sabato 27 maggio 2017

Intervista ad Anselm Jappe – Agosto 2015



Dobbiamo uscire da questo posto
- Alastair Hemmens intervista Anselm Jappe -
Alastair Hemmens: Cominciamo a parlare un po' del tuo sviluppo intellettuale come teorico critico. Potresti dirci qualcosa sul contesto storico ed intellettuale in cui, per la prima volta, hai sviluppato il tuo approccio alla teoria critica? Puoi individuare una particolare esperienza personale che ti ha spinto, originariamente, verso la critica radicale del capitalismo?
Anselm Jappe: Una delle espressioni più forti della visione del mondo condivisa da molti giovani negli anni settanta, è quella per cui Patti Smith cantava "Fuori dalla società/Ecco dove voglio stare" (“Rock ’n’ Roll Nigger,” 1978). Questa è anche una delle migliori sintesi del cambiamento che da allora ha avuto luogo. Oggi, si parla un bel po' di "esclusione" dalla società, di "marginalizzazione", della necessità di "includere" nella società tutti i tipi di persone. Essere "fuori dalla società", viene oggi pensato come la cosa peggiore che potrebbe succederti. Questo non è sorprendente, considerato che oggi la più grande minaccia che la società capitalista rappresenta per ognuno di noi consiste nel fatto che siamo virtualmente superflui, e potremmo facilmente diventarlo anche di fatto. Ma durante la mia adolescenza, che coincide con la seconda metà degli anni settanta, in Germania, nella città di Colonia, gli echi della ribellione del '68 erano ancora abbastanza forti, anche fra le persone molto giovani. E l'ultima cosa che io e gli altri giovani ribelli come me volevamo era "integrarci" in una società che consideravamo disprezzabile.
Scuola e famiglia, lavoro e Stato, cultura borghese e morale tradizionale, tutto questo ci sembrava voler "prenderci" e costringerci ad "adattarci". Per me, come per molti altri, il rifiuto ad "adattarci" è stata la sfida delle nostra vita. Naturalmente, si è rivelato molto più difficile di quanto credevamo; ma oso dire che ho almeno provato a rimanere fedele allo spirito della mia prima gioventù, in due sensi: Primo, con il tentativo di comprendere e criticare la società capitalista, essenzialmente attraverso letture e discussioni - chiamiamolo il lato politico della ribellione, il lato che viene dalla "testa". Secondo, con il rifiuto di quelle forme di vita che l'autorità ci impone - il lato "esistenziale" della ribellione, che proviene dalle "viscere". Per me, si trattava di una scelta chiara: né militanza sacrificale, né "amore, pace e felicità" (né "sesso, droga e rock ’n’ roll”, questa è un'altra versione). Piuttosto, per citare un'altra canzone: “We gotta get out of this place [Noi dobbiamo uscire da questo posto]” (Eric Burdon, 1965). Così scelsi, come modelli, Saint-Just e Bakunin. Un po' più tardi cominciai a leggere Marx, Marcuse e Adorno, ma ero sempre attratto da quella che veniva chiamata la "controcultura", specialmente nella sua forma hippie. Ho preso parte a un certo numero di "collettivi" - così come venivano chiamati - dall'opposizione alla scuola autoritaria al movimento anti-nucleare. Quando avevo quindici anni, si tenne una particolare assemblea di insegnanti per discutere se dovevo essere espulso dal liceo, come punizione per i miei articoli sul giornale studentesco. Non venni espulso, ma ci andai molto vicino.
Le mie scelte intellettuali, essenzialmente, sono servite ad approfondire il mio spirito ribelle. Ho l'impressione che questo al giorno d'oggi sia una cosa molto meno comune. Oggi, per alcune persone, una comprensione critica della società capitalista va a braccetto con una tranquilla carriera universitaria (o con il tentativo di farsene una) e non sembra dover comportare il rifiuto della vita borghese e dell'integrazione nella società. D'altra parte, oggi il rifiuto "esistenziale" della vita borghese spesso non viene articolato e diventa facilmente una sorta di scelta alternativa di vita, che può essere recuperata nella logica della merce; l'altra possibilità è che conduca ad una totale auto-ghettizzazione. C'è un bel po' di scontento, oggi, ma è quasi sempre rivolto a qualche problema specifico, dal disastro ecologico al razzismo, e assai raramente alla totalità della società capitalista. Il Postmodernismo ha profondamente ridisegnato anche lo spirito antagonista.
Così sono cresciuto col mito della Rivoluzione francese, e nel 1974-75 (quando avevo solo 12 anni) ho pensato che la rivoluzione portoghese stesse ripetendo la Rivoluzione francese. Puoi anche ridere per la mia ingenuità, ma lo preferisco all'atteggiamento di quelli che, già nella loro adolescenza, si stavano preparando a "perdere la loro vita a guadagnare", come diciamo in francese. Sono sempre stato qualcosa fra anarchismo e marxismo eterodosso, e non ho mai avuto simpatia per gli stalinisti, i maoisti, i leninisti, o per qualsiasi altra concezione autoritaria della rivoluzione. Ben presto, sono anche venuto a conoscenza del lato oscuro del progresso tecnologico - un tema nuovo, allora - ed ho letto autori come Ivan Illich e Régine Pernoud. Ma non ho mai avuto paraocchi ideologici: ho anche letto Nietzsche con grande emozione.
Hemmens: Nel mondo anglofono, sei ancora più noto per il tuo lavoro su Guy Debord e sull'Internazionale Situazionista. Volevo dirti che il tuo libro "Guy Debord" (1993) è ancora considerato, più di quanto lo fosse vent'anni fa, come il lavoro definitivo su quel soggetto. Come hai scoperto Debord? CHe effetto ha avuto, se lo ha avuto, sul tuo pensiero critico? E perché pensi che il tuo approccio alla sua opera ha ancora questa forte risonanza?
Jappe: Ho conosciuto i situazionisti nel contesto che ho appena descritto. Un mio amico, più vecchio di me di qualche anno e per me una sorta di mentore, era fra le poche persone che a quel tempo, in Germania, conosceva i situazionisti. Non solo trovai che le loro idee erano difficili da capire, ma rimasi letteralmente scioccato: erano contro tutto il militantismo della sinistra radicale a cui mi sentivo vicino (sebbene ne fossi sospettoso, mi sembrava impossibile che ci potesse essere qualche altro genere di azione collettiva). Da un lato, sentivo che avevano colpito alcune delle mie convinzioni più intime; dall'altro lato, ero affascinato da qualcosa di molto più profondo, più radicale e, allo stesso tempo, più poetico dei volantini distribuiti dai gruppi politici che vedevo intorno a me, i quali normalmente usavano un tono decisamente moraleggiante. Ero anche sedotto dall'appello ad una rivoluzione della vita quotidiana. Ma è stato solo qualche anno più tardi che ho letto sistematicamente l'opera di Debord e degli altri situazionisti. Dal momento che avevo scelto i situazionisti come soggetto della mia tesi di laurea, potevo dedicare un mucchio di tempo a leggerli. In quel periodo mi ero trasferito in Italia e studiavo filosofia a Roma. Avevo conseguito un master con Mario Perniola, un professore di estetica che aveva conosciuto personalmente Debord ed i situazionisti ed era stato vicino a loro nel 1968. Ad ogni modo, ufficialmente, l'Internazionale Situazionista non esisteva nel mondo accademico, o nei media. (Non bisogna lamentarsi di questo: la loro strategia di resistenza al recupero istituzionale e spettacolare ha funzionato abbastanza bene sotto quest'aspetto.) Quando Perniola mi suggerì di pubblicare come monografia una parte della mia tesi su Debord, venne fuori che era la prima a lui dedicata.
Se questo libro è stato tradotto in cinque o sei lingue, e se viene letto ancora oggi da un vasto pubblico - anche dopo la "scoperta" di Debord, dopo la sua morte avvenuta nel 1994 - e continua ad essere ripubblicato, questo può essere dovuto al fatto che ho cercato di sottolineare la sua importanza non solo in quanto critico radicale della società capitalista, sia nella teoria che nella prassi, ma anche come qualcuno che è riuscito a vivere come voleva vivere: fuori dallo spettacolo. La maggior parte delle pubblicazioni successive hanno enfatizzato - troppo, ritengo - il lato estetico della sua attività, o la sua biografia, oppure hanno ridotto la sua critica sociale a soltanto una forma di teoria dei media. Così, hanno contribuito, volenti o nolenti, all'incorporazione di Debord nell'industria culturale postmoderna.
Ma non volevo promuovere la creazione di una leggenda, né volevo diventare uno "specialista". Infatti, continuo a riferirmi spesso alle sue idee, ma cerco anche per quanto possibile di sviluppare ulteriormente la critica della totalità del sistema capitalista. Quindi, non posso simpatizzare per quelli che sviluppano app "psicogeografiche" per gli smartphone, o cose del genere! Né con gli accademici che lodano Debord come "profeta dell'età dei media" e che ignorano il fatto che egli ha articolato un critica spietata di tutte le forme di vita "permesse", ivi incluse praticamente tutte le forme di contestazione - soprattutto l'arte! Questa "amara vittoria del situazionismo" probabilmente era inevitabile. E' assai più notevole il fatto che il nucleo dell'analisi dello spettacolo di Debord rappresenti ancora un punto di riferimento per il pensiero sociale e che possa essere ancora un'importante fonte di ispirazione. Ugualmente, la sua vita ed il suo atteggiamento possono essere fonte di ispirazione - e non ci sono molte figure del 20° secolo di cui si possa dire lo stesso.
Hemmens: Dieci anni dopo "Guy Debord", hai pubblicato "Le avventure della merce" (2003), che è stato un tentativo di fornire - per la prima volta, ad un vasto pubblico - un'esposizione sistematica della teoria critica del capitalismo sviluppata dal gruppo tedesco della "Critica del valore", in particolare come è stata formulata dal compianto teorico critico Robert Kurz. Probabilmente, da allora, sei diventato il più noto sostenitore della Critica del valore in Francia. Cos'è la Critica del valore? Com'è avvenuta la tua associazione ad essa e perché è arrivata fino al punto di definirti con la tua opera?
Jappe: Ho concepito il mio libro su Guy Debord, non come la contemplazione di un qualche fenomeno del passato, ma come un contributo all'elaborazione di una nuova comprensione del tardo capitalismo e della possibilità di superarlo. Ero quindi alla ricerca di altre analisi radicali dello stato pietoso in cui si trova il mondo. Intorno al 1993, mi sono imbattuto nella Critica del valore e nella rivista tedesca Krisis. Rimasi particolarmente colpito dagli argomenti di Robert Kurz, circa il fatto che il collasso dell'USSR non significava che il capitalismo avesse alla fine trionfato, ma che piuttosto aveva compiuto un altro passo nella direzione della sua crisi finale. L'affermazione del gruppo Krisis, secondo la quale è il feticismo delle merci, e non la lotta di classe, a costituire il cuore della società capitalista mi convinse, tanto più che la teoria di Debord aveva già sottolineato l'importanza di categorie come alienazione, feticismo, merce, e valore (seppure senza rinunciare al paradigma della lotta di classe). Un altro aspetto che collega le idee situazioniste alla Critica del valore, è la critica del lavoro. Debord ci ha dato lo slogan "Non lavorate mai!" ed ha rivendicato "l'abolizione del lavoro alienato". La Critica del valore non considera più il lavoro come in opposizione al capitale e come agente del suo superamento (come nel marxismo tradizionale), ma piuttosto come parte della valorizzazione del valore per mezzo del lavoro astratto. Lavoro astratto significa lavoro senza qualità, lavoro considerato come puro dispendio di energia umana misurato dal tempo, senza alcun contenuto specifico. Si tratta quindi di una forma distruttiva di produzione sociale, dacché non si può intervenire sul suo contenuto e sulle sue conseguenze. Per Krisis, l'essenza della teoria di Marx risiede nel suo giudizio critico sul lavoro e sul valore, sulla merce e sul denaro; non si tratta di categorie naturali, bensì di categorie storiche che caratterizzano solamente la società capitalista, e non si tratta di categorie neutrali delle quali le forze di emancipazione possono impadronirsi; piuttosto, sono nella loro struttura, forme alienate dell'attività umana. La produzione di valori d'uso esiste soltanto come una sorta di appendice della produzione di valore, la quale consiste nella trasformazione di una somma di denaro in una somma di denaro più grande - e questo può essere fatto solo aggiungendo lavoro al lavoro, senza alcuna considerazione per la sua reale utilità.
La lotta di classe è la forma assunta dallo sviluppo storico della logica del valore. Il movimento dei lavoratori, nelle sue varie correnti, era per lo più volto ad attuare una lotta per una più equa distribuzione delle categorie di base che non venivano più messe in discussione: denaro e valore, lavoro e merci. Erano perciò essenzialmente forme di critica immanente, legata alla fase ascendente del capitalismo, quando c'era ancora qualcosa da distribuire. Ma fin dall'inizio, c'era in agguato una grossa contraddizione all'interno del processo di produzione di valore: solo il lavoro vivo - lavoro nell'atto della sua esecuzione - crea valore. La tecnologia non lo crea. Tuttavia, la concorrenza fra i diversi capitali costringe anche ogni proprietario di capitale ad usare la tecnologia il più possibile per incrementare la produttività dei suoi operai. Questo gli permette di guadagnare maggior profitti a breve termine. Tuttavia, anche il valore contenuto in ogni singola merce diminuisce. Solo un incremento continuo nella massa totale delle merci può compensare tale diminuzione in ciascuna merce, ma questo meccanismo produce la folla della produzione ai fini della produzione stessa, con tutte le terribili conseguenze ecologiche che ora conosciamo. Questo meccanismo di compensazione non può durare per sempre e, dal 1970 in poi, la rivoluzione microelettronica ha definitivamente distrutto molto più lavoro di quanto ne abbia creato. Da quel momento che il capitalismo si trova bloccato in una crisi senza fine. Questa crisi non è più ciclica; ma è causata dal fatto che il capitalismo ha raggiunto il suo limite interno. Solo l'espansione massiccia del debito ed i mercati finanziari continuano a mascherare l'esaurimento profondo della produzione capitalista. Di fronte a questa nuova situazione, la questione non è più quella di come migliorare le condizioni dentro questo sistema di merci, ma di come uscire completamente dal sistema di denaro e valore, di merci e lavoro. Questo non è più un progetto utopico, ma si tratta piuttosto della sola reazione possibile alla fine reale della moneta e del valore, della merce e del lavoro, che è già in atto. C'è solo la questione di sapere se ci sarà un'uscita emancipatrice o un imbarbarimento generale.
Sono più di vent'anni che contribuisco all'elaborazione ed alla diffusione della Critica del valore, in quanto quest'approccio è, almeno ai miei occhi, il solo che arriva al cuore del sistema capitalista, anziché limitarsi a descrivere fenomeni individuali. In particolare, tiene conto del fatto che oggi, a livello globale, la produzione di "popolazione superflua" è un problema ancora più grande dello sfruttamento. Sono convinto che questo genere di critica teorica, e le sue conseguenze pratiche, siano la sola alternativa all'ondata crescente di populismo, il quale riduce la sua critica all'opposizione alle banche, alla speculazione ed alla sfera finanziaria, e che potrebbe avere come risultato un pericoloso miscuglio di sinistra e di destra tradizionale.
Hemmens: Forse, l'argomento più radicale e più centrale della Critica del valore è quello per cui il lavoro è una forma sociale del tutto negativa e distruttiva che è, per di più, storicamente specifica del capitalismo. In che cosa la vostra critica del lavoro differisce dalla tradizionale critica del lavoro autonoma o anarchica? In che modo questa critica del lavoro differenzia la Critica del valore da altre "grandi teorie" di emancipazione sociale?
Jappe: Praticamente, l'intero movimento operaio - compresa la sua forma anarchica - era una difesa del lavoro e del punto di vista dei lavoratori. Il lavoro veniva pensato come un principio eterno, ontologico, identico allo "scambio organico" dell'uomo con la natura. Come tali, i lavoratori venivano glorificati in quanto incarnazione di questo "buon" principio, e gli sfruttatori che possedevano i mezzi di produzione venivano visti semplicemente come dei parassiti. La merce, il valore, il denaro, ed il lavoro astratto erano considerati come la base tecnica di ogni forma di produzione possibile; e la società socialista, comunista, o anarchica del futuro doveva consistere nella gestione "razionale" o "proletaria" o democratica di tali categorie. Nel migliore dei casi, c'era la promessa che sarebbero stati aboliti in un futuro molto lontano. Va detto che lo stesso Marx era spesso piuttosto ambiguo su questo e a volte metteva in discussione lo status sovra-storico del lavoro. Descriveva la "duplice natura del lavoro" - concreto ed astratto - e definiva questa come la sua "più importante scoperta". Più di cento anni più tardi, la Critica del valore ha riscoperto quest'aspetto della teoria di Marx. Quello che potremmo definire "marxismo tradizionale", però, è andato nella direzione opposta: il lavoro, specialmente il lavoro industriale, sarebbe rimasto per sempre alla base di ogni società. Sebbene gli inizi del movimento operaio, nella forma dei luddisti e dei proto-socialisti francesi, siano stati caratterizzati da un certo rifiuto del lavoro industriale, il movimento ben presto rimase completamente intrappolato nella mitologia del progresso e del ruolo del lavoro nella sua realizzazione. L'obiettivo divenne quello di liberare il lavoro, non di liberare le persone dal lavoro. Questo approccio raggiunse il suo culmine nell'ammirazione da parte di Lenin e di Gramsci per Henry Ford e per la taylorizzazione del lavoro. In Unione Sovietica, in Cina, ed altrove, "rivoluzione dei lavoratori" significa essenzialmente far lavorare le persone di più e più duramente di quanto avveniva prima, ma dire loro, allo stesso tempo, che ora sono i proprietari dei mezzi di produzione.
La sinistra radicale ha sempre condannato soltanto la morsa dell'apparato burocratico sulla collettivizzazione socialista della proprietà, ma non il ruolo del lavoro stesso e di come veniva organizzato. Anche gli anarchici tendono a partecipare al culto del lavoratore. Era solo fra gli artisti, i poeti e i bohémien - in particolare, i surrealisti - che poteva essere trovato il rifiuto del lavoro. Dopo il 1968, comincia ad emergere un rifiuto del lavoro in certi settore della classe operaia, soprattutto in Nord Italia, e fra i molti giovani che non si identificavano più con l'idea di dover trascorrere la loro vita lavorando. Da un lato, questo si è rivelato come una sorta di laboratorio per nuove forme postmoderne, più "flessibili", di lavoro, che pretendono di superare la distinzione fra lavoro e tempo libero. Dall'altro lato, nelle tendenze "autonome" e "post-operaiste" si può trovare un rifiuto del lavoro eteronomo. Questo rifiuto, tuttavia, è rimasto soggettivo, senza una comprensione teorica della duplice natura del lavoro, ed ha quindi portato a risultati discutibili: o lodando le macchine che dovrebbero lavorare al nostro posto, che si è tradotto i tecnofilia e nell'accettazione di un processo nel quale gli esseri umano vengono rimpiazzati dalla tecnologia, oppure celebrando il freelance, nel quale si è creduto che le persone gestiscano il proprio lavoro e posseggano essi stessi i loro mezzi di produzione (ad esempio, nel settore della comunicazione e dell'informazione), anche se rimangono del tutto dipendenti dai meccanismi del mercato. In genere, i teorici post-operaisti parlano di "auto-valorizzazione" come di un obiettivo positivo, anziché mettere in discussione l'intero processo attraverso il quale l'utilità di un prodotto viene subordinata al "valore" che gli viene conferito dall'ammontare di lavoro morto che contiene.
L'approccio della Critica del valore è molto diverso in quanto insiste sulla "duplice natura" del lavoro nella società capitalista (e solo nella società capitalista): il valore d'uso di ciascuna merce non ha importanza; è soltanto la quantità di lavoro astratto che essa "contiene" (o "rappresenta") a contare. Questo significa che il lavoro, come tale, si riduce al semplice dispendio di energia umana. E' il lato astratto, il lato "valore", nella sua forma visibile di denaro, che domina la realtà. Le leggi della produzione e della circolazione del valore si impongono su tutta la società e non lasciano posto a decisioni coscienti, soggettive, nemmeno della "classe dominante": questo è ciò che Marx chiama "feticismo delle merci". Non è naturale, ma è piuttosto un inversione della normale relazione fra astratto e concreto. L'assurda tirannia del lavoro nella società moderna è la diretta conseguenza del ruolo strutturale che ha il lavoro astratto. Se non teniamo conto di questo, ogni ribellione contro il lavoro rimare superficiale.
Hemmens: Con i recenti avvenimenti greci ancora vivi nella mente di ognuno, è chiaro che la crisi finanziaria del 2008 è ben lontana dall'essere stata un semplice disturbo in un corpo capitalistico altrimenti sano. A differenza di chi semplicemente attribuisce questa crisi alla cattiva gestione o all'avidità capitalista, come ci aiuta, la Critica del valore, a capirà cosa avviene strutturalmente dietro l'apparenza di questi collassi quasi fatali dei sistemi finanziari e delle economie nazionali?
Jappe: I teorici borghesi hanno sempre creduto "eterno" il capitalismo perché, affermano, si trova in accordo con la "natura umana. Per loro, tutte le crisi sono solo cicliche e transitorie: vengono comprese come il risultato degli squilibri fra domanda ed offerta, oppure vengono perfino elogiate come forma di "distruzione creativa". Per i marxisti, il capitalismo è transitorio ed è condannato ad essere superato, un giorno, ma la sua abolizione ci si aspettava sempre che fosse il risultato di azioni rivoluzionarie della classe lavoratrice o di qualche altro avversario organizzato. La possibilità che il capitalismo possa avere dei limiti interni che potrebbe aver raggiunto, dopo la morte di Marx non è stata quasi mai presa in considerazione. Quando il marxismo tradizionale ha predetto un collasso finale, ha sempre assunto che questo avrebbe avuto la forma di una rivoluzione politica che sarebbe stato il risultato delle intollerabili condizioni create dallo sfruttamento capitalista. Vi è, tuttavia, un fattore molto importante che non veniva considerato: la contrazione nel lungo periodo della massa di valore (e di profitto) che ho menzionato prima. Questo problema è apparso solo in maniera limitata: la caduta del tasso di profitto.
Dopo che il capitalismo è stato in grado di integrare in sé, con successo, le critiche immanenti, soprattutto durante il boom keynesiano-fordista successivo alla seconda guerra mondiale, molti marxisti si sono definitivamente convinti che il capitalismo non avrebbe mai più incontrato un'altra crisi economica e che solo il malcontento soggettivo avrebbe potuto portare al suo superamento. I situazionisti, così come la Scuola di Francoforte, si sono abbandonati completamente a questa prospettiva. Ad ogni modo, come ho detto prima, tutto questo è cambiato completamente dopo il 1970. L'accumulazione del capitale ha raggiunto i suoi limiti perché la sua base, l'estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, è diventata sempre più piccola via via che si affievoliva continuamente l'importanza del lavoro vivo. Il risultato è che il capitalismo ora è in grado di sopravvivere soltanto attraverso la simulazione; vale a dire, anticipando i profitti futuri - che non arriveranno mai - per mezzo del credito. La Critica del valore sta dicendo questo dal 1987. Negli anni 1990, l'evidenza empirica sembrava andare contro quest'argomento, ma dopo il 2008 tutti hanno cominciato a dire quanto fosse profonda la crisi. La realtà è che il 2008 è stato il tremore che avverte del terremoto della crisi del capitalismo, e non è stato in alcun modo un reale collasso. Anche nella sinistra e nella sinistra radicale, tuttavia, la fede nell'eternità del capitalismo è sorprendentemente forte!
E' molto comune vedere incolpare della crisi, i mercati finanziari che soffocano "l'economia reale". La verità è l'esatto contrario: solamente il credito consente la simulazione continuata della produzione di valore - che significa profitto - dal momento che l'accumulazione reale è arrivata ad uno stop quasi totale. Anche lo sfruttamento massiccio dei lavoratori in Asia ha contribuito assai poco alla massa globale di profitto. Sostituire la critica del capitalismo con la critica dei mercati finanziari è puro populismo e significa semplicemente evitare le questioni reali. Il dramma reale è che ciascuno è ancora costretto a lavorar per poter vivere, anche quando nella produzione non serve più il lavoro. Il problema non è l'avidità di specifici individui - anche se ovviamente quest'avidità esiste - e non può essere risolto su basi morali. I banchieri ed i loro simili - i quali, non lo si può negare, sono assai spesso delle figure odiose - stanno solo eseguendo le leggi cieche di un sistema feticistico che dev'essere criticato nel suo complesso.
Kurz chiama questo processo la "desustanzializzazione del denaro". Dal momento che solo il lavoro vivo crea valore, ne forma la sua "sostanza". Non si tratta di un processo immaginario; viene realmente spesa energia umana ed essa esiste in una data quantità (anche se misurarla potrebbe essere molto difficile). Il valore non può essere creato per decreto, ma solo da un reale processo lavorativo - e dev'essere "lavoro produttivo" in senso capitalista (questo significa che non solo consuma capitale ma aiuta anche a riprodurlo). Per decreto può essere creato il denaro - ma quando non corrisponde all'ammontare reale del lavoro che si suppone esso "rappresenti", non ha "sostanza" e perde il suo valore per mezzo di una qualche forma di inflazione (anche se per decenni l'esplosione di una massiccia inflazione è stata rimandata parcheggiando ingenti somme di capitale fittizio nei mercati azionari, nei mercati immobiliari, e così via). Su questo, la Critica del valore si trova in netto contrasto con quasi tutti gli economisti di sinistra, che in generale sono solo dei neo-keynesiani.
Hemmens: Attualmente stai lavorando ad un nuovo libro, Le avventure del moderno soggetto, che si collega alla tua esposizione originale della Critica del valore, ma che esplora più in dettaglio il lato "soggettivo" della formazione sociale capitalista. Tu sostieni che la forma soggetto, come il "lavoro", è storicamente specifica del capitalismo e che anch'essa è distruttiva. Attingendo all'opera del critico sociale americano, Christopher Lasch, anche tu sostieni che la soggettività capitalista è una forma di narcisismo. Potresti spigare qual è il collegamento fra la tua critica del lavoro e la forma soggetto? Come può anche la "soggettività" essere storicamente specifica del capitalismo? Perché questa forma soggetto è narcisista e quale ruolo ha nello sviluppo della tua teso la critica (conservatrice) di Lasch della società moderna?
Jappe: La critica del concetto di "soggetto" diviene abbastanza presto un aspetto chiave della Critica del valore. Nel marxismo tradizionale, come in quasi tutta la moderna filosofia da Cartesio in poi, il soggetto è qualcosa che è sempre esistito. E' un fatto ontologico. Ben presto i marxisti hanno identificato il soggetto con la classe operaia, la quale media fra l'uomo e la natura e che fa la storia sotto forma di "soggetto rivoluzionario". In questa prospettiva, "emancipazione" (o "rivoluzione") significa che il soggetto, che fino a questo punto è stato represso, finalmente conquista tutti i suoi diritti. Il tradizionale "soggetto filosofico" è stato duramente attaccato fin dagli anni 1950, soprattutto in nome dello strutturalismo, della linguistica e della psicoanalisi. C'erano molte buone ragioni per questa "decostruzione" del soggetto. Tuttavia, non veniva decostruito il soggetto come categoria storica ed invece veniva dichiarato che non era mai esistito alcun soggetto, né avrebbe mai potuto esistere, e che questo era soltanto un "errore epistemologico". La Critica del valore, al contrario, si è concentrata sul concetto di feticismo delle merci di Marx: gli uomini fanno la loro propria storia ma la fanno inconsciamente. Gli uomini creano strutture ("leggi economiche", "imperativi tecnologici", e così via) che finiscono per dominarli, nello stesso modo con cui avviene per la religione. Il solo soggetto reale nella società capitalista è il valore, che Marx chiama il "soggetto automatico": il valore si serve della società umana per assicurarsi che la sua accumulazione non finisca mai. Gli uomini sono diventati i servi dei loro poteri alienati. Eppure questo è parte del processo storico. La storia, come è stato spiegato finora, può essere descritta come una successione di varie forme di feticismo e di inconsce, alienate forme di mediazione sociale. Questo non ha niente a che fare con una "condizione umana". Può essere superato, almeno in teoria. Questo superamento, tuttavia, non può più essere pensato come il trionfo di un "soggetto" preesistente, sopravvissuto sotto la cenere dell'alienazione capitalista. Non possiamo più affermare che il "popolo", le "masse", i "lavoratori" sono, nella loro essenza, intatti, incontaminati dalla logica della merce (concorrenza, avidità, opportunismo, ecc.). Questo poteva essere nei luoghi dove la modernità aveva appena cominciato ad emergere, ma non è più applicabile. Se accettano il sistema, questo non è semplicemente il risultato della "manipolazione dei media", o di qualcosa del genere. E' questo, in egual misura, il limite di tutti i discorsi che fanno appello alla "democratizzazione".
Il soggetto moderno si formava attraverso l'interiorizzazione dei vincoli sociali che nelle precedenti società venivano imposti dall'esterno sugli individui. Il Panopticon di Jeremy Bentham è il paradigma della "libertà" del soggetto moderno. All'Illuminismo, e ad Immanuel Kant in particolare, viene attribuito il merito di aver inventato l'autonomia del soggetto moderno. Tuttavia, i filosofi dell'illuminismo - Kant ne è ancora una volta il miglior esempio - non identificavano il "soggetto" con "l'essere umano" in quanto tale, ma piuttosto soltanto con quelli che avevano dimostrato di essere "responsabili": in altre parole, quelli che erano in grado di controllare le loro spontanee pulsioni umane ed i loro desideri. La prima condizione per essere un soggetto era quella di mettere sé stessi al lavoro, concepire sé stesso come un lavoratore, e sviluppare tutte le qualità necessarie per la concorrenza capitalista: mancanza di emozioni, negazione della soddisfazione immediata, durezza di cuore verso sé stessi e verso gli altri, e così via. Alle donne e alle popolazioni non europee non veniva dato lo statuto di soggetto. Naturalmente, più tardi nella storia, sono stati in grado di ottenerlo, ma soltanto dopo che avevano provato di avere le stesse qualità (negative) dei maschi bianchi, i quali erano ancora, nondimeno, considerati come i soli veri soggetti. Lo status di soggetto è, quindi, largamente connesso al lavoro; ed il superamento della società moderna - dove le persone vengono definite principalmente a partire dal loro contributo alla produzione di valore astratto attraverso il lavoro - sarà anche il superamento di quello che chiamiamo il "soggetto"; non per rimpiazzarlo con cieche strutture "oggettive", ma piuttosto con la vera fioritura dell'individuo.
Sto cercando di sviluppare ulteriormente la critica del soggetto, collegandola al concetto di narcisismo, in particolare attraverso le mie letture dell'opera di Lasch. Il narcisismo può essere inteso come la forma psicologica che corrisponde al capitalismo postmoderno, nello stesso modo in cui le classiche neurosi descritte da Freud corrispondono al capitalismo classico. Tuttavia, narcisismo non significa semplicemente eccessiva autostima. Come ha mostrato Lasch, significa una profonda regressione in un misto di senso di impotenza e di onnipotenza che caratterizza molto la prima infanzia. La cultura umana è uno sforzo continuo per aiutare l'individuo umano a superare questa forma di angoscia primitiva ed infantile. Il tardo capitalismo, al contrario, stimola una regressione in queste strutture primitive, soprattutto per mezzo della coltivazione della mentalità consumistica. E' per questa ragione che possiamo significativamente dire che gli individui postmoderni sono spesso estremamente immaturi, e spiegare perché alcuni di loro cadono facilmente preda di comportamenti violenti, fino ad arrivare alle sparatorie nelle scuole e ad altri fenomeni simili. Oggi, la società delle merci è basata non solo tanto sulla repressione del desiderio (anche se tale repressione continua ad esistere) quanto piuttosto sul creare la sensazione che non ci siano confini e limiti. La psicoanalisi è piuttosto utile per capire il carattere patologico della società contemporanea, che non è semplicemente una maniera ingiusta ma razionale di sfruttare le persone a beneficio di altre persone, ma è attualmente, per la più parte, una corsa al ribasso irrazionale, distruttiva ed auto-distruttiva. Questo è diventato particolarmente ovvio con la crisi capitalista degli ultimi decenni. Tuttavia, questo non è semplicemente dovuto agli "eccessi" del neoliberismo. Questa irrazionalità soggiace al nucleo della struttura del valore ed alla sua indifferenza ad ogni contenuto, ad ogni qualità, al mondo. Possiamo già trovare in Cartesio, nel 1637, tutta la struttura narcisistica di un soggetto che è completamente in contrasto con il mondo esterno. Dobbiamo andare lontano, indietro nel tempo, quando cerchiamo le radici di questa società delle merci feticista e narcisista.
Hemmens: Nella tua raccolta di saggi del 2011, "Credito a morte", sostieni che il nuovo ruolo che l'arte ha assunto a partire dal periodo del dopoguerra, segni anch'esso la svolta narcisista della società capitalista. Laddove, in passato, stava all'arte sfidare e giudicare il suo pubblico, essendo difficile, oggi l'arte cerca di assecondare l'esperienza ed il giudizio dei suoi spettatori. Come parte di questa tesi, hai anche affermato che abbiamo bisogno di reagire con una gerarchia di valori culturali. Pensi, contrariamente a Debord. che l'arte valga la pena di essere salvata o che tale cosa sia ancora possibile? Quale gerarchia di valori pensi che possa combattere questa democratizzazione, postmoderna e narcisista, della cultura? Perché dovremmo trattare la decomposizione dell'arte in maniera diversa della decomposizione del lavoro e del soggetto?
Jappe: Uno degli aspetti più importanti, e forse più scioccanti, dell'agitazione situazionista era la loro condanna dell'arte in quanto un'altra forma di spettacolo e una forma dell'alienazione dei poteri umani in generale. Per Debord, l'arte, come la religione o la politica, era una delle forme nelle quali le capacità umane venivano sviluppate al di fuori del controllo umano. Era arrivato il momento di restituirle alla vita quotidiana. In questo non c'era disprezzo per l'arte. Al contrario, l'auto-superamento situazionista dell'arte (nel senso hegeliano di preservarla ed abolirla nello stesso tempo) era il punto finale di un processo nel quale l'arte metteva in dubbio la sua propria esistenza, particolarmente in Francia, dove aveva raggiunto l'apice con i dadaisti ed i surrealisti. I situazionisti volevano completare l'autodistruzione dell'arte in nome di una più alta "arte della vita quotidiana", che avrebbe incorporato gli aspetti positivi di ciò che l'arte era stata prima.
Tuttavia, questo progetto, il quale era stato originariamente annunciato negli anni 1950 e 1960, aveva ancora bisogno di una rivoluzione sociale per poter essere realizzato. Ciò che accadde invece dopo il 1968 fu il sorgere di una nuova forma di capitalismo, il suo "terzo spirito" - come lo hanno chiamato Luc Boltanski ed Eve Chiapello - che si ripercosse pesantemente sulla tradizione artistica e bohémien, incorporando la "critica artistica" in nuove forme di lavoro che venivano ora presentate all'individuo come forme di auto-realizzazione. Questo risultava in un'enorme espansione dell'industria della cultura che trasformava la cultura in una merce ed in uno strumento per vendere merci. Effettivamente, ciò ha fatto sì che ci sia stata una reintegrazione dell'arte e della cultura nella vita quotidiana, ma solo in maniera perversa. Come risultato, va detto che l'arte potrebbe, o dovrebbe, provare ad essere quello che al suo meglio è sempre stata: una rappresentazione di quello che potrebbe essere, il sogno di una vita appagante, o, ugualmente, la condanna di un mondo insopportabile.
Il problema è che sembra davvero difficile trovare oggi un'arte che abbia la capacità di scuoterci dalle nostre abitudini mentali, come le avanguardie o qualcuno come Edward Hopper erano in grado di fare. Va da sé che la sovversione e la trasgressione sono diventate semplicemente dei punti vendita. L'arte dovrebbe darci uno shock esistenziale e portarci ad interrogarci (anche con esposizioni di bellezza - "scioccante" non deve sempre significare "brutto"), invece di affermare semplicemente quello che siamo già. Questo significa che possiamo giudicare opere d'arte dalla loro capacità di entrare in un dialogo arricchente con lo spettatore (o con il lettore). Se facciamo così, pensi che probabilmente scopriremo che Moby Dick non è allo stesso livello di un manga. E dovremmo dirlo forte, invece di nasconderci dietro il livellamento pseudo-democratico di ogni giudizio qualitativo. Il valore è indifferente alla qualità e a tutti i contenuti, la cultura dovrebbe porsi contro quest'abolizione della differenza.
Hemmens: Infine, a cosa dovrebbe assomigliare lo sviluppo e la forma di un movimento di emancipazione umana nel miglior scenario possibile? In altre parole, cosa dovrebbe fare l'essere umano di fronte alla crisi del capitalismo?
Jappe: La domanda non è più se possiamo uscire dal capitalismo, ma come questo accadrà, dal momento che tutt'intorno questa società sta già collassando, anche se questo avviene a differenti velocità in diversi settori e regioni del mondo. Un enorme porzione dell'umanità è stata designata come "spazzatura" ed è stata condannata a sopravvivere, come meglio può, nelle discariche o riciclando rifiuti. Denaro, valore, lavoro, e merce vengono superati ma nella forma di un incubo. Nella produzione non è necessaria una grande quantità del lavoro attualmente disponibile, ma siamo tutti costretti a lavorare per poter vivere. Il denaro attualmente in circolazione è per lo più "insostanziale", basato solamente sul credito e sulla fiducia. La produzione di valore si sta riducendo. La vera questione ora è come costruire alternative, e queste possono esistere solo in un mondo al di là del mercato e dello Stato. Non ci sono più politiche o sistemi economici, per quanto "più equi" o "alternativi", che possano risolvere questo problema perché sono tutti basati sull'accumulazione di lavoro astratto. L'unico ruolo che lo Stato può svolgere in tutto questo, è essere l'amministratore repressivo della miseria creata dalla crisi del capitalismo. Nessun partito, nessuna elezione, nessun governo "rivoluzionario", nessun assalto al Palazzo d'Inverno può portare a qualcosa di diverso dalla continua amministrazione della società delle merci in condizioni sempre peggiori. E' questo il motivo per cui tutte le politiche di sinistra hanno completamente fallito negli ultimi decenni. La sinistra non è stata nemmeno capace di imporre politiche economiche keynesiane o di riportare lo stato sociale a sostituire il neoliberismo. Non è questione di mancanza di forza di volontà. Le "leggi economiche" non possono essere "umanizzate". Possono solo essere abolite per ritornare ad una società dove la soddisfazione dei bisogni non sia basata su una "sfera economica" che si fonda sul lavoro.
Quello di cui abbiamo bisogno, perciò, potrebbe essere definito come una sorta di "rivoluzione popolare" con un nuovo significato, per cui non si ha paura della necessità di affrontare coloro che difendono l'ordine dominante, soprattutto quando si tratta di appropriarsi delle cose di base - case, produzione di attrezzature, risorse - bypassando la mediazione del denaro. Dobbiamo mettere insieme lotte socio-economiche - contro gli sfratti, per esempio, o per l'espropriazione di terre delle grandi compagnie - e lotte ambientali ed anti-tecnologiche - contro miniere, nuovi aeroporti, energia nucleare, OGM, nanotecnologia, sorveglianza - e lotte per cambiare il modo di pensare delle persone - superamento della psiche della merce. Questo potrebbe significare una reale trasformazione della civiltà, di portata molto più ampia di un mero cambiamento politico od economico. Le trasformazioni di cui parlo vanno ben oltre il dire semplicemente "noi siamo il 99%": questa è solo una forma di populismo che pone una sparuta minoranza di cosiddetti "parassiti" contro "noi", gli onesti lavoratori e risparmiatori. Noi siamo tutti profondamente radicati in questa società e dobbiamo agire insieme a tutti i livelli per uscirne. L'umanità è stata completamente vittoriosa nella sua lotta per diventare "padrona della natura", come ha detto Cartesio, ma è anche più impotente che mai di fronte alla società che ha creato.

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