Nel
dibattito pubblico si fa largo una questione cruciale che riguarda la libertà
di parola, i suoi limiti e il rapporto con le libertà accademiche (Nda Sapiro et alii).
Questa questione è diventata attuale in particolare durante la crisi pandemica,
quando tra discorso esperto, comunicazione politica, comunicazione
istituzionale, comunicazione nei media tradizionali e nei nuovi social media
(la presa di parola diffusa) si realizzò un cortocircuito a livello politico e
comunicativo che non è stato ancora decifrato.
Nello stesso tempo, si è rafforzata tra le élite la tendenza a asserire che il
sapere esperto debba non solo governare la politica, ma anche essere l’unico
principio legittimo della presa di parola.
Questo anche senza considerare che i “saperi esperti”, in casi complessi che
esondano da una sola expertise disciplinare (per esempio la virologia),
dovrebbero coprire altre dimensioni cruciali quali quella medica,
organizzativa, sociale, economica, politica, giuridica e psicologica. Quindi
scegliere quale expertise sia l’unica pertinente è già di per sé una scelta
“arbitraria” e certamente non democratica.
Di fronte alla crisi pandemica, è stato infatti messo in discussione il
principio del diritto di parola, contrapponendo in modo definitivo “expertise”
e “free speech”, giacché tutte le questioni relative al diritto, all’umano e al
sociale dovevano discendere da un unico discorso legittimato a parlare.
La reazione
alla deriva giacobina e iper-positivista nel governo della crisi pandemica ha
però avuto l’effetto paradossale di minare la fiducia nelle istituzioni
politiche, mediche, nazionali e internazionali. Questo effetto sociologicamente
prevedibile non è stato considerato, giacché l’expertise sociologica non è mai
stata legittimata a parlare in questa materia. Il risultato è stato di
alimentare a dismisura il peso politico e mediatico di forze che rivendicano il
principio del “free speech” contro l’expertise.
Questo “free speech”, bisogna fare attenzione, non coincide con la difesa del
diritto di parola. Si tratta della rivendicazione della parola libera (o del
dire parole in libertà): cioè il potere (non il diritto) di dire quello che si
vuole, ivi compresa la menzogna, l’umiliazione, l’offesa e la violenza verbale
contro persone in condizione di fragilità personale e politica.
La rivendicazione di free speech trova certamente una forza propulsiva nella
rivalsa contro il moralismo e il normativismo woke e di certa “cancel culture”,
ma trae la sua linfa dalla particolare struttura della società americana (e
europea) e dal peso relativo di capitale culturale ed economico nella
distribuzione delle posizioni. Senza comprendere questa struttura non si
capirebbe il voto operaio per i partiti reazionari dal punto di vista sociale.
La questione del “free speech” riguarda in modo massiccio la sfera politica e
pubblica, non solo in quanto rivendica l’uso di linguaggi razzisti e sessisti,
ma perché imbroglia impunemente il confine tra verità e menzogna. A questo
imbroglio dei confini contribuisce oggi l’irruzione dell’intelligenza
artificiale con la sua capacità di alterare immagini e suoni, rendendo ancora
più difficile orientarsi tra realtà e invenzione della realtà.
Il “free speech” in questo contesto non è dunque la libertà di prendere parola,
ma l’affermazione di un nichilismo della parola che non ha come obiettivo una
ricerca dialettica del consenso, una (ri)negoziazione dei significati e il
dibattito come processo dialogico di ricerca collettiva della verità. Al
contrario, è semplicemente e brutalmente l’affermazione violenta del punto di
vista dei gruppi dominanti e la difesa dei loro interessi.
Nello stesso tempo, in molti paesi occidentali sono messe in questione le
libertà accademiche. Negli USA si segnala un ritorno alle purghe che colpirono
il mondo accademico, quello della cultura e del cinema (denominate maccartismo,
come per delimitare a una persona le responsabilità storiche e strutturali), e
anche in Italia il ddl Gasparri che equipara
antisemitismo e antisionismo pretende di regolare la presa di parola in
contesto accademico sulla questione israelo-palestinese e coopta le università
dentro la guerra delle parole (e anche alla presa di parola tout-court).
Al di là di questo, è sempre più forte l’intolleranza verso le manifestazioni
di dissidio e protesta degli studenti universitari. Mentre, in Italia, la presa
di parola dei ricercatori è oramai un ricordo del passato, i sistemi nazionali
ed europei di finanziamento della ricerca si presentano come dispositivi di
disciplinamento e mobilitazione morale e politica (vedi il PNRR, i progetti
Horizon, Erasmus+ ecc.). Tutti elementi che mettono in luce la crescente crisi
di autonomia del campo universitario.
Libertà accademica e libertà di parola non sono però la stessa cosa. E lo
dimostra il fatto che chi rivendica il “free speech” attacca la libertà
accademica.
Occorre dunque operare una netta distinzione tra libertà di parola nell’arena
pubblica e libertà accademiche. Sembra una sottigliezza giuridica o filosofica,
ma non lo è. Le due operano in territori diversi, con logiche diverse e
responsabilità diverse. Eppure, nella pratica discorsiva quotidiana, tendono a
intrecciarsi fino a confondersi.
La libertà di parola è un diritto generale e designa il fatto che tutti possono
dire, argomentare, criticare. La libertà accademica riguarda invece la
produzione e la trasmissione di conoscenza disciplinata da una metodologia, da
prove, da un processo di revisione tra pari, dall’accountability. Non è un
privilegio corporativo, ma un dispositivo democratico.
Negli ultimi anni, questa distinzione è stata corrosa dall’esplosione di
discorsi indifferenti alla verità, ciò che Harry Frankfurt chiamava “bullshit” (a queste tematiche è dedicato il Symposium
“Academic Freedom under Attack” editor by Gisèle Sapiro and Thibaud Boncourt.
Sociologica, 19-3, forthcoming). Bullshit non è la menzogna, che perlomeno
riconosce la verità per capovolgerla, ma l’indifferenza a qualunque criterio di
verifica. È un sintomo del nostro tempo caratterizzato dalla moltiplicazione
delle fonti, retto da un’economia dell’apparenza, governato da algoritmi della
visibilità. Tuttavia, osservo che ci sia un rischio anche a voler ridurre
tutto il conflitto epistemico a una lotta tra due polarità distinte: verità e
“scemenze”. Questo significa negare le zone grigie nelle quali ci muoviamo
anche in ambito accademico (tra conflitto interno e presa di parola esterna).
Le scienze non sono monoliti e il ruolo dell’intellettuale spesso ambivalente.
Nei campi scientifici si litiga e il meccanismo di fondo è quello del dubbio
sistemico e dell’opposizione dialettica. Quando la critica al potere viene
sistematicamente screditata come “ideologica”, la discussione pubblica si
atrofizza.
Sulla questione del cambiamento climatico (vedere a questo proposito Pellizzoni 2007), per esempio, vengono
certamente dette molte scemenze. Ma possiamo ridurre tutta la critica al
discorso mainstream dell’IPCC alla categoria di bullshit?
Geologi e climatologi discutono da decenni su scale temporali, cause, pesi dei
fattori. Qual è il peso del fatto umano? Per quanto l’“Antropocene” sia usato
ovunque, dal punto di vista delle discipline geologiche non è considerato
ancora un’epoca ufficiale. Questa non è post-verità, non è una scemenza da
militante dell’ultradestra illetterato, ma è una forma di pluralismo
disciplinato. È esattamente l’arena dove la libertà accademica lavora.
Se appiattiamo tutto, marginalizzando la critica scientificamente fondata,
paradossalmente, regaliamo potere a chi decide cosa è “bullshit”. Governi,
media, apparati militari e di sicurezza non sono arbitri neutrali. Operano con
priorità proprie, spesso estranee ai principi della ricerca. La crisi climatica
in questo contesto non è dunque neutra rispetto agli usi che ne vengono fatti
per indirizzare le politiche industriali.
Quindi non basta tenersi alla larga dalle scemenze ma occorre anche difendere
il campo accademico dall’eteronomia. Le norme morali che ci dicono cosa è
legittimo dire non sono solo prodotte all’interno dell’accademia, ma vengono
modellate da logiche esterne, dal marketing politico, dalle polemiche
mediatiche, dagli scandali istantanei. L’università reagisce spesso inseguendo,
anziché anticipando. La tentazione è respingere tutto ciò che “non ci piace”
nel recinto del nonsense. Ma la storia ci mostra che molte verità
scientifiche nascono minoritarie, sospette, eccentriche. L’università è una
macchina fragile. Quando smette di tollerare il disaccordo metodologicamente
fondato, smette di essere università.
Occorre distinguere, innanzitutto, la critica dalla censura. Senza critica non
esiste progresso, senza limiti non esiste conoscenza. La contestazione degli
studenti a un professore non è censura, se questa non porta all’annichilimento
della persona. Quindi non è su questa che deve essere concentrato lo sforzo che
invece dovrebbe essere diretto a rendere visibili le pressioni esterne.
L’autonomia non è un muro, è un equilibrio negoziato e il rapporto tra campo
accademico e campo del potere è un equilibrio instabile che va continuamente
monitorato.
La lotta per
l’autonomia del campo è, dunque, una lotta per la possibilità stessa di
produrre verità non immediatamente subordinate agli interessi dominanti. È un
conflitto costitutivo e ogni volta che l’università cede all’invasione di
logiche esterne, ciò che viene indebolito non è una corporazione, ma la
funzione pubblicadella conoscenza Infatti, ciò che conta non è chi parla,
ma come parla, cioè con quali prove, con quali metodi, sotto quali forme di
responsabilità reciproca. La verità non è una bandierina da apporre su un
territorio occupato, ma il processo collettivo di costruzione del consenso
intorno alle risposte a una domanda.
Per questo la libertà accademica non è un privilegio della corporazione
professorale, ma un investimento pubblico nella possibilità stessa di discutere
seriamente. E questa possibilità, oggi, non è mai stata così preziosa né così
fragile.
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