venerdì 12 maggio 2017

Il sistema binario - Giuliano Bugani



Binario, triste e solitario. Tu che portasti via, col treno dell’amor, la giovinezza mia. Cantava così, Claudio Villa, nel 1959, ed io ero ancora un bambino. Ero soltanto un bambino. Perché prima di tutto devi sapere che anch’io sono stato bambino. Questa è una storia di un bambino. E cosa sa un bambino del futuro? Cosa ne sa, del suo futuro? I bambini non hanno la percezione del tempo. I bambini non sanno che verranno giorni, e anni. I bambini non sanno che verranno persone, nella sua vita. Persone che odiano i bambini. Non sanno che verranno momenti in cui i bambini non saranno mai più bambini. E allora io ascoltavo, quella canzone… Ascoltavo… E non capivo… Che parlava di me. Ti parlerò allora di un binario. C’era un treno. E c’erano le sbarre, davanti a quel binario. Io, da bambino, andavo con i miei nonni materni, sulla vecchia strada che portava alla ferrovia. Era una vecchia strada di sassi e ghiaie. La mia casa era a poche centinaia di metri dalla ferrovia. Nei pomeriggi caldi dell’estate, i miei nonni mi portavano a vedere i treni che passavano. Io ricordo bene. Quelle sbarre. Avevano strisce bianche e rosse. E le sbarre suonavano, quando scendevano. E una ruota, in alto, sul palo dove appoggiavano le sbarre, girava. E suonava. Solo le cicale suonavano più forte. Solo le cicale. Io stringevo forte le mie mani, nelle mani dei miei nonni. Poi, la ruota cessava di suonare. E poco dopo, i fili elettrici cominciavano a tremare… Era il segnale… Il treno, stava arrivando. Era grande, e ricordo che aveva tanti vagoni. E ai finestrini dei vagoni, la gente salutava… Il treno passava. Ero attratto da quel treno. Anche se avevo paura. Poi, la ruota riprendeva a ruotare e le sbarre si rialzavano. Ma io avevo paura attraversare il binario. I bambini hanno paura degli ostacoli. E quelle sbarre, per me, erano un ostacolo………….. Mai avrei immaginato, che dietro quelle sbarre c’era la mia storia. Binario. Triste e solitario. Ecco. Potrei cominciare da qui questa storia.
C’era una volta una storia. Il primo nome fu OMR. Officine Materiale Rotabile. E c’è ancora adesso. Una storia. Con un nome diverso. OGR, sai cosa vuole dire? E’ un acronimo che sta a significare Officine Grandi Riparazioni. Siamo a Bologna. Dentro Bologna. Nel cuore di Bologna. Nel cuore del più grande centro ferroviario d’ Europa. Lo snodo europeo più importante di questa parte occidentale. Più importante d’Europa, ti ho detto. E qui, alle OGR c’erano tanti lavoratori. Perché le OGR erano una città. Dentro la città. Non posso parlarti delle OGR se prima non capisci l’ importanza di una ferrovia. L’importanza di un treno. L’importanza del trasporto. L’ importanza di quella… che adesso chiamano… mobilità. Perché è su queste rotaie, su questi treni, che nell’800, cominciarono a muoversi i corpi. Corpi di uomini e donne. Corpi di cose. Corpi di materiali… ma anche di idee. La mobilità. La zona strategica geografica di Bologna, l’aveva trasformata nella città del movimento… e della comunicazione tra idee e corpi. E così a Bologna, le OGR erano non solo una città dentro la città. No. Erano molto di più. Erano uno Stato, dentro lo Stato. E come ogni Stato che nasce, esisteva un rigido controllo sui suoi individui. Sugli individui che l’ abitavano. E cioè… sui lavoratori. Le OGR nascono alla fine dell’ 800. Conta alcune migliaia di lavoratori. Esistevano tre reparti. Il Deposito Locomotive Bologna Centrale; Officina Nazionale Apparecchiature Elettriche; Officina Riparazioni Carri Passeggeri. Poi c’era lo scalo merci, nella zona di San Donato. Una grandissima area con oltre 50 binari. Venivano trasportati i carri merci con locomotive ausiliarie, e attraverso il sistema dei cambi nei binari, si scomponevano le file di carri e si ricomponevano in base alle mete di viaggio e di arrivo. Uno Stato nello Stato. Migliaia di persone che ogni giorno prestavano la propria opera affinché venisse garantita quella straordinaria rivoluzione silenziosa… la mobilità. Il pensiero, l’ idea, la parola, in movimento. Da una parte geografica all’altra. La comunicazione, lo scambio di cose. Di progetti. E tutto questo aveva necessità di una sua logistica affinché funzionasse e si sviluppasse. E quindi, questa logistica… aveva un nome… OGR. Ferrovie. Le vie del ferro. Le vie sul ferro. Ferro, acciaio non più usato per fare armi. Per uccidere altri uomini. No. Ferro e acciaio per mettere in comunicazione, gli uomini. E’ questa la ferrovia. E’ questa la strada che per decenni, secoli, ha cambiato il modo di crescere di uno Stato. Sì, perché in tutto questo, i lavoratori erano lo Stato. Erano questi lavoratori, curvi sui binari, sulle lamiere, sugli acciai, che crescevano giorno per giorno, acquisendo la consapevolezza delle proprie responsabilità. Uomini che uscivano dai campi, dalle campagne, per entrare nella fabbrica. E per entrare in una fabbrica, devi imparare cose che la campagna per secoli aveva negato. L’alfabetizzazione. Per entrare in una fabbrica, devi conoscere i numeri e le parole. Devi conoscere i disegni. Leggere un disegno tecnico è una forma di alfabetizzazione che agli uomini della campagna mancava. Entrare in una fabbrica era una grande crescita culturale. Sociale. E quando cresci culturalmente, hai la possibilità di leggere. E allora vieni a sapere cose. Vieni a sapere di storie. Vieni a sapere di teorie e ideologie. Di rivoluzioni. Di insurrezioni. Di organizzazioni. E scopri che esiste quella cosa che si chiama società. E che tu puoi decidere il destino della società.
E scopri allora che dentro una fabbrica, i lavoratori sono… la società. Scopri che dentro una fabbrica, il ferro, non è soltanto ferro. Ma è il materiale del tuo pensiero che si concretizza in una forma… E scopri infine… che tu sei la classe operaia. Dentro una fabbrica, la classe operaia, ci vive. Conosce ogni angolo della fabbrica. Le pareti si impregnano del respiro della classe operaia. Ogni centimetro del pavimento sul quale camminano i lavoratori, è la terra della campagna che si è evoluta. E sotto quel pavimento, quella terra, crescono silenziose le radici di questa classe operaia. E diventa inevitabile, amare, questa terra. Questa fabbrica. Cosa vuole dire amare una fabbrica. Non so cosa vuole dire. E cosa vuole dire vivere dentro una fabbrica. Non so cosa vuole dire. Perché, noi, dentro la fabbrica, esistevamo. Noi, dentro la fabbrica, creavamo. La nostra è una fabbrica ancora adesso, dove si crea. Dove si vive. Il ferro è la presenza di ogni cosa. I treni sono di ferro. Le sue ruote. Le sue pareti. Il suo tetto. Il suo pavimento. Tutto è ferro. E noi lavoriamo ogni cosa di ferro. I comportamenti, sono ferrei. Qui, in questa fabbrica, in questo piccolo Stato, tutto veniva registrato, protocollato. Se un lavoratore doveva parlare con un superiore, doveva firmare un verbale. Il pensiero, dentro uno Stato, anche se piccolo, deve essere conosciuto dall’ordine generale delle cose. E così tutto veniva protocollato. Devi dire una cosa a un superiore? Scrivi, e firma. I reparti erano mantenuti sotto controllo da guardie, o piantoni. Ogni spostamento dei lavoratori era registrato. Devi pisciare? Registrato. Gli spogliatoi erano piantonati da guardie. Non è che questa cosa ci piacesse. Ma dentro le OGR, dentro il piccolo Stato, la vita era questa. Tutto questo accresceva nei lavoratori la consapevolezza dell’importanza di quanto scorreva tra le loro mani. Il treno è l’oggetto primario per una democrazia evoluta. Te l’ho detto prima. Da bambino andavo a vedere il passaggio del treno, vicino la mia casa, in campagna. Erano treni grandi. Ma non immaginavo che erano molto, ma molto più grandi di quello che vedevano i miei occhi. Su quei binari, che tagliavano i miei campi di grano, scorreva la più straordinaria rivoluzione che il mondo industriale aveva creato: la Democrazia. Forse sarà una contraddizione, lo Stato, la Democrazia, la Società. Forse può essere tutto questo in contraddizione, poiché spesso la Democrazia, non è lo Stato. E lo Stato, non è obbligatoriamente, la Società. Ma qualcosa comunque stava cambiando. Gli uomini, dalle campagne alle fabbriche. Te l’ ho detto. Una rivoluzione non passa sempre attraverso le armi. Ero un bambino. Davanti a quel treno che scorreva con il suo imponente suono. Ero bambino, ma inconsciamente capivo… quella rivoluzione.
Di un treno non si buttava via niente. Così come nelle campagne, non si buttava via niente del maiale. Anche il treno era una bestia. Una grande bestia creata dagli uomini. Io ricordo che negli anni ’70, recuperavamo anche le viti. Venivano selezionate quelle sane, venivano scromate e ricromate nella galvanica. E i vetri dei finestrini? Anche quelli. Venivano anodizzati di nuovo e rimontati. I pannelli venivano lucidati. I lavoratori amavano ogni singolo pezzo del treno. Entrava alle OGR per essere rimesso a nuovo. Ripristinato e rimesso in rotaia. Ogni pezzo veniva reso più sicuro di quando era entrato. Alcuni pezzi venivano riportati di cromo duro, o leghe speciali per fargli evitare una nuova usura. Adesso hanno costruito dei reparti nuovi per l’ Alta Velocità. Ma lì prima c’erano i capannoni della mesticheria. Era uno stabilimento gigantesco. Pieno di lavoratori. Aleggiava un’aria piena di odori e colori. Forse non salutare. Facevano lo stucco, le vernici, le antiruggini. In grandi silos si faceva la ricottura dell’ olio di lino, per le vernici. Con i carri arrivavano i barili con dentro i pigmenti di polvere per il colore. Veniva miscelato nei silos e c’erano perdite incredibili di odori e fumi e vapori. Arrivava anche la saponina e la soda. Allora, siccome alle OGR si faceva di tutto, si faceva anche il sapone. E da qui, dalle OGR di Bologna, partiva il sapone per tutte le officine delle ferrovie in tutta Italia. E anche le vernici. Poi ci venne rubata la formula del sapone. Eravamo comunque autarchici. Non ci accontentammo del sapone. La formula del sapone aveva anche un aggiunta di segatura finissima e così producevamo la pasta lavamani. E sì, perché nel nostro lavoro ci si sporcava dappertutto. Il ferro, l’olio, il grasso. E mille altre cose ancora, ti entravano nei pori della pelle. Perché qui, alle OGR, si faceva di tutto. Qui c’erano lavoratori che sapevano fare ogni tipo di lavoro. C’ erano lavoratori con le mani d’oro. Sai cosa vuole dire smontare un treno e rimontarlo efficiente e nuovo? E’ come costruire una casa. Noi eravamo a casa, dentro le OGR. Eravamo come a casa, dentro un paese, dentro uno Stato. Lo stato delle cose era questo. Che ti racconto. E tutto, qui alle OGR era in tolleranza. La misura era la regola prima per ogni cosa. Allora, regole, misure, tolleranze. Tutto questo fa sì che eravamo una comunità. Lavorare con queste regole, significa adattare la tua vita alla vita degli altri. Che ti stavano a fianco. Per giorni interi. Per una vita intera. Costruire una casa, insieme. Viverci dentro, insieme. Ogni pezzo veniva smontato, lavorato. Pezzi che venivano torniti al centesimo di millimetro, rimontati e calandrati. Ricalcati, impacchettati. Ne usciva un corpo unico. Una casa e chi l’abita, sono un corpo unico. Le OGR e i suoi lavoratori, erano un corpo unico. Ogni parte di questo corpo aveva nomi, e a volte soprannomi. Mi ricordo del Maestro, un lavoratore che oltre a questo, era anche un artista. Come del resto ce n’ erano tanti, dentro le OGR, di artisti. Perché fare una casa, bisogna essere artisti. Il Maestro disegnava sulla masonite, un compensato marrone. Faceva disegni straordinari. Faceva sagome in controluce. Lui vedeva cose che noi vedevamo nelle sue figure. Chissà cosa pensava quando disegnava. Poi c’era lo Schiavo. Lo chiamavano così perché faceva i lavori più immondi e sporchi. Il treno ha anche i bagni, e lo Schiavo lo mandavano a pulire la parte sotto del vagone. In pratica puliva la merda che usciva dallo scarico del water. Lo Schiavo accettava di fare questo lavoro veramente sporco. Lo Schiavo accettava tutto. Tranne la morte della moglie. Perché sai cosa successe? Un giorno lo Schiavo arrivò all’officina con lo sguardo abbassato e triste. “E’ morta mia moglie” disse. I lavoratori che gli erano vicino cercarono di consolarlo, di dirgli parole di conforto. Poi scoprirono che la moglie dello Schiavo non era morta. Se ne era andata e lo aveva abbandonato. Gli dissero “Ma non ci hai detto la verità”, lo Schiavo rispose “Per me è come se fosse morta!”. Era una casa l’OGR. Dentro c’ erano persone anche che pensavano alla collettività. Un lavoratore aveva la moglie che lavorava alla fabbrica di preservativi di Casalecchio, l’ Hatù, e allora portava in officina pacchi di preservativi e li vendeva a prezzo scontato. E l’Americano? L’Americano veniva al lavoro vestito di doppiopetto bianco. Allora lo mandavano a cambiare i raggi. Un lavoro che gli faceva entrare il grasso dei mozzi fin dentro l’ orlo dei pantaloni. Poi c’ era il Muto… Non stava mai zitto… E così erano le OGR di quegli anni là. Quando arrivavano i treni da riparare, smontavamo ogni cosa. Ogni cosa vuole dire spesso non sapere cosa c’è tra la cose da smontare. Non sai cosa puoi trovare. C’è una cosa che non sapevamo cos’era. L’amianto. Noi non sapevamo cos’era veramente l’ amianto. Noi non lo sapevamo. E tra il ferro e le pareti di legno della cassa, c’era l’amianto. E c’era anche nelle tubazioni e nelle condotte a vapore. C’era nell’isolamento dei motori. C’era nelle tappezzerie. Avevano cominciato nella metà degli anni ’50 a usare il minerale. L’azienda decise di sostituire il sughero e altri materiali di coibentazione, con l’amianto. E così, tutti i treni che entravano alle OGR, dopo gli anni ’50, oltre al ferro, erano in amianto. Proprio così. Tutti i rotabili, i treni di nuova costruzione dovevano essere coibentati in amianto. Qui alle OGR, praticamente, ci lavoravano tutti. Con l’amianto. E così, quando entrava un treno da riparare, si procedeva con lo smontaggio totale di ogni parte, e il contatto con l’amianto era quotidiano. Falegnami, elettricisti, lamierai, tappezzieri, meccanici. Qui, alle OGR, in oltre quarantanni di lavorazione di amianto, sono passati migliaia di lavoratori. Migliaia. E lo sai, vero?, l’amianto sta in incubazione nel corpo molti anni, prima di manifestarsi in forma di cancro. Ti corrode lentamente. Come il ferro. Diventi come il ferro. Come un treno che va distrutto. Polmoni. Esofago. Intestino. Può corroderti parti vitali oppure colpirti lasciandoti menomato. Per poi ucciderti definitivamente. Ti ricordi Steve Mc Queen? Morì a cinquantasei anni per mesotelioma polmonare. Aveva cominciato come operaio in un cantiere navale a sedici anni, appena emigrato negli Stati Uniti. Toglieva l’amianto dalle navi dismesse. E dopo quarantanni, l’amianto che aveva respirato gli presentò il conto. Come Steve Mc Queen, anche qui alle OGR, molti lavoratori sono già morti. Molti stanno morendo. E tanti altri ancora moriranno. Non mi chiedere allora cosa vuole dire amare una fabbrica. Perché io non so cosa significa. Però in questa fabbrica abbiamo vissuto. E’ vero, abbiamo visto molti compagni morire. Ma quello che posso dirti è che non li ha uccisi questa fabbrica. Li ha ammazzati l’avidità della classe dirigente di questa fabbrica. Perché tutti sapevano che l’amianto ti fa venire il cancro. E allora mi chiederai perché lo hanno fatto. Lo hanno fatto perché l’amianto non costa. E un dirigente deve dimostrare che durante la sua direzione, i costi si abbattono. Non importa se si abbattono anche le persone. Non importa se si uccide. L’ importante è il profitto. Perché il dirigente di turno deve dimostrare di essere il migliore. Il risultato sarà uno stipendio dorato. Per il dirigente, s’ intende. La classe dirigente vive in uffici dorati. Il prezzo sono le nostre vite.
Dentro una storia, ci sono altre storie. Come quelle che ti ho raccontato. Ma la storia di un sindacalista come quella che ti racconterò, la devi ascoltare, molto bene. Non è una storia come le altre. Forse anche perché nessuna si assomiglia. Ma questa storia, di questo sindacalista, la devi proprio ascoltare. Perché attraverso anche questa storia, capirai le OGR. Capirai di come siamo arrivati fino a questo punto. Il punto di chiusura delle OGR. La fine. Inizio dalla fine, di questa storia, che ti racconto, che ti sto raccontando, di uomini. Ma di questo uomo, non sai cose. Dell’ inizio, di quest’ uomo. Di questo nome, che presto ti dirò. Perché devi capire, che tutto finisce, perché tutto ha un inizio. Tutto ha un nome. Un numero. Che porta alla morte altri numeri. Poi siamo questo. Un inizio. Una fine. Un numero. Ma prima di tutto questo, eravamo uomini. Eravamo operai. Eravamo una storia. Poi il destino ci dice che si deve andare. In una marcia, in un corteo. Ma non sarà una marcia, o un corteo, come gli altri. Perché, noi, delle OGR, non siamo come gli altri. Noi non sapevamo tutto questo. E quest’ uomo, che ti dirò, non è un uomo come gli altri. No. Per questo, il destino ci disse il nome, di quest’uomo. Il destino ci disse il nostro, destino. Attraverso il nome, di quest’uomo. Un lavoratore. Delle OGR. Poi, un sindacalista. Poi, un’altra cosa. Un sistema binario. Una divergenza. Una convergenza, verso altre idee. Che portano a un’altra storia. Delle OGR. Il suo nome è: Mauro Moretti. Mauro Moretti nasce nel 1953. Non conoscerà mai il padre, perché il padre, l’ha concepito per la sua dinastia, sapendo di essere gravemente malato di tumore. E così, Mauro Moretti, nasce secondogenito, suo fratello si chiama Marco. Da subito, fin da piccolo dimostra una grande vitalità e una grande intelligenza. Negli anni 70, Mauro Moretti, il futuro sindacalista, frequenta l’Università di Bologna. Nel 1977 si laurea in Ingegneria con voti altissimi. Te l’ho detto. Ti sto parlando di una persona molto intelligente. E allora mi devi ascoltare per bene. Proprio alla fine degli anni ’70, le Ferrovie dello Stato fanno l’assunzione diretta di Mauro Moretti. Viene assegnato alla Officine FS di via Carracci, a Bologna, le ONAE, Officina Nazionale Apparecchiature Elettriche. Una grande officina di 200 dipendenti. Viene assunto come Quadro, Capo Sezione Officina Trazione Elettrica di Bologna, e vi resta per due anni. Alle ONAE, Moretti ha il suo primo colpo di fortuna. Il dirigente delle ONAE va in pensione e lui viene designato a dirigere le Officine. Devi però sapere cos’erano le ONAE. Queste grandi officine elettriche, avevano personale altamente qualificato. La caratteristica che le faceva emergere all’interno del mondo delle FS di Bologna era il fatto che queste officine erano autogestite. Nel senso che la cultura operaia all’interno delle ONAE, erano una rappresentazione diretta del socialismo reale. E dentro questa realtà, Moretti era considerato un vero leader. La sua intelligenza, la sua capacità di trascinare il gruppo, la sua professionalità, il suo carisma, tutte doti di un leader. Perspicace, veloce nelle decisioni. Insomma, Moretti era una figura simbolica di questa officina autogestita, un simbolo dell’ autarchia e del potere agli operai. Resta ancora un po’ di tempo a Bologna, poi nel 1984, la CGIL di Roma lo chiama al Centro Studi della FILT-CGIL, il sindacato dei trasportatori. Farà parte della Segreteria Nazionale FILT-CGIL dal 1986 al 1991. Moretti ha una buona conoscenza del sistema del trasporto pubblico, e lavora al Centro Studi per due anni, fino al 1986. All’interno della FILT CGIL, ci sono molte persone capaci e carismatiche. Ma all’interno di tutti i movimenti sindacali o politici, le battaglie per la guida del movimento, sono dure. E così, Moretti decide di ritornare temporaneamente a Bologna. E’ stato proposto alla carica di segretario della Provincia di Bologna per la FILT-CGIL. Sono grandi momenti, nei quali la città recupera fiducia con un fortissimo incremento di iscritti. Moretti, è una persona carismatica e intelligente. Conosce il lavoro. Conosce… i lavoratori. E il sindacato ricomincia una nuova strada. Ma la strada la percorre anche Moretti. Alla fine degli anni ’80, Mauro Moretti entra nella segreteria regionale dell’Emilia Romagna. La più grande federazione dei ferrotranvieri d’Italia. E dopo poco tempo, Moretti è segretario regionale della FILT-CGIL Emilia Romagna. Nel frattempo, il segretario nazionale della FILT CGIL è Lucio De Carlini, milanese. La strada di Moretti prosegue sul binario di un treno lanciato ad alta velocità, e Moretti entra nella segreteria nazionale della FILT CGIL. Un treno ormai lanciato al massimo. Nessuno ormai può prevedere dove si fermerà. No. Nessuno. Solo il destino lo sa. E così, De Carlini muore. Tra i candidati alla segreteria nazionale figura il nome di Moretti. Nel 1986 Mauro Moretti diventa segretario nazionale dei ferrotranvieri per la FILT-CGIL, e resta segretario nazionale FILT CGIL fino al 1991. In quel periodo, Moretti decide di rientrare nelle FS come dirigente. Il suo carisma e la sua intelligenza non lo hanno abbandonato. E nemmeno la sua fortuna. Le FS lo nominano dirigente di una divisione minore delle FS. Poi diventa dirigente di una divisione maggiore. Ma i treni, si sa, a volte incontrano altri binari. Svoltano. O a sinistra. O a destra. Chi resta sul proprio binario, lo sa, difenderà sempre ciò che fino a quel momento ha difeso. E’ un sistema. Un sistema binario. Chi resta sullo stesso binario… resterà sempre sé stesso. Chi svolta. Resterà solo una volta. Poi sarà… un’altra cosa. Sarà la faccia di una svolta. Moretti ha questa faccia. La faccia di una svolta. E allora, se una volta difendeva i lavoratori… La svolta… lo porta a essere l’ altra faccia. A girare la faccia. Ad avere un’altra faccia. E i lavoratori, adesso, li licenzia. Esuberi, si chiamano. Ti dico questo perchè nel 2001, Moretti, diventa Amministratore Delegato di RFI, Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. Una storia unica. Ma facciamo un passo indietro. Mauro Moretti già quando era sindacalista negli anni ‘85-‘90, voleva modernizzare la struttura viaria delle FS, voleva nuovi binari. E lì nacque l’Alta Velocità. Ma sono anche gli anni delle nuove tecnologie. Tecnologia, a volte vuole dire tagliare, licenziare lavoratori. Si chiama sistema binario. Una storia. Tante storie. Una faccia. Tante facce. Ma tutto unisce questo, si chiama destino. Che passa di città in città. Attraversa anni e nomi e dispiaceri. Perché sui binari, corrono i treni dell’abbandono. E qui tutti ci abbandonano. Tutti ci dimenticano. Per questo scrivo. Delle OGR. Di altre cose. Come le OGR. Che sono tutte in un sistema binario. E allora ti porto in una città. Non troppo lontano dalle OGR di Bologna.
Italsider. Genova, terra d’antifascismo. La terra dei portuali. Della Resistenza. Perché la nostra era una resistenza. Ma noi ci mandavano a Genova per tagliare. Sì, non per resistere. Ma per tagliarlo, l’amianto. E allora andammo all’Italsider, per imparare, per capire, come tagliarlo. E non avevamo protezioni. Ma ci mandavano là. Per capire. Ma noi non capivamo, che stavamo per morire. Poi andammo a Monfalcone. E dentro le carrozze usavamo solo mascherine elettroventilate. Ma la polvere, quella che ti entra nei polmoni, non faceva confini. Ed entrava. Nel nostro corpo. Noi, non avevamo confini, per i nostri corpi. Genova. Monfalcone. Non ci sono confini quando si deve imparare a morire. Ogni carrozza aveva mezza tonnellata di amianto. Noi dovevamo asportarlo. Non esistevano binari abilitati alla scoibentazione. Nessuno controllava che la polvere di amianto non entrasse nei nostri confini. Fummo tra i primi a chiedere allora la bonifica. Era il 1979. Chiedemmo informazioni sul pericolo alla Medicina del Lavoro, ma le FS ce lo impedirono. E cosa resta da fare a un lavoratore che non può varcare i suoi confini? Resta solo una cosa. Lo sciopero. Allora scioperammo, in tanti. Ognuno con i propri confini. E alla fine della lotta, riuscimmo ad ottenere la Medicina del Lavoro, dentro la fabbrica. Cominciarono alla fine degli anni ’70 a fare prelievi sulle nostre tute, invase dalla fibra dell’amianto. Volevamo sapere. Volevamo dei dati, delle cifre, dei numeri, delle certezze. Gli scioperi erano continuati per mesi. Ma alla fine della lotta, le OGR ci diedero l’ autorizzazione per lavorare solo su un binario, attrezzato per la lavorazione dell’ amianto. Superammo i nostri confini, e incontrammo un uomo straordinario, il professore Cesare Maltoni. Diede la sua disponibilità per visitarci. Una volta all’ anno. Per entrare anche noi, nei nostri confini. Non ci fidavamo del Servizio Sanitario delle FS. Non ci fidavamo. Il Servizio Sanitario delle FS era entrato nei nostri confini con l’arma della menzogna. Del tradimento. Un pezzo dello Stato, contro piccoli pezzi di Stato. Siete tutti sani. Ci diceva il Servizio Sanitario delle FS. Continuate così. Ma il 14 settembre 1984, Roberto Scala morì. Mesotelioma. Cancro al polmone. Continua così. Gli avevano detto. E lui aveva continuato. A credere. A lavorare. L’ amianto. Un pezzo dello Stato gli era entrato nei suoi confini. E Roberto Scala era morto. Devi fumare di meno. Gli dicevano. Devi bere meno vino. Ma Roberto Scala, non fumava. E non beveva vino. L’unica cosa che beveva erano le parole, del Servizio Sanitario delle FS. Noi tutti ci dissetavamo con quelle parole. Ma il professor Cesare Maltoni scoprì le placche pleuriche in molti lavoratori. Continuate così, invece, ci dicevano. Facemmo altri scioperi. Per altri confini. E i lavoratori con le placche pleuriche vennero spostati in reparti con lavorazioni più leggere. Ma anche la fibra era leggera. Come le parole che entravano nei nostri confini. Come il nostro credere, e continuare. Così. Alle OGR allora si ricominciò a scioperare. Per ottenere maggiore sicurezza. Per non morire. Perché tu lo devi sapere. Scoibentavamo l’ amianto con le idropulitrici, per staccare l’amianto dalle pareti delle carrozze. Usavamo quelle macchine a 70 atmosfere. Un errore fatale, perché la polvere si spargeva ovunque. Ma tutto, fino a quel momento, sembrava perfetto. Entrava un treno. Veniva fatta la disinfestazione. Poi il cambio pavimenti… Le scandiglie revisionate. Il mobilio. I pannelli di rivestimento. Tutto nuovo. E poi, la scoibentazione. Tutto questo sembrava perfetto. Da sempre era stato così. Tutto senza protezione. Ma il lavoro di scoibentazione era talmente tanto, che venne dato anche in appalto a un azienda di Avellino. L’Isochimica, di Graziano. Ma quando i treni tornavano, l’amianto era spesso ancora presente. E allora si ricominciava. Il lavoro in esubero venne dato in appalto alla Manutencoop di Bologna. Esubero. Sì, l’amianto era il materiale in esubero. Doveva essere eliminato. Nelle fabbriche le cose stanno così. Tutto quello che è in esubero, va eliminato. Io sono in esubero. A volte è il lavoratore, a essere in esubero. E allora il lavoratore va eliminato. Scartato. Lo scarto non può appartenere a una fabbrica. Lo scarto non può essere considerato. Allora, io non posso essere considerato. Perché, sono io, l’esubero. Sono io, lo scarto. E alle OGR, gli esuberi cominciano a farsi presente. Ma di questo, ti dirò dopo. Per ora scartami. Lascia passare il tempo. Non considerarmi. Ma ascoltami. Ascolta la mia voce, ma non il mio cuore. Uno scarto, non ha cuore. Ascolta la mia voce, che ti racconta ancora di una storia di amianto. Nel cuore. Della fabbrica. La fabbrica il cuore ce l’ha. Dicono. Io non l’ho mai visto. Né sentito. Non ho mai sentito il suo battito. Ma dicono ci sia. Allora l’ amianto era nel cuore della fabbrica. C’ erano sacchi pieni di amianto, nel cortile, nel mezzo della fabbrica. Nel cuore. Poi nell’ora di pausa, giocavamo a tiraci palle di amianto. Erano i primi anni ’70.
Dopo anni di dubbi, false certezze, bugie, tradimenti, menzogne, nuove certezze, paure, arrivammo a ottenere un processo di scoibentazione controllata. Un solo binario era predisposto per la rimozione dell’amianto. Il binario A. Ci poteva lavorare solo un turno di persone alla volta. Ogni lavoratore doveva avere la visita sanitaria in regola. Tempo di lavoro, sei ore. Entravamo negli spogliatoi predisposti, indossavamo maglieria intima usa e getta. Una tuta. Stivali. Sottoguanti di cotone. Guanti di gomma. Un casco. Collegato al casco, un motorino che pompava ossigeno. Nessun contatto con l’esterno. Ogni motorino veniva sostituito ogni settimana. La fibra poteva insinuarsi negli ingranaggi e passare attraverso i tubi di respirazione. Se per un incidente, o se la batteria del motorino di respirazione si scaricava o si guastava, bisognava suonare l’allarme al citofono. L’entrata era a doppia porta. L’ impianto aveva un ricambio di aria con scambio di aria in depressione. E cioè entrava più aria rispetto a quella che usciva. I lavori prevedevano tre turni. L’ uscita dal binario A era per tre persone alla volta. Veniva aspirata la polvere dalla tuta e dal casco e gli stivali. Poi si doveva entrare in un tunnel dove veniva attivata una doccia di acqua calda, su tutto il vestito e sul casco. Si entrava attraverso una porta che portava a un prespogliatoio. Solo in quel momento potevi spogliarti completamente. In un cesto di acqua buttavi la tuta, la maglia. In un’altra vasca gli stivali. Poi, solo dopo, finalmente una doccia. Per lavarsi. Per togliersi i dubbi di dosso. Per lavarsi dai tradimenti. Buttare nello scarico le menzogne. Nel cesso, le paure. E solo dopo, uscivi pulito. Perché, ce lo avevano detto… Siete sani. Siete sani. Ma qualcuno aveva una macchia scura. Nel polmone. Che non si lavava mai. No. Non si lavava mai. Ci rivestivamo così, come persone normali. Ma abbiamo sempre saputo, che noi, non eravamo, persone normali. E i motori della respirazione dell’ossigeno, venivano smontati. E ripuliti. I caschi lavati. E si preparava tutto per il giorno successivo. Il responsabile del binario A entrava a controllare che l’ amianto fosse stato rimosso completamente. Poi chiudevano i sacchi di amianto. Per essere portati via. Ma sai una cosa? Tutti i lavoratori che lavoravano nel binario A, venivano registrati. Su un libro. Sì. Un elenco. Di nomi. Un elenco di anni scomparsi. E noi entravamo nel libro del registro. Io non l’ ho mai letto, un libro così. Ma forse un giorno. Dovrò farlo. Un giorno.
C’era, e c’è ancora, e forse per poco. Una grande fabbrica di vagoni e treni. Nella mia città. Bologna. E’ uno Stato. Dentro un altro Stato. E’ una fabbrica gigantesca. Il ferro delle ruote dei vagoni è grande come un uomo. Dentro questa fabbrica., sono morti uomini. Come in molte fabbriche. Si muore. Per incidente. Per insicurezza. A volte non si muore. Come quel lavoratore. Che era risalito, dall’interrato. Sotto il vagone. Stava risalendo l’ interrato. Si sedette un attimo. Ma il vagone scattò dalla sicurezza. Gli tranciò le gambe. Lo presero per il tronco. Lo portarono all’ospedale. Il tronco, su un’ autoambulanza. Le sue gambe, su un’auto. Poi le gambe le ha perdute. Sempre. Ognuno di loro rischia la vita. Ma i lavoratori di quella fabbrica. Difendono ancora oggi. Quella loro fabbrica. Io non so dirti questa misura, di difesa. Ma io so che i lavoratori, difendono le fabbriche. Sempre. I padroni. No. I padroni le fabbriche, le vendono. Allora tra i lavoratori, qualcuno ha imparato a vendersi. Qualcuno ha cominciato a credere di essere come il padrone. E ha cominciato a vendersi, anche lui. Ma non eravamo così. Il tempo ci ha cambiati. Il tempo ha una sua misura. Si chiama Storia. E tu stai ascoltando questa Storia. Perchè, anche tu. Sarai nella Storia. Ti nutrirai, dentro la fabbrica. Lo farai. Per i tuoi figli. Per te stesso. Noi eravamo come te, che stai ascoltando. Un giorno. Come un altro. Ogni giorno. Era sempre stato, come un altro. Ma quel giorno. Quel giorno, non fu, come un altro. Era un sabato mattina. Giorgio Gallon, operaio saldatore delle OGR, sapeva tutto di Bologna. Delle sue strade. Dei vicoli. E c’erano giorni, che Giorgio Gallon frequentava come socio, il Dopo Lavoro Ferroviario. Perché noi, delle OGR, eravamo una memoria, di uomini e donne. Dentro il Dopo Lavoro Ferroviario. Perché la memoria, continua, anche dopo il lavoro. Perché noi, delle OGR, eravamo una memoria unica. Noi, delle OGR, eravamo questo.
E sapevamo tutto di Bologna. Noi delle OGR eravamo… uno Stato. Dentro una città Stato. Ma quel giorno. Lo Stato. Di un altro Stato. Fu più forte di noi. Fu più forte di… Giorgio Gallon. Lui portava i turisti nel ventre della città. Nel ventre della città Stato. Ma quel giorno, fu di sabato. La mattina, di un sabato. La mattina, alle 10,25, di un sabato. Di quel giorno, di sabato. Giorgio Gallon era con la moglie e la figlia Manuela, di 11 anni, alla Stazione centrale di Bologna. La città Stato. E con lui altre persone, per una gita organizzata. Verso il nord Italia. Erano tutti nei corridoi sotterranei. Della Stazione Centrale, della città Stato. Erano le 10,25. E Bologna, la città Stato, quel giorno. Di sabato mattina. Quel giorno di sabato mattina, alle 10,25. Un altro Stato, uccise la mia città Stato. La bomba esplose, nella Sala di attesa di Seconda Classe. Ti ricordi? La città Stato. Era morta. E con lei 85 persone. E con lei, un popolo. Distratto, dall’estate. E con la città Stato, morì la moglie di Giorgio Gallon. E morì anche Manuela. Di 11 anni. Giorgio Gallon, restò ferito. Ma sopravvisse. Anzi. No. Giorgio Gallon, non sopravvisse. No. Giorgio Gallon, camminava, ancora, dentro le OGR. Dentro quel piccolo Stato, dentro la città Stato. Ma Giorgio Gallon, non era più un uomo vivo. Doveva saldare ancora. Metallo. Acciaio. Unire il ferro all’acciaio. Ma un uomo che muore di sabato mattina, non può saldare il ferro. Un uomo che scava le macerie per trovare sua figlia, e sua moglie, tra la pietra e il ferro, non può unire. Il ferro. Un uomo che scava, per trovare quel che resta, tra il pianto e il sangue, non puoi dirgli: Salda queste lamiere. Lui era morto, alla Stazione Centrale, un giorno, come un altro, alla mattina, alle 10,25. La sua pelle era tra quel ferro dei treni sventrati. C’è il ferro della lamiera, nella città Stato, che copre i cadaveri, mutilati. Decapitati. Non chiedere a quest’uomo di unire gli arti. Non chiedere a quest’uomo di unire il polmone buttato a trecento metri. Non chiedere a quest’uomo di unire lo Stato. Lo Stato è morto. Non esiste più lo Stato. Non esistono più le OGR. Per Giorgio Gallon. Ma lui tentava di saldare il ferro e l’ acciaio. Ma tutto fuggiva via. E allora un giorno. Un giorno, come un altro. Si licenziò. Non poteva vedere il fuoco del cannello. Lo scoppio della fiamma che accende la saldatrice. Non poteva vedere il colore della fiamma. Colore del cuore di una moglie uccisa. Il colore dei capelli di una figlia di undici anni. Non c’ è più colore qui. Alle OGR. Me ne devo andare. Disse. E se ne andò. Un giorno. Come un altro. I giorni, sono come gli altri. Tutti uguali. Tutti gli altri. Fuori, da questo Stato, fuori dallo Stato delle OGR, tutti sono uguali. Sono giorni. Sono albe e tramonti. Uguali, chiusi dalle mura di palazzi. Gli altri, sono chiusi. Perimetrali individui ermetici e soli. Noi no. Noi non eravamo soli. Noi eravamo una società. Noi eravamo uno Stato. Dove tutti erano un piccolo Stato. Diversi, ma uguali, nelle regole. Noi non avevamo governi. Noi eravamo il governo. Di noi stessi.
Governavamo noi stessi. Il lavoro era il nostro diritto. Sul lavoro, eravamo uguali. Perché i diritti, in uno Stato, sono per tutti. Ma così, diventavamo come fuori. Come i muri. Come gli individui perimetrali. Come gli individui ermetici. E soli. Perché dentro le OGR, qualcuno ci moriva. Perché dentro uno Stato, si può anche morire. Come i muri. Che cadono. Come gli individui, perimetrali. Che crollano, ermetici, come muri, perimetrali. Come muri perimetrali, soli. Ma dentro uno Stato, a volte i muri, quando crollano, possono travolgere. E uccidere. Era un estate del 1993. Eravamo a fine lavoro. Anche se un lavoro, non è mai a fine lavoro. Perché niente è perfetto. Ma ti dirò allora, che eravamo a fine orario. Ma un lavoro di lamiere, uscito dal reparto di verniciatura, era riuscito male. C’erano difetti. Allora un compagno di lavoro, caricò le lamiere sui bracci di un muletto elettrico. Erano da riportare in officina. C’era un grande ascensore. Un grande montacarichi. E aveva due porte opposte tra loro. Il muletto poteva entrare da un lato, e uscire dalla parte opposta. Era un grande montacarichi. E quel lavoratore allora, entrò su quel montacarichi. Con due uscite. Entrò nello spazio di una decina di metri quadri. Lo spazio era quello giusto. Il muletto, era quello giusto. Il giorno, era quello giusto. Per morire. Alfio Solmi, non poteva saperlo, perché tra i diritti di uno Stato, non è scritto, quando si muore. Alfio Solmi, entrò nel montacarichi, con le lamiere, sulle braccia del muletto. In quel momento passavano due addetti delle pulizie. Della Manutencoop. Lo spazio del montacarichi era molto grande. E Alfio Solmi sarebbe dovuto scendere per pigiare il pulsante della chiusura della porta di entrata del montacarichi. “Chiudiamo noi la porta” dissero i due addetti delle pulizie. Chiudiamo noi. Dissero. No, caro Alfio, non chiusero solo quelle porte. Chiusero una vita. Chiusero un giorno maledetto, come gli altri. Un giorno perimetrale. Un giorno come tutti gli altri. Perché, fuori dalle OGR, tutti i giorni, sono uguali. I muri sono uguali. Le porte sono uguali. E Alfio Solmi, si confuse. Le porte che si erano chiuse, erano diventate le porte opposte. Porte confuse. E noi, quando moriamo, ci confondiamo, per questo moriamo. E Alfio Solmi, spinse il pedale della retromarcia. Si confuse. Le porte, erano confuse. Ma le porte che ci fanno morire. Sono tutte uguali. Il muletto venne scagliato all’improvviso verso il lato dal quale era entrato. E precipitò. Giù. Dal montacarichi. Sì, Alfio Solmi, precipitò, a terra, schiacciato, dal suo muletto. Dalle sue lamiere. Da riparare. Perché le lamiere non sono tutte uguali. Come i giorni. Perché i giorni per morire. Sono tutti
uguali. Perché le OGR sono uno Stato. Uno stato di cose. Cose che non possiamo capire. Perché, sì, siamo come gli altri. Siamo come i muri. Perimetrali. Sfioriamo soltanto la vita. Per poi morire, schiacciati, da un muletto. Siamo muri, schiacciati, dal calpestio di giorni, tutti uguali. Le OGR sono uno Stato, come un altro Stato. E io non posso capire. Forse nessuno può capire. Questi muri. Tutti uguali. Perimetrali. Muri che nascondono reparti. Muri che nascondono cose. Case. Vite. Tutte uguali. Finchè non si muore. Per uno sbaglio. Lamiere sbagliate. Porte sbagliate. Pedali sbagliati. Giorni, sbagliati.
Ed essendo noi stessi lo Stato di noi stessi, come uno Stato, moriamo. E ci dividiamo. Dalla vita e dalla morte. Ci nutriamo, di giorni divisibili, in pause e ritmi. Di lavoro. Di produzione. Di alimentazione. Sì, ci nutriamo. Dentro spazi fatti di muri. Perché sempre, i muri, dentro le OGR, creavano altri Stati. E uno Stato, a volte, può anche nutrirti. Ed era al piano terra, la dispensa delle OGR. Una grande dispensa. Piena di cibo. Per nutrirci. Per farci vivere. Dentro le OGR. E la dispensa era davvero grande, con le finestre e le porte, per essere come una casa. Una grande, dispensa. A fianco del reparto dei tappezzieri. Un grande reparto. Come la dispensa. Dove ci nutrivamo. Di amianto. Perché i tappezzieri, fino agli anni ’90, lavoravano le pareti da coibentare. Con l’amianto. I tappezzieri, fino agli anni ’90, avevano il reparto a otto metri dalle finestre della dispensa. I tappezzieri si nutrivano, di amianto. Per rendere gli schienali, le poltrone, dei vagoni, isolati dalle tubature dell’impianto di riscaldamento e elettrico, dentro i vagoni. Coprivano gli scheletri degli schienali e delle poltrone, con l’ amianto. Erano lamiere. Di amianto.
Lamiere che non ti schiacciavano. Ma erano lamiere che ti entravano. Nei polmoni. Nel corpo. Per isolare, la vita. Dei lavoratori. E c’era polvere. Dentro il reparto dei tappezzieri. Polvere di amianto. Nuvole di amianto. Nel cortile delle OGR. A otto metri, dalla dispensa. E noi ci nutrivamo. Di questo. Tutti i lavoratori delle OGR, si nutrivano, di tutto quello che c’era nella dispensa. E c’era una donna, una cuoca stupenda, Iolanda Tavolari, che ci nutriva, da quando entrò nelle OGR, nel 1960. Iolanda Tavolari, viveva tra la dispensa e la cucina, e lo spaccio. Sì, perché la mattina, dalle 9,30 alle 10, i lavoratori delle OGR, avevano una pausa per la colazione. E andavamo allo spaccio. Per un caffè. Una pasta. Un panino. Noi, così vicini, al reparto dei tappezzieri. Così vicini, a quella polvere. E così vicini, a Iolanda Tavolari. Ogni giorno, per anni, migliaia di lavoratori, con la polvere di amianto sulle casacche, raccolta tra le mura delle OGR, sulle tute, andavamo a prenderci un caffè, allo spaccio. E sulle nostre spalle, cumuli di polvere bianca, poi non so perché, ma allo spaccio, tra quelle mura, ci scrollavamo quella maledetta polvere. E Iolanda Tavolari, ci nutriva, ci dissetava. E senza saperlo, si ammalava. Perché la polvere non fa la differenza, tra un operaio e una donna. No. Perché non c’ è differenza, tra un operaio e una donna. Dentro le OGR. Siamo tutti uguali, alle OGR, nelle regole. E per morire, servono regole. Ma noi, e Iolanda Tavolari, non sapevamo di questo. Non sapevamo di questa regola. Uguaglianza. Nella morte. E allora, dalla dispensa, vicino al reparto di tappezzeria, vicino alle lamiere di amianto, vicino alle nuvole, di amianto, che scivolavano in silenzio, verso il cibo, della dispensa, di quel cibo, noi, delle OGR, ci nutrivamo. Respirare e ingoiare polvere, di amianto. Iolanda Tavolari se ne andò poi, dalle OGR. Erano gli inizi degli anni ’80. Era rimasta alle OGR oltre ventanni. Ventanni. Di polvere. Ventanni. Di tazze di caffè e cibo, agli uomini della polvere. Poi, tu lo sai, la malattia dimostrò di non essersi dimenticata, di Iolanda Tavolari. I primi dolori. Il respiro, che si blocca. La paura. Che arriva dalla certezza. Di morire. In fretta. Perché Iolanda Tavolari, li aveva visti, quelli che morivano. Sapeva, come comincia, la malattia. Sapeva i nomi dei morti. Delle OGR. E adesso, era lei, che vedeva in quei volti. In quei nomi. E non chiedermi, cosa scrisse nella sua anima. Chi sa di morire, non sa più di avere un anima. Chi sa di morire, sa di essere stato abbandonato. Da tutto. Noi, che eravamo tutti uguali, dentro le OGR, sapevamo, che ormai, eravamo tutti, senza anima. E ti racconto allora di come si muore. Con il terrore del dolore. La paura di morire, affogati, nel sonno. E le gambe. Iolanda Tavolari, non camminava più. L’amianto l’aveva nutrita. E adesso, restava solo vomitare saliva bianca. Da seduti, su una carrozzella. Paralizzata. Com’è perfetta, la polvere dell’ amianto. Lucida. Come la mente. Di chi sa che sta morendo. Perché la mente, resta lucida. Consapevole. E come Iolanda Tavolari, alle OGR, morivano anche gli operai. Una questione di uguaglianza. Lo Stato, dentro le OGR, aveva il senso delle regole. E alle OGR, si moriva così. Migliaia di operai, morti così. Per amianto. Per polvere. Che si ritorna polvere. Ma non così. Non potevamo morire così. Iolanda Tavolari ci aveva nutriti. Per anni. E quando un essere umano si nutre, torna bambino. Perché nutrirsi significa questo. Tornare bambini. Io so questo. Io, che bambino non lo sono mai stato. Iolanda Tavolari si era nutrita, di polvere. Bianca. Amianto. E una bambina non può morire di amianto. Ma noi delle OGR muoriamo così. Moriamo che siamo bambini. E poi le lavandaie. Noi non sapremo mai quante altre donne, come Iolanda Tavolari, moriranno, per avere lavato gli indumenti nostri. Carichi di polvere. Indumenti che venivano identificati con delle medaglie. Ogni nome, una medaglia. Ecco, sì. Abbiamo avuto medaglie, noi alle OGR. Una medaglia per morire meglio. Le lavandaie non avranno medaglie. Non l’avrà Iolanda Tavolari. Medaglia d’ Oro, al Valor Civile. Ma noi, l’abbiamo avuta, una medaglia. Almeno una volta alla settimana. Una Medaglia d’Oro al Valor di Morte. E gli operai, alle OGR, muoiono ancora. Morivano, una volta. Perché si muore sempre, solo una volta. Ma moriranno ancora. Domani. E anche ieri. Sono morti. E di un nome ti dirò. Un nome. Fra tanti. Un nome per tanti, come lui. Loriano Genovesi. Operaio delle OGR dal 1970. Operaio del reparto carrelli, poi lamieraio. E si sa, i lamierai, lavoravano moltissimo, l’amianto. Oltre al ferro. Oltre alle lamiere. Oltre ai fogli. Dove si scrive la condanna, a morte. Fogli di amianto. La storia di Loriano è breve. Come la sua agonia. C’è sempre, un sistema di uguaglianze. Un sistema binario, nella nostra vita. Ma noi siamo mezzi ciechi, a volte. E ne vediamo solo la metà. L’altra metà, di Loriano, arrivò con un respiro. Un respiro che faticava ad arrivare. Ma arrivò. E quando arriva questo tipo di respiro, impari nomi nuovi. Padiglione 15 Pneumologia, drenaggio, membrane sierose, versamento toracico, chemio, radioterapia. Morfina. Sì, morfina, per addormentare una vita. Per avere avuto troppe Medaglie. Una vita di medaglie. Per terminare con attacchi, al corpo. Di questo Stato, di cose, a questo Stato, delle OGR. Attacchi al corpo, con convulsioni e perdita di coscienza. Anche se cosciente, Loriano, lo è sempre stato. Ma a volte, si cade. E le medaglie ti crollano addosso. E niente è servito. Lo chiamano attacco T.I.A. Attacco Ischemico Transitorio. Ma dopo, tutto, è diverso. Dopotutto, cosa resta di un uomo, che non riesce più a lavarsi il proprio corpo? Che non riesce più a nutrire, il proprio corpo? Che ti chiede, te lo devo dire, ti chiede la somministrazione, di dosi di Valium.
Perché anche un uomo, che ha avuto delle medaglie, può avere paura. E poi, sempre di più, la morfina. E allora alle OGR, adesso lo sai. Io ho paura. E Loriano non c’ è più. E non ci sono più altre mille persone. Mille e altre mille ancora.
O forse non saranno mille. E forse… sarà stato lontano da qui. Ma di sicuro so il nome. Stefania. Madre di tre figli. Lontano da qui. E non erano le OGR. E so di altri nomi. Luca, quattro anni. E… Lorenzo… due anni… Lontano da qui. Che saprai, non erano le OGR. E Leonardo, otto anni. Stefania aveva 39 anni… Aveva… Lo sai di Stefania ? Lo sai come è morta? Lo sai quando è morta ? Lo sai perché è morta ? Allora ti racconterò di una storia, che non sono le OGR. Ma è una storia, che guarderà le OGR. Ma Stefania, era una donna bellissima. Come i suoi figli. Come la sua città… Viareggio. E bella come lo può essere l’ estate. Ma non quell’estate. Del 2009. Non come quella sera. 29 giugno. Quella notte, come tutte le notti, i rumori erano gli stessi. Il ferro dei treni che passano, che attraversano la città, di Viareggio. I rumori, del ferro, che si contorce, come quando i treni… passano. I treni, però, non fanno odore.
Invece quella notte, sì. Fa caldo. Un caldo molto forte. Il ferro dei binari è più caldo del solito. Questa notte… fa più caldo del solito… Questa notte c’è odore… più del solito… Odore, di gas… E’ gas, GPL. Questa sera si deve morire. Bruciati. Vivi. Ma un attimo prima, Marco, marito di Stefania, comincia a gridare: Scappa !!!!!!!!!!! Poi… in quella notte di estate, all’improvviso il gas si fa nuvola bianca, e a tratti blu. E’ il GPL che esce, dalla bocca di una cisterna. Caduta da un vagone, deragliato. No, è la morte, che esce, dalla bocca della notte, di questa estate del 2009. Marco ritorna in casa. Cerca di salvare la famiglia. Leonardo è in camera sua. Stefania sta correndo. Marco prende Luca, quattro anni, e lo porta in macchina. Poi Marco ritorna in casa, per prendere Lorenzo. Il GPL esplode. La bella città di Viareggio, esplode. La bella estate del 2009 è una miriade di esplosioni. Le fiamme arrivano in una frazione di secondo a decine di metri di altezza. Marco si sta precipitando in casa. Per salvare gli altri. Per salvare la famiglia. Da questa estate del 2009. Da questo treno. Da questo odore. Che sa di morte. Le esplosioni si fanno a catena. I palazzi precipitano a terra. Marco viene sbalzato a terra. Poi resta sepolto, sotto la sua casa. Luca, è dentro la macchina. Luca ha solo quattro anni. E fuori, fuori dalla sua casa, i bambini non ci possono stare. La macchina prende fuoco. Luca muore, a quattro anni, dentro una macchina, d’estate. In una bellissima città. Nella bocca di un paese dove i padri seppelliscono i figli. Lorenzo morirà quella notte, a soli due anni, all’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. Bruciato vivo. Stefania morirà in ospedale, per le bruciature alle vie respiratorie. L’asfalto si scioglieva. Leonardo, sopravviverà. Ma come può sopravvivere un bambino di otto anni, senza i suoi fratelli bruciati? Senza sua madre, Stefania. Bella. Come tutte le madri. Dimmelo tu, che sai di queste cose. E dimmi di Marco, che sopravvive dopo un interruzione vitale di quarantacinque giorni per le ustioni nel 95% del corpo. Dimmi di Marco, che nei primi sei mesi di ospedale per ustionati, subisce trenta interventi di ricostruzione del tessuto. Dimmi di Marco, che nei quattro anni a venire, subirà sessanta operazioni di ricostruzione del corpo. E ogni volta, la pelle deve essere raschiata via. Scuoiato per sessanta volte. Perché questa è la strada della ricostruzione. Un padre che seppellisce la moglie e i suoi due figli, deve essere ricostruito. Non sopravviverà. Dicono. Ha solo il 2 % di possibilità di sopravvivere. Il 2%. Lo scuoiano per sessanta volte… E Marco sopravviverà. E allora io resto qui. Ad ascoltare questa ultima estate, che mi scorre dentro, con il gas GPL nelle vene di una città. Per farla morire. Che scorre nei reni e come l’ortica nella vescica. Resto qui. Sdraiato. Sui binari divelti e fusi dal fuoco così intenso che mi brucia ancora nel cranio. Che mi brucia ancora, in queste parole di carne nera. Cenere. Mille grani di cenere. Perché ti ho detto. Di mille, e altri mille ancora.
Mille, ancora, allora, come Emanuela. Che era a casa di Sara. Mille, come Emanuela, o forse, come lei, solo altre 31. Ricordati, ricordati questo numero. Come Emanuela, altre 31. E un altro numero, ti dirò. 29. E ti dirò un altro nome. Il nome di una città. Che non è qui. Che non è Bologna. Che non è le OGR. Allora ascoltami bene. Ascolta questo nome. Di questa città. Lontano da qui. Il suo nome, è ancora… Viareggio. Il suo numero, è ancora … 29, il 29 giugno… 2009. Lontano da qui. Che era notte. D’estate. Lontana da qui. Dalle OGR. Ma forse era qui. Alle OGR. Forse poteva essere qui. Ma Emanuela era casa di Sara. Un’amica. Che quando le madri e i padri se ne vanno in vacanza, le ragazze vanno dalle amiche. E ci vanno per continuare vivere. Senza padri. E senza madri. Per un giorno. O per molto di più. O forse… per sempre. Era solo a casa di un amica. Cosa poteva fare. Se non continuare a vivere. Ma come mille altre ancora. Come ti ho detto prima. Forse solo altre 31. Persone. Le madri, tornano. A casa. Non trovano le figlie. Allora si attaccano al telefono. Ma nessuno risponde. Nessuno. Come altre 31. Le madri allora aspettano. Il telefono squilla. Sono le 3 e 12 minuti della notte del 30 giugno 2009. Signora, le stiamo telefonando dall’Ospedale di Versilia, sua figlia è qui. Le passo Emanuela: Mamma, è successo un incidente! E’ scoppiato un incendio. Non mi sono fatta niente. Poi, la telefonata si interrompe… Non mi sono fatta niente… Una nuova telefonata: Signora, non venga qua, vada al centro Grandi Ustionati, di Cisanello di Pisa… E’ scoppiato un treno… Emanuela era a casa di un amica. Solo a casa di un amica. Non mi sono fatta niente… le madri impazziscono, i padri piangono. E cosa resta di una notte a casa di un amica? Cosa resta di 32 persone? Forse è lontano da qui. Dalle OGR. Ma forse no. Le OGR. Non sono lontane. Se le madri impazziscono. Sono le 7,30 del 30 giugno 2009. Dentro un Ospedale. Sta arrivando il dottore. Sta piangendo. Emanuela è gravissima. Ustioni al 98 % del corpo. Non sento più niente. Il dottore mi parla. Sono la madre di Emanuela. Sono la madre di altre 31 persone. Non sento più niente. Vedo persone attorno a me. Ma non sento niente. Devo vederla!!!!!!!! No signora, lei non ha capito… può succedere da un momento all’altro… Succedere? Cosa può succedere? Afferro il corpo del dottore, aggredendolo, mi fermano, mi danno da bere una sostanza, sto male, cado… Cado. E cosa resta di me, non lo so. Adesso è mattina. Mi sveglio dalla sostanza. Devo farmi una doccia. Devo lavarmi. Devo levarmi, di dosso, queste parole. Devo lavarmi dal mio essere madre. Devo lavarmi l’odore del bruciato. E’ mercoledì. Mi fanno entrare in una sala vicino al letto di Emanuela. Devo stare a 5 metri. 5 metri. Tutto si misura, nella vita. La vedo. La riconosco… dai capelli. Perché solo una madre… conosce i capelli… della propria figlia. Emanuela passa 42 giorni su quel letto. Il 10 agosto, lunedì, si sveglia. E’ consapevole. E’ grazie agli anestesisti se Emanuela viene tenuta in vita. Decidono poi di tagliarle tutti i capelli. Viene rasata completamente dei capelli. Io sono sempre lì. Le amiche. Mi hanno portato della lana e dei ferri. Faccio una piccola cuffia di lana. Per Emanuela. E’ il 7 agosto 2009. Forse è arrivato il momento, che diceva il dottore. Può succedere da un momento all’altro. Una banalissima infezione, quella che viene definita Batterio Sala Operatoria, la devasta. Le vengono somministrati per due giorni una quantità di antibiotici pari a ciò che normalmente si somministrano in 10 anni. Te l’ho detto prima. Oggi è il 7 agosto 2009. Emanuela ha un arresto respiratorio, un ictus cerebrale. Sottoposta immediatamente a TAC… 7 agosto 2009… Può succedere… da un momento all’altro… Me la fecero vedere. Solo in viso. Non alzi i lenzuoli, mi dissero… Non alzi i lenzuoli… Solo il viso… Guardai solo il viso… di Emanuela… Non alzai i lenzuoli… Emanuela… era solo un involucro. Le guardai il viso… senza più espressione… fermate questa agonia urlai… Loro mi guardarono… E mi dissero… Entro stasera… sarà tutto finito… Aveva gli occhi chiusi… ma mi guardava… e io so, che stava parlando… con la morte… Ti sei presa il colore dei miei occhi. Non chiedermi se me ne sono accorta… Io stavo prendendo il tuo. Viareggio è una città. Un piccolo Stato. Come le OGR. Come tutte le OGR. Come tutte le città. Uno Stato, dentro lo Stato. Tu lo sai, che lo Stato divora i corpi? Corpi di Stato. Per sopravvivere a sé stesso. Lo Stato Carne. Divora la carne, per alimentare sé stesso. 29 giugno 2009. Città di Stato di Viareggio, chiamala così, d’ora in poi. Chiamala con il suo vero nome. Ore 23 e 48 minuti. Stazione della Ferrovia della Città di Stato di Viareggio. C’è uno strano tremolio, sui binari di questa Stazione. Uno strano tremolio. Una vibrazione, che non c’ è mai stata prima. E le ghiaie, rotolano. Come può rotolare una ghiaia, in una pianura? Forse, la terra si sta aprendo. Per contenere qualcosa. Che non riesco a comprendere. Sono le 23… e 48 minuti… Su questi binari, stanchi, sta scorrendo un treno merci. Contiene sostanze altamente pericolose. G.P.L. Li chiamano treni bomba. Sostanze tossiche e altamente infiammabili. E la terra attende, le ghiaie rotolano, i binari tremano. Tremano. Tremano… Sono le 23… e 48 minuti. Solo dopo lunghe battaglie sindacali, in questa Stazione, è ancora presente il Capostazione. Ma le ghiaie rotolano. Verso il basso. Dentro la terra. Che attende. La terra di Stato. Della città di Stato di Viareggio. Sono le 23 e 48… Un deviatoio della Stazione apre la voragine di questa mia terra… l’ora è arrivata … per cambiare il pane nella bocca dello Stato. Una crepa, si appurerà essere presente per affaticamento, nel rotante, deraglia. Esce una ruota dalla coppia assiale. Il vagone si trascina dietro, fuori dai binari, altri cinque vagoni. E con loro, cinque cisterne… Gigantesche, di GPL … Una cisterna va a sbattere forse contro una lancia di ferro. Si apre una fenditura, e all’improvviso, il gas liquido… esce… sulle ghiaie… sui binari… e poi, potrebbe scendere verso la crepa della terra… verso il basso, di questa pianura… Invece no. Invece no… Il gas liquido esce… dalle ghiaie… oltrepassa i binari… e divora la strada, l’asfalto. Arrivano altre esplosioni di altre cisterne di GPL. Altro gas liquido che insegue altro gas liquido. Nella città di Stato di Viareggio. Adesso il fuoco è ovunque. Alto almeno quindici metri. E’ vicino alle case. Le ghiaie e i binari sono rossi come carboni. L’asfalto si scioglie. Le prime case cominciano a esplodere. E tutto diventa un grande inferno. In questa Città di Stato. Il Capostazione, te l’ ho detto, che è qui solo perché sono state vinte battaglie sindacali contro i dirigenti delle Ferrovie, riesce a bloccare l’ arrivo di altri treni. Treni Passeggeri. Ma lo Stato Carne, vuole il suo cibo. Deve nutrirsi. E allora spinge il fuoco verso le case. E la gente corre impazzita sulle strade. Ma le strade bruciano. Allora scappano nelle case. Ma le case esplodono. Chi non è sepolto, scappa nella automobili. Ma le automobili… Si incendiano… E adesso, in questa notte del 29 giugno 2009, la Città di Stato di Viareggio, ha il suo cibo per la bocca dello Stato… Prendi oggi il tuo pane quotidiano… mangia, e bevi… Questo è il pane di Stato… e bevi questo sangue… bollito da questo fuoco… 32 morti… Questo… è il Corpo di Stato…
Quella notte maledetta, era presente un ferroviere di nome Riccardo Antonini, faceva il turno dalle 19 di sera. Il giorno successivo, tra la cenere, il fumo e il calore nauseante, vede il dirigente delle FS, Moretti, il dirigente Bertolaso, e il presidente del Consiglio Berlusconi, discutere con alcuni tecnici. Antonini si avvicina, e ascolta. Moretti sta parlando… “Dobbiamo controllare tutto quello che viene dall’estero”. Moretti, uomo di Stato. Dice, dobbiamo controllare… Sì, controllare… controllare… Che cosa, devi controllare? Che cosa, viene dall’estero? Un uomo di Stato non risponde mai. Un uomo di Stato chiede. Chiede corpi. Per alimentare sé stesso. Ma Antonini è lì. Ascolta. Capisce. Si allontana. Antonini è sconvolto dalla strage. Ma adesso ancora più di prima. Cosa va controllato? Cosa viene dall’estero? Gli uomini di Stato restano a distanza da Antonini. Prendono le distanze… Sono uomini di… Stato. Non mi chiedere cos’è lo Stato. Io non so rispondere a questa domanda… Io so cos’è lo Stato Carne. Io so cos’è il corpo del quale si alimenta… E ieri notte… quel corpo… era la Città di Stato di Viareggio… Ma Antonini non ha paura dello Stato. Racconta a un giornalista le parole di Moretti. Quando lo Stato non sa più cosa divorare… sbrana. Antonini viene denunciato da Moretti e querelato. Il 19 settembre 2009, nella sede della Regione Toscana, Moretti minaccia Antonini: “Quel ferroviere di Viareggio, prima o poi, lo licenzio”. … Sì. lo licenzio… lo sbrano. Lo Stato Carne, quando non sa più cosa divorare, te l’ ho detto… sbrana… Ma Antonini reagisce, combatte. E con lui migliaia di persone si uniscono nella lotta. Ma la denuncia arriva in Tribunale. Il 7 novembre 2011 Antonini viene licenziato dalle Ferrovie dello Stato per “Essersi posto in un evidente conflitto di interesse con la società”. L’accusa è avere partecipato all’incidente probatorio gratuitamente per familiari e sindacato. Accusato di avere offeso il dirigente Moretti Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato, alla Festa del Partito Democratico il 9 settembre 2011. Successivamente i giudici del lavoro Luigi Nannipieri di Lucca e Giovanni Bronzini, Gaetano Schiavone e Simonetta Liscio di Firenze, confermano il licenziamento. Ma il 2 maggio 2014 il Giudice per le Indagini Preliminari scrive: “Non si verificarono significativi episodi di violenza, nell’occasione non vi fu alcuna ingiuria o minaccia da parte di Antonini verso Moretti. Pertanto appare infondata la denuncia querela sia sotto il profilo dell’ inesistenza degli elementi costitutivi del reato di violenza privata, sia sotto il profilo del reato di diffamazione, atteso che nessuno ha ascoltate le ingiurie pronunciate all’ indirizzo di Moretti da parte dell’indagato. Per questi motivi debba accogliersi la richiesta di archiviazione del PM e ne dispone l’ archiviazione del procedimento”.
Ma cosa c’ è dietro tutto questo che ti ho detto? C’è tutto. Tutto. Antonini era l’unica persona che poteva dimostrare una cosa fondamentale. La sicurezza. La sicurezza di vivere. La sicurezza di essere trasportati su un treno. La sicurezza di non morire dentro la Città Stato di Viareggio. Perché quella crepa in quel vagone, poteva essere trovata molto prima. Molto prima. E quel vagone non sarebbe passato sui binari. E tutto questo perché dentro le OGR esiste uno strumento che vede queste crepe. Sono strumenti che sottopongono le parti fondamentali del vagone, assili e boccole in particolare, a esami a Ultrasuoni e a esami a Magnetoscopio. Esami fondamentali… che quel vagone… non venne sottoposto… Una sicurezza, evitare accurati esami, e a contestare la tracciabilità dei controlli sono proprio i più grandi organismi ferroviari, tra i quali la CER. E questa che ti dico è un’altra sicurezza. Sai chi dirigeva il CER … l’ingegnere Moretti… Ora sai di morire in pace. In pace staranno i morti. In pace andranno ai cortei i dirigenti dei sindacati, che sapevano. Che tacevano. E il processo giudiziario, della strage di Viareggio, la Città Stato della morte, vede tra gli imputati proprio l’ingegnere Moretti. Ex sindacalista. Amministratore Delegato delle FS. Un sistema binario. La vita sua. La morte degli altri. Un sistema. Perfetto. Da un tavolo all’altro. Da un binario all’altro. Lo scambio perfetto. Niente resterà così perfetta, come la vostra morte. In questo processo, che forse verrà prescritto. Scomparirà tutto. E voi non sarete morti. Voi sarete solo un invenzione. Una strategia. Per arricchire altri. Che altri non sapevamo. Che erano in un sistema. Binario. Così è stato. Così è lo Stato. Perché questo è stato. E io come altri mille. Uno sbarco, di mille, in questa città, dentro la città. Uno sbarco, senza navi, uno sbarco a braccia nude, in questa acqua di melma, di questa città. Dove i poteri prendono colore… di alghe ritorte, storte, storie storte. Poteri contorti. Poteri forti. Che loro sì, hanno navi. Hanno grandi navi. Navi molto alte. E sale macchine motori. Sale macchine, molto potenti. Navi, potenti. Navi, però… senza timonieri. Navi… senza rotta. Navi… senza capitani… Ma solo… mozzi… che si credono giganti. E allora, altri mille, come me, restano a fondo. Sul fondo. Di questa storia. Dove il fondo non ha fine… Ma siamo quasi alla fine… Di questa storia… Di queste OGR… perchè, lo sai, lo hai già capito… le OGR… chiuderanno… per sempre… per colpa, o volere di questi mozzi, per questi falsi giganti. Per questi mancati capitani. Per queste sale… macchine. Sale, di acqua. Sale di melma. Per altri mille… come noi. E le OGR, sì, chiudono. Niente più resta per voi. Per la vostra storia, che finora è stata raccontata. Dimenticate tutto. Dimenticate i nomi. Dimenticate i morti. Di ogni giorno. Che altri giorni verranno. Con altri morti. Ma non saranno mai più… delle OGR… non saranno mai più… i morti dell’amianto… e nemmeno i morti della città stato di Viareggio… o altre… città stato… perchè i nani, credutisi giganti… sono su queste navi… e i mille, come me… restano… sul fondo. Mille erano… i lavoratori delle OGR… Mille erano i morti… di ogni volta… che ogni volta diventavano sempre altri mille… e poi niente è rimasto, qui alle OGR… l’hanno detto… i nani… si chiuderà,… nel 2018 ma già stanno morendo… altri mille… che adesso… alle OGR, restano solo 200… sul fondo. Sullo sfondo… di questa storia… sullo sfondo, di una tela, che non ha più colori. L’hanno detto, i nani, i morti alle OGR… sono stati 450… no… non è questo il numero… se è un numero che cerchi… se è un numero che cerchi… siamo… siamo mille… e altri mille … e altri mille… e ti dirò tutto allora. Ti dirò tutto. Alle OGR… nella storia delle OGR sono entrati… seimila lavoratori… se è un numero che cerchi… dalla tua nave. Arriveranno… seimila morti… per il tuo amianto… Forse molti di più. Le madri, le mogli, i figli. Siamo sul fondo. Siamo in fondo… a questa storia… siamo sullo sfondo di una tela… che ci copre il viso… che ci copre il corpo… Corpo di Stato… perché ogni volta… di ogni morte… lo Stato sapeva… ma allora ti chiederai, perchè vuoi le OGR? Cosa vuoi dalle OGR? Perché vuoi tutto questo?… C’è un altro numero, che ti voglio dire… Un giorno… La cifra di un giorno. 10 maggio 2007. Da una carta. Un numero, su una carta, niente altro che un numero su una carta di un giorno come un altro. Una frase… Ma questa, non come un’altra… E’ un documento privato, di un circuito privato, dentro le OGR, dalla Direzione Aziendale, di Trenitalia: “Il progetto prevede la concentrazione delle attività di manutenzione delle flotte ETR nell’impianto di Vicenza e di quelle del materiale rotabile A.L.E., nell’impianto di Foggia. In seguito a questa ricollocazione delle attività produttive si rende disponibile per la chiusura nel 2013 l’ impianto di Bologna”… I nani. O i giganti. I timonieri. I capitani. I mozzi. E tutti quelli che sono come quelli che devono morire, perché, hai capito, qui, si deve morire. A tutti questi, lascio allora un’altra frase. Una frase che forse è come un’altra. Perché adesso tutto è uguale. Tutti, sono uguali. Nessuno è immune. E io resto nel fondo dello Stato. Cosa sono stato? Non so dirti, cosa sono stato. Noi, cosa siamo Stati. E allora tra le mie mani, che lavoravano il ferro, dei treni, il ferro, delle lamiere, adesso, tra le mie mani, ho questa frase, su questa carta, di questo circuito, riservato… riservato… “a Bologna si renderà disponibile un’area di circa 120.000 metri quadri, in zona semicentrale, il cui valore al momento non è stimato”. Cosa è disponibile? … Cosa non è ancora stimato? Quale valore?… Forse sono troppo sul fondo… di questo stato… di cose… forse non capisco… queste cose o forse ho capito. Forse io sapevo già tutto… Stavo solo aspettando… l’ arrivo, delle tue carte, che non erano come altre. Stavo solo aspettando, una certezza… per questo Stato… di cose… E trovo altre carte ancora, anni dopo, ancora carte. Molta carta… carte riservate… certo. Sempre riservate … Riservate a chi ? Mi chiedo. Carte, documenti, numeri, date, cifre. Mi chiedo cose. Cosa, rimane allora, se non dirti tutto ancora… Una carta, con una data… 11 maggio 2010, documento, riservato, di Trenitalia: “Chiusura Officina di Bologna entro il 2013. Quindi confermate le dismissioni contenute nel documento riservato del 10 Maggio 2007. Resteranno in attività a Bologna soltanto 150 lavoratori. Le OGR, tutto il grande stabilimento delle OGR, la città Stato delle OGR, tutto questo, tutta questa storia, tutte queste vite, tutte queste morti, che ti ho detto, verranno smantellate. Cancellate. Non resterà niente di tutto questo. Solo una carta … Riservata. A te. A te che sai ascoltare. A te che non sai dimenticare… come vorrebbero. A te, che sei davanti a questo specchio di Stato. Un immagine riflessa, che tieni in vita… questo stato… di cose… perchè a niente sei servito… perchè a niente hanno portato le tue battaglie… perchè sei riflesso… in questo specchio… come culla di Stato. Dove sei nato e cresciuto… in questo stato… di cose… dove sei solo stato… uno stato di cose… più piccolo… ma non contrario a questo Stato. O forse, sono io, dentro questo specchio… sono io questo stato, di cose… io che non ho lottato abbastanza… Io che adesso, con tutte queste croci, che sono ormai dentro il mio corpo… di Stato… che devo dirti le ultime cose… prima che sia forse o forse no, ma devo dirti tutto. L’anno 2006, il giorno 18 luglio, alle ore 10 presso la sede dell’ Amministrazione Comunale della città di Bologna, viene firmato un Accordo Territoriale fra la Provincia di Bologna, nella persona della Presidente Beatrice Draghetti, la Regione Emilia Romagna, nella persona del Presidente Vasco Errani, il Comune di Bologna, nella persona del Sindaco Sergio Gaetano Cofferati, e la Rete Ferroviaria Italiana, RFI, SpA, nella persona dell’Amministratore delegato Mauro Moretti. Oggetto dell’Accordo: Titolo IV, Riqualificazione delle aree ferroviarie dismesse e dismettibili. Articolo 9: … “ai margini dell’area ferroviaria OGR, rimanga la destinazione ferroviaria di una parte delle aree non dismesse e non dismettibili in periodi… medio-lunghi.” Sapevano già tutto. Avevano deciso già tutto. Guarda bene quella data: 18 luglio 2006… Quattro anni prima di quelle carte riservate, in quel circuito riservato… in quelle carte del 2010, avevano già deciso tutto… il sistema binario era compiuto…
La doppiezza del ferro. Duttile se temprato. Elastico se naturale. Il sistema binario… l’uno e lo zero… Lo Stato… è la macchina… che corre su questo sistema… il sistema binario… 7 novembre 2011, viene firmato un accordo che prevede “un percorso per valutare i processi di delocalizzazione o ristrutturazione aziendale”. L’accordo viene firmato, per l’amministrazione comunale di Bologna, dall’assessore Patrizia Gabellini, dall’assessore Nadia Monti, dall’assessore Matteo Lepore, e per i sindacati, da Riccardo Galasso per la UIL, da Fabrizio Ungarelli per la CISL, e da Maurizio Lunghi per la CGIL. Foglio protocollato il 7 novembre 2011, numero PG 259505. Uomini che governano altri uomini, e uomini che comandano altri uomini. Sindacalisti che difendono i lavoratori e sindacalisti che licenziamo i lavoratori … il sistema binario… Non cercarmi… Non mi troverai mai più. Non cercarmi… io sono in questa macchina di Stato… Non cercarmi… restane fuori… tu che sei forse l’ultimo… non cercarmi… se puoi… combatti… sapendo che non finirà mai… questa lotta… combatti… sapendo che la perderai… questa lotta… perchè saranno tempi “medio-lunghi”… Così scrive quell’accordo… E tutto viene confermato nei documenti……riservati… di un circuito chiuso… nel 2010… tempi… medio-lunghi. Quei tempi… sono arrivati. Io li vedo… i nostri morti… di amianto… soffocati… le donne… contaminate… i bambini… bruciati vivi… Era solo una questione di… tempi medio-lunghi… Ecco. Adesso siamo qui. Alla fine. Siamo qui, alla fine di questa storia. Che è scritta. Già scritta … prescritta. Prescrizione… Sì, si chiude la storia. Che non si chiude mai, una storia. Una storia come questa. Storie, dentro altre storie. Che tu vorresti chiudere. Ma io no. Io non chiudo. Io non chiudo mai. Una storia. Io non chiudo, queste storie. Che ti resteranno, per sempre. Nella mente. Nella testa. Perché… è dalla testa di tutto, che qui si chiude, forse questa, storia. Dalla testa. Che è alla testa di tutto. Una testa. Che decide. Una testa su tutto. Una testa su tutti.
Una testa, su tutti noi. Allora… per questo, ti dico che non la chiuderò. Allora, scrivo… prescrivo, ti prescrivo di leggere. Di tenere in testa, che dalla testa, arriva tutto. Prescrivo. E riscrivo. Tutto. Prescrivo io stavolta. Quello che la Legge, di Stato, vorrebbe. Un Tribunale, vuole prescrivere. Una storia. Una storia che ti ho scritto. Prescritto. Di voci, morte. Bruciate. Vive. Bambini. Bruciati. Vivi. Mamme. Bruciate. Vive. Ragazze. Bruciate. Vive. Vite. Prescritte. Destini. Prescritti. E non sarà… certo un Tribunale. Una testa. A dirti, che prescrive. Un Processo. Prescritto. Un processo, non può essere, dalla testa. Di una storia. Essere. Prescritto. Un colpevole. Non può essere. Prescritto. Un bambino, bruciato. Vivo. In una macchina. Non può. Essere. Prescritto. E la testa. Di tutto questo. Io la so. Io so. Il suo nome. Io so. I suoi nomi. Dei colpevoli. Prescritti. Che la testa. Vuole. Prescritti. Un processo. Di madri. Bruciate. Vive. Non può. Essere. Prescritto. Io ti dico i nomi. Di imputati. Accuse pesantissime. Nomi eccellenti. La proprietaria del carro merci, GATX RAIL Austria e Germania. Officina Tedesca JUNGENTHAL. OFFICINA CIMA. Ma uno. Uno in particolare. Una testa. La testa… Mauro Moretti. Ex dirigente CGIL. Ex Amministratore Delegato di Ferrovie dello Stato. Una testa. Di Stato.
Ora sai di morire in pace. In pace staranno i morti. In pace andranno ai cortei i dirigenti dei sindacati, che sapevano. Che tacevano. E il processo giudiziario, della strage di Viareggio, la Città Stato della morte, vede tra gli imputati proprio l’ ingegnere Moretti. Ex sindacalista. Amministratore Delegato delle FS. Un sistema binario. Allora ti racconto. Questa storia. Che non chiudo. Mai. Nella testa. Nella mia… testa. Non si chiude mai… Un bambino, una madre, una ragazza. Bruciati. Vivi… Non si chiudono. Mai. Nella mia testa. Che non è. Una testa… di Stato. Io non sono mai… Stato. Così vicino… a una storia… come questa… Che per questo… non chiuderò… mai… e tu allora… la dovrai ascoltare… in eterno. Una condanna… Per noi… Per queste vite… Bruciate… Vive… Una condanna… L’unica… condanna… che ci sarà… in questa storia… Prescritta… Perché… Io già so… Prescrizione. Per imputati di Stato. Per uno Stato. Costituito. Ordine Costituito. Stato costituito parte civile. A Favore dello Stato. Contro le vite. Bruciate. Vive. Stato Costituito. Parte Civile. Contro di te. Che stai ascoltando… Questa storia… Prescritta. Stato Costituito. Ordine… Costituito… La testa… di Stato. Che si allatta. Al seno. Della Lupa. Lupa di Stato. Questa testa… al seno… dello Stato… Tieni questa storia… tra le mani. Crepale… nel cranio. Nel tuo cranio… Fino in fondo… Fino al fondo… Dove lo Stato… delle cose… si prende la tua vita… Per farti… Stato.

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