lunedì 17 novembre 2025

Libertà di parola versus libertà accademica: un conflitto ai limiti della post-democrazia - Marco Pitzalis

 

Nel dibattito pubblico si fa largo una questione cruciale che riguarda la libertà di parola, i suoi limiti e il rapporto con le libertà accademiche (Nda Sapiro et alii).
Questa questione è diventata attuale in particolare durante la crisi pandemica, quando tra discorso esperto, comunicazione politica, comunicazione istituzionale, comunicazione nei media tradizionali e nei nuovi social media (la presa di parola diffusa) si realizzò un cortocircuito a livello politico e comunicativo che non è stato ancora decifrato.
Nello stesso tempo, si è rafforzata tra le élite la tendenza a asserire che il sapere esperto debba non solo governare la politica, ma anche essere l’unico principio legittimo della presa di parola.
Questo anche senza considerare che i “saperi esperti”, in casi complessi che esondano da una sola expertise disciplinare (per esempio la virologia), dovrebbero coprire altre dimensioni cruciali quali quella medica, organizzativa, sociale, economica, politica, giuridica e psicologica. Quindi scegliere quale expertise sia l’unica pertinente è già di per sé una scelta “arbitraria” e certamente non democratica.
Di fronte alla crisi pandemica, è stato infatti messo in discussione il principio del diritto di parola, contrapponendo in modo definitivo “expertise” e “free speech”, giacché tutte le questioni relative al diritto, all’umano e al sociale dovevano discendere da un unico discorso legittimato a parlare.

La reazione alla deriva giacobina e iper-positivista nel governo della crisi pandemica ha però avuto l’effetto paradossale di minare la fiducia nelle istituzioni politiche, mediche, nazionali e internazionali. Questo effetto sociologicamente prevedibile non è stato considerato, giacché l’expertise sociologica non è mai stata legittimata a parlare in questa materia. Il risultato è stato di alimentare a dismisura il peso politico e mediatico di forze che rivendicano il principio del “free speech” contro l’expertise.
Questo “free speech”, bisogna fare attenzione, non coincide con la difesa del diritto di parola. Si tratta della rivendicazione della parola libera (o del dire parole in libertà): cioè il potere (non il diritto) di dire quello che si vuole, ivi compresa la menzogna, l’umiliazione, l’offesa e la violenza verbale contro persone in condizione di fragilità personale e politica.
La rivendicazione di free speech trova certamente una forza propulsiva nella rivalsa contro il moralismo e il normativismo woke e di certa “cancel culture”, ma trae la sua linfa dalla particolare struttura della società americana (e europea) e dal peso relativo di capitale culturale ed economico nella distribuzione delle posizioni. Senza comprendere questa struttura non si capirebbe il voto operaio per i partiti reazionari dal punto di vista sociale.
La questione del “free speech” riguarda in modo massiccio la sfera politica e pubblica, non solo in quanto rivendica l’uso di linguaggi razzisti e sessisti, ma perché imbroglia impunemente il confine tra verità e menzogna. A questo imbroglio dei confini contribuisce oggi l’irruzione dell’intelligenza artificiale con la sua capacità di alterare immagini e suoni, rendendo ancora più difficile orientarsi tra realtà e invenzione della realtà.
Il “free speech” in questo contesto non è dunque la libertà di prendere parola, ma l’affermazione di un nichilismo della parola che non ha come obiettivo una ricerca dialettica del consenso, una (ri)negoziazione dei significati e il dibattito come processo dialogico di ricerca collettiva della verità. Al contrario, è semplicemente e brutalmente l’affermazione violenta del punto di vista dei gruppi dominanti e la difesa dei loro interessi.
Nello stesso tempo, in molti paesi occidentali sono messe in questione le libertà accademiche. Negli USA si segnala un ritorno alle purghe che colpirono il mondo accademico, quello della cultura e del cinema (denominate maccartismo, come per delimitare a una persona le responsabilità storiche e strutturali), e anche in Italia il ddl Gasparri che equipara antisemitismo e antisionismo pretende di regolare la presa di parola in contesto accademico sulla questione israelo-palestinese e coopta le università dentro la guerra delle parole (e anche alla presa di parola tout-court).
Al di là di questo, è sempre più forte l’intolleranza verso le manifestazioni di dissidio e protesta degli studenti universitari. Mentre, in Italia, la presa di parola dei ricercatori è oramai un ricordo del passato, i sistemi nazionali ed europei di finanziamento della ricerca si presentano come dispositivi di disciplinamento e mobilitazione morale e politica (vedi il PNRR, i progetti Horizon, Erasmus+ ecc.). Tutti elementi che mettono in luce la crescente crisi di autonomia del campo universitario.
Libertà accademica e libertà di parola non sono però la stessa cosa. E lo dimostra il fatto che chi rivendica il “free speech” attacca la libertà accademica.
Occorre dunque operare una netta distinzione tra libertà di parola nell’arena pubblica e libertà accademiche. Sembra una sottigliezza giuridica o filosofica, ma non lo è. Le due operano in territori diversi, con logiche diverse e responsabilità diverse. Eppure, nella pratica discorsiva quotidiana, tendono a intrecciarsi fino a confondersi.
La libertà di parola è un diritto generale e designa il fatto che tutti possono dire, argomentare, criticare. La libertà accademica riguarda invece la produzione e la trasmissione di conoscenza disciplinata da una metodologia, da prove, da un processo di revisione tra pari, dall’accountability. Non è un privilegio corporativo, ma un dispositivo democratico.
Negli ultimi anni, questa distinzione è stata corrosa dall’esplosione di discorsi indifferenti alla verità, ciò che Harry Frankfurt chiamava “bullshit” (a queste tematiche è dedicato il Symposium “Academic Freedom under Attack” editor by Gisèle Sapiro and Thibaud Boncourt. Sociologica, 19-3, forthcoming). Bullshit non è la menzogna, che perlomeno riconosce la verità per capovolgerla, ma l’indifferenza a qualunque criterio di verifica. È un sintomo del nostro tempo caratterizzato dalla moltiplicazione delle fonti, retto da un’economia dell’apparenza, governato da algoritmi della visibilità. Tuttavia, osservo che ci sia un  rischio anche a voler ridurre tutto il conflitto epistemico a una lotta tra due polarità distinte: verità e “scemenze”. Questo significa negare le zone grigie nelle quali ci muoviamo anche in ambito accademico (tra conflitto interno e presa di parola esterna). Le scienze non sono monoliti e il ruolo dell’intellettuale spesso ambivalente. Nei campi scientifici si litiga e il meccanismo di fondo è quello del dubbio sistemico e dell’opposizione dialettica. Quando la critica al potere viene sistematicamente screditata come “ideologica”, la discussione pubblica si atrofizza.
Sulla questione del cambiamento climatico (vedere a questo proposito Pellizzoni 2007), per esempio, vengono certamente dette molte scemenze. Ma possiamo ridurre tutta la critica al discorso mainstream dell’IPCC alla categoria di bullshit?
Geologi e climatologi discutono da decenni su scale temporali, cause, pesi dei fattori. Qual è il peso del fatto umano? Per quanto l’“Antropocene” sia usato ovunque, dal punto di vista delle discipline geologiche non è considerato ancora un’epoca ufficiale. Questa non è post-verità, non è una scemenza da militante dell’ultradestra illetterato, ma è una forma di pluralismo disciplinato. È esattamente l’arena dove la libertà accademica lavora.
Se appiattiamo tutto, marginalizzando la critica scientificamente fondata, paradossalmente, regaliamo potere a chi decide cosa è “bullshit”. Governi, media, apparati militari e di sicurezza non sono arbitri neutrali. Operano con priorità proprie, spesso estranee ai principi della ricerca. La crisi climatica in questo contesto non è dunque neutra rispetto agli usi che ne vengono fatti per indirizzare le politiche industriali.
Quindi non basta tenersi alla larga dalle scemenze ma occorre anche difendere il campo accademico dall’eteronomia. Le norme morali che ci dicono cosa è legittimo dire non sono solo prodotte all’interno dell’accademia, ma vengono modellate da logiche esterne, dal marketing politico, dalle polemiche mediatiche, dagli scandali istantanei. L’università reagisce spesso inseguendo, anziché anticipando. La tentazione è respingere tutto ciò che “non ci piace” nel recinto del nonsense. Ma la storia ci mostra che molte verità scientifiche nascono minoritarie, sospette, eccentriche. L’università è una macchina fragile. Quando smette di tollerare il disaccordo metodologicamente fondato, smette di essere università.
Occorre distinguere, innanzitutto, la critica dalla censura. Senza critica non esiste progresso, senza limiti non esiste conoscenza. La contestazione degli studenti a un professore non è censura, se questa non porta all’annichilimento della persona. Quindi non è su questa che deve essere concentrato lo sforzo che invece dovrebbe essere diretto a  rendere visibili le pressioni esterne. L’autonomia non è un muro, è un equilibrio negoziato e il rapporto tra campo accademico e campo del potere è un equilibrio instabile che va continuamente monitorato. 

La lotta per l’autonomia del campo è, dunque, una lotta per la possibilità stessa di produrre verità non immediatamente subordinate agli interessi dominanti. È un conflitto costitutivo e ogni volta che l’università cede all’invasione di logiche esterne, ciò che viene indebolito non è una corporazione, ma la funzione pubblicadella conoscenza  Infatti, ciò che conta non è chi parla, ma come parla, cioè con quali prove, con quali metodi, sotto quali forme di responsabilità reciproca. La verità non è una bandierina da apporre su un territorio occupato, ma il processo collettivo di costruzione del consenso intorno alle risposte a una domanda.
Per questo la libertà accademica non è un privilegio della corporazione professorale, ma un investimento pubblico nella possibilità stessa di discutere seriamente. E questa possibilità, oggi, non è mai stata così preziosa né così fragile. 

da qui

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