Giuba è l’unica capitale al mondo in cui
non esiste un acquedotto, non esiste una rete fognaria e non esiste una rete
elettrica. L’aeroporto è una striscia di bitume sciolta dal caldo, senza alcun
edificio attorno: c’è solo una grande tenda bianca dell’Onu in cui si accalcano
funzionari, diplomatici, cooperanti e faccendieri. Anche gli aerei sono quasi
tutti delle Nazioni Unite, nelle sue varie agenzie, o di altre organizzazioni
internazionali. È vietato fotografare, dappertutto, e i muri delle case sono
segnati dai buchi di proiettile. Ma intanto è da un po’ che non si spara, nella
capitale del Sud Sudan, e questa è già una buona notizia.
Forse l’unica, tuttavia.
Spesso si pensa che il Sud Sudan sia uno
staterello, in realtà è grande il doppio dell’Italia. È il Paese più giovane
del mondo: prima del 2011 era parte del Sudan, con cui in realtà non c’entra
granché. Il Sudan è desertico, etnicamente arabo e di religione musulmana;
questo pezzo d’Africa è invece fertile e piovoso, la sua popolazione è
subsahariana dalla pelle molto scura, l’Islam non ha mai attecchito e sono
tutti di credo cristiano o animista. Una catena di monti divide i due Paesi,
che solo la superficialità coloniale aveva appiccicato tra loro con la colla.
Dal 2011, appunto, il Sud Sudan è
diventato indipendente e non ha trovato altro modo con cui chiamarsi, anche
perché a sua volta ha un’identità fragile e frammentata, abitato com’è da
dozzine di etnie che parlano lingue diverse. La più numerosa è quella dei
Dinka, nilotici d’alta statura; ma non sono più di un quinto della popolazione.
Un’altra tribù importante - e avversaria della prima - è quella dei Nuer, meno
imponenti ma più intellettuali. Poi ci sono infiniti altri gruppi e
sottogruppi, alleati o nemici tra loro a seconda delle circostanze.
Quando il Paese è nato in teoria aveva
tutte le carte per fare un salto dall’economia di sussistenza (pastorizia e
agricoltura) in cui viveva da millenni: al nord, al confine con il Sudan, è
pieno di petrolio; le foreste sono ricche di teak, legno pregiato; e la
conservazione intatta di uno straordinario ambiente naturale avrebbe potuto
anche creare un boom turistico. Invece il petrolio si è rivelato una
maledizione: le due etnie principali hanno cominciato subito ad ammazzarsi per
il controllo dei pozzi, poi la guerra civile si è frantumata in un caotico
tutti contro tutti.
Oggi a Giuba comanda il capo dei Dinka,
un tipo che si fa fotografare sempre con il cappello da cowboy regalatogli
(dice) da George W. Bush. Il capo dei Nuer è invece in esilio, ma il suo
esercito è ancora attivo e il Paese è tutt’altro che pacificato. In più, pezzi
sparsi delle varie milizie si sono messi in proprio, trasformandosi in bande
armate che vivono nella boscaglia e di lì escono per assaltare i villaggi,
rapinare il bestiame, violentare le donne. Così più di un terzo della
popolazione civile è fuggito a piedi dal Paese, perlopiù in Uganda. I pastori
rimasti girano armati tipo Rambo.
Di contadini non ce n’è quasi più, se non
nei villaggi di montagna, un po’ più difendibili. Le strade asfaltate non ci
sono mai state; quelle di terra - abbandonate - sono spesso impraticabili per
le buche profonde: e dopo un temporale è impossibile percorrerle, anche coi
migliori fuoristrada. In ogni caso chi ci va lo fa a suo rischio, perché le
bande di militari predoni possono uscire dal bush in ogni momento. Il servizio
postale è sospeso da tempo. Anche la telefonia mobile - indispensabile in Paesi
come questo, che quella fissa non l’hanno mai avuta - non funziona più da anni:
i ripetitori sono stati distrutti o sono rimasti senza energia. Insomma è il
Medioevo, ma quello del X secolo: nessuna forma di comunicazione, paura
diffusa, scorrerie barbariche.
Milioni di profughi, si diceva, hanno
sconfinato in Uganda, e continuano a farlo ogni giorno. Tra i due Paesi la
frontiera è porosa, i disperati del Sud Sudan scendono dai monti stremati e
vengono accolti di là dal confine dall’Unhcr e dalle Ong. Tutta l’Uganda del
nord è costellata di campi profughi: talvolta tende, talvolta lamiere o tukul.
I sud sudanesi qui trovano un posto dove semplicemente non rischiano di essere
ammazzati ogni giorno. L’Unhcr e le Ong distribuiscono cibo - fagioli, di
solito - e medicinali urgenti. I più anziani accendono un fuoco per prepararsi
l’ arege , un distillato superalcolico a base di mais, sorgo e cassava. La sera,
se ne ubriacheranno.
Salendo in fuoristrada dal campo ugandese
di Kitgum verso il Sud Sudan ci si accorge di essere arrivati al confine perché
finisce la strada asfaltata. Di là, è solo terra. La frontiera è un tukul dove
si pagano cento dollari a persona per entrare. Appena oltre la linea incrociamo
una camionetta piena di uomini armati senza divisa, alcuni a torso nudo, in
piedi: hanno saputo chissà come che sono arrivati degli stranieri e vanno al
posto di blocco con i fucili, a prendersi i soldi. Ci salutano e ridono, non
sappiamo a che milizia appartengono.
Così possiamo proseguire verso Isohe, la
nostra meta: è in questo villaggio di capanne che una Ong italiana, l’Avsi, ha
piazzato la sua base per provare ad affrontare una situazione umanitaria disperata.
Il primo, primissimo obiettivo riguarda
la salute e l’alimentazione: qui, da quando è scoppiata la guerra civile, si
muore di tutto, dalla diarrea alla malaria, dal tifo alla rabbia.
Quelli di Avsi intervengono nel modo più
capillare possibile: visitando nei loro centri soprattutto le donne incinte e i
bambini, per dividerli poi tra quanti possono tornare al villaggio con le buste
di cibo proteico - una pappa a base di pasta d’arachidi - e quanti invece
devono essere ricoverati nell’ospedale di Isohe, dove un medico ugandese cerca
di curare chi può, con gli strumenti che ha.
Il momento più delicato è quello in cui i
bambini vengono pesati - su una bilancia che è un sacco appeso - e misurati. Se
il braccialetto di carta avvolto attorno al piccolo polso arriva al segno
rosso, la situazione è disperata.
Ma a volte basta uno sguardo ai capelli:
se danno innaturalmente sul biondo è segno di pessima nutrizione e c’è bisogno
di un intervento urgente. Circa 150 mila persone, nella vallata, sono
monitorate così, ma è non è facile raggiungere le famiglie che si sono nascoste
in montagna e hanno paura di scendere.
Affrontare la fame e le malattie,
inoltre, non basta: è per questo che i ragazzi di Avsi lavorano anche in altre
due direzioni, cioè l’agricoltura e la scuola. La prima è un paradosso: in una
terra dove basta buttare un seme per far spuntare un albero, le colture sono
state quasi tutte abbandonate per timore degli assalti armati.
Ogni attività stanziale è ad alto rischio
e qui resistono solo i pastori, che fanno vita nomadica. L’Ong cerca quindi
aree protette - o comunque meno battute dalle bande - per provare a far
rinascere le coltivazioni, fornendo sementi, istruzioni tecniche, vanghe.
Anche far andar avanti le scuole non è
facile: non essendoci più uno Stato, nessuno paga gli insegnanti, che quindi
spesso smettono di andare al lavoro; anche le famiglie sono poco propense a
mettere a repentaglio la vita dei loro ragazzini, che magari devono camminare
una o due ore nel bush per arrivare a scuola. Avsi cerca di rimediare con
programmi tipo “Food for education”: agli alunni si dà da mangiare, così le
famiglie sono incentivate a mandarli. A volte anche gli insegnanti vengono
nelle classi perché a mezzogiorno è garantito un pasto, sempre grazie alle Ong.
Alcune scuole inoltre hanno dei sotterranei in cui nascondersi se arriva una
banda.
La sfida sembra impossibile, ma continua.
Grazie alla passione di chi l’ha intrapresa e ha scelto di vivere qui, su
brande assalite da zanzare, tra il caldo torrido e le piogge torrenziali,
lontano da ogni comodità, per aiutare altri esseri umani; ma anche grazie
all’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo che - insieme ai
donatori - sponsorizza il “progetto Sanpic”, che sta per Sicurezza alimentare,
nutrizione e protezione di Ikwoto County, cioè quest’area meridionale del Sud
Sudan.
Una regione più raggiungibile
paradossalmente dall’Uganda che dalla capitale Giuba, dove si può arrivare solo
con un tortuoso viaggio in parte in fuoristrada e in parte con un aeroplanino
che decolla dalla “strip” sterrata di Torit, indispensabile per evitare i
luoghi di terra più a rischio di milizie aggressive.
Ma è proprio in questa valle isolata e
nelle sue scuole frequentate per fame che si mettono insieme ragazzini di etnie
diverse, i cui padri si sono uccisi tra loro. È qui che si insegna una lingua
comune, l’inglese, che magari gli verrà utile da grandi. È qui che i figli dei
nemici giocano insieme sulla stessa altalena e mangiano puré di sorgo seduti
sotto lo stesso albero.
Ed è qui, in fondo, che il Sud Sudan ha
ancora una speranza.
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