco delle condoglianze dritti
fuori nel sagrato, in piazza, dentro il bar e fino in fondo, al tavolo più
nascosto, sotto il bocchettone dell’aria condizionata. Il bar era ancora vuoto.
La gente cominciò a occupare i tavoli
all’esterno, per godere dei primi caldi di maggio. Quando i posti liberi
all’esterno finirono, furono occupati i tavoli all’interno, fra sbottonamenti
di giacche e cravatte allentate. Pareva una cerimonia da rimontare, come la
troupe di un film famoso, in pausa dopo una scena difficile.
Quando la piazza fu libera, Antine e
Francesca, con le loro birre in mano, guardarono in direzione della chiesa. Il
carro funebre di fronte al portone, allineato con il rosone in trachite. Vicino
all’auto scura un’anziana in nero, stretta ad un uomo con il cappello in mano.
Accanto a loro un uomo sulla trentina, con il capo chino. E in disparte altri,
parenti di Maria, frugavano nelle tasche alla ricerca delle chiavi dell’auto,
per andare a comporre il corteo che da lì a poco si sarebbe diretto verso il
cimitero. Quando partirono, al bar si segnarono e fecero silenzio. La fila di
macchine si allontanò e la gente riprese a bere e parlare, fino a ricreare il
sottofondo chiassoso appena interrotto.
Antine guardava ancora fuori. Vide il
giovane a capo chino dirigersi verso il bar, e pareva non lo notasse nessuno.
Sfiorò la mano di Francesca. Lei si girò, ed ebbe la stessa sensazione.
Distrutto dal dolore, quasi morto anche
lui, il giovane scivolava in mezzo alla folla dei vivi seduti ai tavoli, e
nessuno pareva curarsene.
«Bai’! Bai’, vieni a sederti con noi,
vieni.»
Bainzu era il fratello piccolo di Maria.
Parve uscire dallo stato di trance che l’aveva condotto inosservato fino al
bancone e fissò Antine, poi Francesca, poi la sedia vuota al loro tavolo. Anche
Francesca lo chiamò: «Vieni al fresco, Bai’, che c’è un posto.»
Allora lui si diresse lento verso di loro e
li ringraziò, poi si sedette.
«Grazie Anti’, e grazie Frantzi’. Bevo un
caffè e vado via.»
«E di cosa? Siedi, siedi.»
«Non ce la facevo ad andare in cimitero.
Tanto le condoglianze le ho già ricevute, e in cimitero non ci sarà più
nessuno. Preferisco staccare un attimo e tornare a casa a preparare qualcosa
per babbo e mamma. Infatti mi scuserete, ma non potrò restare molto.»
Tutto attorno era un gran ticchettare di
bicchieri e tazzine e cucchiaini, eppure Francesca percepiva la bolla di
imbarazzato silenzio che inesorabilmente inglobava il loro tavolino. A un certo
punto, in genere, le parole finiscono. È che a volte finiscono subito.
Cosa dici a uno a cui due giorni fa è
arrivata la notizia della sorella, sana, trovata morta nella sua camera da
letto?
Ci pensò Antine. Si schiarì la gola, e poi:
«Bai’, lo so che te l’hanno detto tutti. Anche noi ci siamo, per qualunque
cosa. Chiamaci quando vuoi.»
Bainzu stava mescolando il caffè, avendo
cura di non sbattere il cucchiaino sulla tazzina, in meticolosi cerchi
sovrapposti. Alzò lo sguardo e rispose calmo.
«Magari sì, Anti’, grazie. Andiamo dove ci
portava nonno, a me e a Maria. Così vi racconto quand’è che l’ho capito, che da
Verona non sarebbe mai tornata.»
Francesca e Antine sgranarono gli occhi con
discrezione, come se temessero di poter fare rumore e disturbare l’uomo che
avevano di fronte. Lei bevve un lungo sorso di birra, poi sospirò e chiese, con
la voce spezzata: «Cos’è che avevi capito, Bai’? Mi sa che mi sono persa un
pezzo.»
Il caffè era finito.
Bainzu con un gesto chiese al barista di
fare un altro giro.
«Frantzi’, una volta nonno ci ha portato in
campagna, su al Monte. Io, lui e Maria. Era maggio, più o meno questo periodo,
il periodo e l’anno giusti per poter estrarre il sughero. E nonno lavorava:
incideva, strappava, separava e accatastava. Noi stavamo appresso a lui, senza
dargli troppo fastidio, come fanno i bambini, no? a giocare. Felici di
potercene stare in campagna.»
Il barista aveva posato il vassoio con le
due birre e il caffè.
«Aggiungimi un’acquavite, per favore.
Grazie.»
«E quindi eravamo lì, stavamo giocando.
Bene. A un certo punto Maria comincia a dire di star sentendo un gatto miagolare.
A me sembrava improbabile, quindi non le avevo dato retta. Ma lei era testarda,
e si era allontanata dal sentiero alla ricerca del fantomatico gatto. Passa una
mezz’ora buona e lei si riaffaccia sulla strada sterrata.»
«Con un gatto in braccio.»
«Macchè gatto, Frantzi’. Con una ghiandaia
stretta fra le mani. Una ghiandaia con un’ala spezzata. Le ghiandaie imitano i
versi degli altri animali, non lo sapete? Maria sarebbe stata felicissima di
poter adottare un gatto, immaginatevi quanto fosse felice con un piccolo corvo
colorato tutto suo. Allora lei avrà avuto non so, nove anni. Era eccitatissima.
Aveva chiesto a nonno due pezzi di sughero di dimensioni simili, e li aveva
sovrapposti. La sua ghiandaia accanto, che continuava a miagolare – con lo sguardo
vuoto, uguale a quello di tutti gli uccelli, ma con un’aria disperata. Maria
con il suo coltellino a serramanico aveva cominciato a bucherellare a distanza
regolare il bordo dei due pezzi di sughero. Mi aveva mandato a raccogliere
polloni di olivastro e con quelli aveva costruito le sbarre della gabbia per il
suo nuovo animale domestico. Il sughero serviva per il fondo e il coperchio, e
i buchi per infilarci i polloni che io avevo raccolto.»
Il bar ora era quasi vuoto. Le birre finite
e l’acquavite pure.
«Bai’, staffa?» Dalle parti loro, la staffa
è l’ultimo bicchiere prima di andare via.
«La staffa, da’. Per me un’altra
acquavite.»
«Dov’ero? Ah, la gabbia. Maria prende la
sua ghiandaia e la infila fra sughero e olivastro. E quella ovviamente cosa fa?
Muore. Tempo un’ora, massimo due. Muore senza fare rumore.»
Si gettò l’acquavite in gola e concluse il
suo racconto in piedi.
«Maria non lo sapeva. Se metti in gabbia
una ghiandaia, lei muore di dolore. Non per il dolore, di dolore.
Maria era così, come la ghiandaia, ma non lo sapeva. È partita imitando i suoi
coetanei, a cercare futuro lontano dal suo bosco. Qualcuno l’ha assunta, e lei
si è sistemata. Però era in gabbia, lontana da qui, da questo paese che era il
suo bosco. E una gabbia tu puoi farla grande quanto vuoi, grande quanto tutto
il mondo, con tutta la cura che puoi, con il miglior olivastro – ma una gabbia
resta. Anche se ti serve per salvare qualcuno.»
Aveva le mani strette sullo schienale della
sedia e gli occhi colmi di lacrime. Francesca piangeva e Antine tremava.
«A quella ghiandaia era caduta dall’ala una
piuma, azzurra striata di nero. Maria l’aveva conservata per un sacco di anni.
A me sembrava come un segno, anche se ero un bambino. E lo sapevo già, che le
ghiandaie si devono lasciare libere. E quando Maria è partita per Verona, io lo
sapevo già che non sarebbe tornata. Maria è morta un sacco di tempo fa.»
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