La proposta della cosiddetta “flat tax“ – inserita prima nel programma della Lega,
e poi nel “contratto di governo” della maggioranza Lega-M5S – ha
sollevato l’attenzione di numerosi economisti e commentatori, preoccupati dalle conseguenze regressive di
una tale riforma.
Tra agli argomenti “contro”, si è spesso evidenziato come nessuna grande
economia avanzata adotti una simile forma di imposizione fiscale. Un altro modo
di vedere la questione è confrontare l’aliquota massima prevista dalla riforma
(20% per i redditi
complessivi familiari sopra 80 mila euro, stando all’ultima
versione sottoscritta anche dal M5S) con i livelli sperimentati nel corso della
storia d’Italia.
Aliquota massima di imposizione fiscale in Italia,
1865-2020*
L’esercizio, anche senza tenere conto delle altre aliquote esistenti e di
tutte le complessità legate ai regimi di deduzioni e bonus fiscali, è molto
informativo ed è reso molto semplice dal Comparative Income
Taxation Database, banca dati creata e resa disponibile
online dagli scienziati politici Federica Genovese, Kenneth Scheve e David
Stasavage.
Nonostante alcune imprecisioni, forse inevitabili nel realizzare simili
database comparativi, questo permette di farsi rapidamente un’idea
dell’evoluzione delle aliquote massime sul reddito in un insieme di Paesi,
dall’ottocento (per l’Italia, dall’unità) a oggi. Nella figura, riproduciamo
l’aliquota massima di imposizione fiscale (top marginal tax rate)
applicata ai redditi personali o familiari degli italiani – cioè, il tasso di
imposizione fiscale massimo sui redditi al di sopra della soglia massima
(attualmente, i 75.000 euro individuali oltre
i quali si applica il 43% di aliquota IRPEF).
In particolare, il grafico mostra l’evoluzione dell’aliquota massima dal
1864, anno dell’entrata in vigore dell’Imposta di Ricchezza
Mobile, fino al 2019/2020, anni in cui ipotizziamo in vigore la
proposta di riforma.
Per l’Italia, le lancette indietro di 100 anni
Come mostra il grafico, un’aliquota massima del 20% riporterebbe le
lancette della storia almeno al 1918, e cioè ai primi, incerti tentativi di
introdurre l’imposizione progressiva in Italia. Esattamente cento anni fa, a
pochi giorni di distanza dall’armistizio che poneva ufficialmente fine alla
Grande Guerra, il d.lgt. 17 novembre 1918 n. 1835, concordato dai ministri di
tesoro e finanze (Francesco Saverio Nitti e Filippo Meda), introduceva
un’imposta progressiva sui redditi superiori alle 10.000 lire (all’incirca
15.000 euro di oggi tenendo conto dell’andamento dei prezzi e della conversione
lire/euro).
Fino ad allora, era in vigore un sistema di tassazione “reale”, che tassava
cioè non le persone e i loro redditi complessivi, ma ciascuna fonte di reddito
(per esempio la terra o il capitale) separatamente. Queste aliquote erano
allora davvero “piatte”, anche se una certa progressività venne introdotta
proprio durante la prima Guerra Mondiale.
Ma è con l’imposta sui redditi sopra le 10.000 lire, prima, e con l’Imposta Complementare
Progressiva (R.D. 30 dicembre 1923, n. 3062), poi, che si
introdusse la vera progressività su base “personale”. Oltre a queste imposte
“reali”, ogni contribuente pagava un’ulteriore aliquota sulla somma dei suoi
redditi (almeno, di quelli che il fisco riusciva ad accertare in un sistema
piuttosto farraginoso).
La progressività fiscale, già gravemente
compromessa in Italia, continuerebbe a diminuire
La riduzione dell’aliquota massima appare in prospettiva storica una
riduzione sostanziale della struttura di progressività dell’imposta sul reddito
che si cumula all’esistenza di regimi fiscali già favorevoli ai grandi redditi
e soprattutto ai redditi da capitale.
Infatti, è importante ricordare che in Italia la progressività fiscale è
già messa a dura prova dal fatto che buona parte dei redditi finanziari,
immobiliari e d’impresa non sono soggetti all’IRPEF ma a regimi separati di
imposizione fiscale (per esempio, i redditi dei titoli di debito pubblico sono
tassati al 12.5%, mentre le attività finanziarie sono prevalentemente tassate
con aliquota al 26%).
Chiaramente, l’evoluzione dell’aliquota massima sul reddito rappresenta una
visione parziale anche se importante per garantire un adeguato livello di
progressività dell’imposta. Come sottolineano i risultati di alcune simulazioni
della proposta, metà dei guadagni sarebbero concentrati nelle mani del 10
percento delle famiglie più ricche. Questo appare una decisione
inappropriata soprattutto alla luce della crescente concentrazione della
ricchezza nelle mani di pochi e della sua persistenza fra
generazioni registrata in Italia negli ultimi decenni.
In Francia, Gran Bretagna, e Stati Uniti niente di
simile negli ultimi 100 anni
Grazie al lavoro di Scheve e Stasavage, possiamo anche confrontare
l’evoluzione dell’aliquote massime sul reddito in Italia con quella prevalsa in
altre importante economie avanzate. Il lavoro di Scheve e Stasavage riflette
infatti una storia comparativa della tassazione sui grandi redditi e patrimoni
in Europa, Nord America, Oceania, Giappone e Corea del Sud.
Già nell’immediato primo dopoguerra l’Italia era rimasta indietro, visto
che in questi paesi l’aliquota raggiunse in media il 40% nell’immediato
dopoguerra, per poi calare. Come si vede nel secondo grafico, le aliquote
massime raggiunsero picchi assai più elevati, ad esempio in Gran Bretagna,
Francia e Stati Uniti. In questi Paesi, le nuove spese richieste dalla Grande
Guerra, prima, e dall’emergere dello stato sociale, poi, erano state finanziate
sempre più per mezzo di imposte progressive sui redditi e sulla ricchezza,
mentre da noi si faceva ancora largamente ricorso alle imposte indirette.
Eppure, l’entrata in vigore della flat tax farebbe
diventare elevate anche le aliquote massime sperimentate nel periodo tra le due
guerre mondiali. Il grafico è anche utile a renderci conto che da allora non si
sono più raggiunti di nuovo livelli di aliquote massime così bassi; neppure nel
Regno Unito e negli Stati Uniti, dove il crollo delle aliquote sui redditi più
elevati è stato realizzato in modo forse più repentino, e la disuguaglianza è
aumentata più rapidamente.
Aliquote massime di imposizione fiscale a confronto,
1865-2010
È bene ricordare che, oggi come allora, quella sui redditi (tipicamente da
lavoro dipendente, autonomo e da pensioni) è solo una di molte imposte e tasse
che vanno a costituire la pressione fiscale e che in generale, si paragonano
Italie assai diverse. Nel 1918 l’Italia era assai più diseguale e anche
molto più povera.
La capacità di tassare i
redditi elevati era probabilmente assai inferiore di quanto lo sia oggi, come
dimostrano le statistiche fiscali disponibili per quei periodi. Se è
sicuramente possibile e auspicabile ridurre e riequilibrare la pressione
fiscale, soprattutto a favore di lavoro e investimenti e colpendo rendite,
riportare l’ aliquota massima sul reddito indietro di cent’anni non sembra il
modo di far ripartire un Paese sempre più
diseguale.
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