L’appello a modificare il calendario scolastico presentato da un’associazione denominata “Condorcet”, circolato nelle ultime settimane e ripreso da siti di settore scolastico, di informazione generalista e da riviste di cultura politica , sembra aver trovato immediata sponda negli ambienti ministeriali, come mai era accaduto in occasioni precedenti. Nonostante l’eccezionalità dei tempi, non si tratta di un’ assoluta novità. La richiesta di modificare il calendario spostando in estate inoltrata la chiusura dell’anno scolastico e allungando i periodi di pausa intermedi, ha infatti re-innescato un dibattito di lungo corso sul tema “scuola aperta” d’estate si, o no. Un tema antico, e con predecessori illustri. Nel 2008 Francesco Rutelli spingeva per una riforma del tempo scuola che riducesse la pausa estiva e “ridesse fiato al turismo” nel periodo primaverile; Mario Monti nel 2013 proponeva di aprire le scuole d’estate riducendo la pausa degli studenti “sulla base della partecipazione volontaria delle famiglie”, garantendo “attività sportive, di recupero, alternative e per la comunità”; anche Giuliano Poletti nel 2015 ricordava l’importanza di combattere l’ozio estivo degli studenti, prevedendo attività di formazione o alternanza scuola-lavoro; e nel 2017 Valeria Fedeli preparava un piano “per venire incontro ai bisogni delle famiglie” (che non sapevano dove sistemare i figli) nei mesi di calura estiva. Infine, è dell’ottobre scorso la proposta del CNEL e dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) al Senato (vedi qui) che fa riferimento proprio ad una modifica del tempo scuola per ridurre la “concentrazione dei flussi turistici nello spazio e nel tempo, attraverso la destagionalizzazione degli stessi e una ridefinizione dei calendari scolastici e dei periodi di ferie dei lavoratori, guardando anche ad esperienze estere. ”
L’appello dell’associazione Condorcet, tuttavia, pur allineandosi ad
istanze precedenti, nasce in una situazione straordinaria, e muove da istanze
di tipo didattico. Estensori e primi firmatari sono docenti, dirigenti,
accademici ed analisti dell’istruzione; alcuni molto noti, protagonisti del
dibattito pubblico sulla scuola. Parliamo di Andrea Gavosto, Carlo Cottarelli,
Paolo Sestito, Daniele Checchi, Roberto Maragliano, ed altri ancora. Esponenti
di una certa idea di didattica – e dunque di
scuola – oggi dominante e in linea con le politiche riformatrici
dell’istruzione su scala internazionale. Non c’è dubbio, quindi, che tali
personalità riscuotano credito in questa particolare fase storica, come si
evince dagli interventi della Ministra Azzolina, che
sostanzialmente accolgono il contenuto dell’appello, rimandando la discussione
ai governi regionali, in alcuni casi apparentemente già d’accordo (Regione Veneto).
Insegnanti – dipendenti pubblici, privilegiati e
sfaccendati
In piena crisi pandemica e sociale, il tema del “tempo scuola” tocca nervi
scoperti e si innesta su un terreno di pregiudizi e ostilità tra gruppi
sociali, che trova nella figura del docente – dipendente pubblico uno dei
bersagli più immediati.
Forse varrebbe la pena ricordare qui la storia della progressiva costruzione del discredito sociale dei lavoratori della scuola o del
pubblico impiego, al centro oggi di una recrudescente e demagogica campagna di attacco, mediatica e politica.
Oppure sottolineare che il nostro calendario scolastico conta un numero di
giorni di lezione tra i più alti d’Europa – cosa ben nota – pur
concentrando la chiusura nei mesi più caldi per motivi storico-geografici
Varrebbe infine anche la pena ricordare che le scuole sono già
aperte in piena estate (oltre che nei pomeriggi, durante l’anno..).
Gli studenti delle scuole di secondo grado, infatti, svolgono
regolarmente attività di recupero e approfondimento disciplinare, o esperienze
di alternanza in raccordo con realtà esterne, nei mesi di giugno e luglio. Gli
insegnanti, da parte loro, sono impegnati nelle attività di scrutinio,
rendicontazione didattica o negli esami di Stato per tutto il mese di giugno,
nel primo ciclo, e fino a metà luglio, nel secondo ciclo. Tutte queste attività
riprendono a fine agosto, per la progettazione didattica, gli esami di recupero
delle carenze o di idoneità, in vista dell’apertura di settembre.
Questi aspetti non sono certo nuovi né nascosti, almeno per chi ha l’onestà
intellettuale di guardare alla vita reale della scuola senza pregiudizi e
superficialità.
Tuttavia, è sempre vero che la mossa di occupare l’estate dei docenti e
degli studenti suona di grande impatto presso l’opinione pubblica. Essa infatti
colpisce un luogo comune che spesso rende invisi gli insegnanti
nell’immaginario collettivo, sempre più considerati una categoria di lavoratori
contrattualmente privilegiata. La retorica dei “tre mesi di ferie” ha sempre
fatto colpo. E periodicamente la politica è tornata su questo punto, inasprendo
il dibattito e ad alimentando la delegittimazione sociale oltre che la frustrazione e demotivazione dei docenti.
Negli Stati Uniti Dana Goldstein l’ha definita “ The teacher wars” :
“the negative view of public school
teachers has periodically erupted into a nationwide “moral panic” about
national survival.”[1].
” [..] is a way to talk about economic
inequality and its effects without offending the rich. Poor kids aren’t doing
well on standardized tests? Blame lazy teachers, sitting around collecting
their paychecks instead of teaching!“[2]
Tali discorsi hanno fatto da da sfondo agli interventi di riforma neoliberale degli ultimi decenni, anche nel
nostro paese, influenzando il senso comune diffuso sull’inefficacia
dell’istruzione pubblica e di tutto ciò che è pubblico in
generale.
L’idea di ridurre le vacanze estive della scuola al solo mese di agosto,
prolungando il lavoro in presenza fino a luglio inoltrato – ammesso che
l’emergenza pandemica possa dirsi per quell’epoca conclusa – suonerebbe un po’
come quel “risarcimento dovuto” da parte di un’istituzione inefficace e dei
suoi lavoratori. Apparentemente di immediato buon senso, si tratta in realtà di
una proposta dirompente non solo sul piano sindacale, ma anche sociale. Essa
andrebbe ad investire la riorganizzazione del tempo di vita e lavoro di
(milioni di) studenti, famiglie, insegnanti e personale scolastico, cosa che
richiede necessariamente un coinvolgimento delle parti sociali e una
concertazione su più fronti, a livello nazionale.
Ma, come abbiamo imparato da alcune prese di posizione dei
mesi passati, l’emergenza può essere anche un utile strumento per sollecitare
modifiche permanenti, superando resistenze e approfittando dell’occasione
per realizzare le innovazioni normative auspicate. Proviamo quindi a guardare
alla proposta di recupero del tempo perso da una prospettiva
non meramente contingente.
Didattica
da remoto, didattica in presenza
Cominciamo dall’osservare un aspetto singolare in questa vicenda: e cioè
che l’idea di recuperare il tempo in presenza venga sostenuta proprio da quei
protagonisti del discorso pubblico che da sempre hanno promosso l’introduzione
di pratiche di didattica digitale nelle scuole. Le personalità che hanno
redatto l’appello, e molte di quelle che hanno firmato, infatti, hanno
sempre sostenuto le ragioni della Didattica Digitale Integrata, valorizzandola quale innovativa e
rivendicandone in modo esplicito (vedi ad es. qui o qui) la valenza metodologica, da tempo e non certamente solo in epoca di emergenza.
In questo appello e nelle motivazioni all’origine della proposta, tuttavia,
riemerge un’inaspettata attenzione nei confronti della didattica in presenza.
La richiesta di rimodulare i periodi di vacanza ed estendere il tempo scuola
parte infatti dal presupposto che una didattica a distanza conduca a una
perdita secca del tempo, con danni enormi sul piano dell’apprendimento. Danni
che andrebbero ad aggiungersi a quelli dello scorso anno. Da qui la necessità
di recuperare e approfittarne per mutare strutturalmente il calendario
scolastico sulla base di un modello in uso in alcune nazioni d’Europa.
L’esortazione a “non perdere altro tempo” e a recuperare quello in aula non
si riferisce solo a quegli studenti esclusi dall’interazione con la scuola per motivi di connessione, strumentazione, vulnerabilità sociale o disabilità. Parte invece dal presupposto che la
didattica a distanza sia “uno strumento d’emergenza” che “non può essere
l’unica risposta”. Sembra quindi suggerire un cedimento: e cioè che anche la
più innovativa comunicazione digitale non possa essere capace di
sopperire alla mancanza della relazione didattica in presenza.
Questa resa apparente merita allora una più attenta interpretazione.
Supporre che esista un “tempo perso da recuperare” significa avvalorare l’idea
di insegnanti e studenti perennemente in debito nei confronti della società,
alla rincorsa di traguardi mai raggiunti: migliori standard didattici, da parte
dei docenti; precisi risultati di apprendimento, calcolabili rispetto a
traguardi immediati e standard, da parte degli studenti.
Il
tema della formazione docenti e le metodologie didattiche.
Se è vero che la didattica digitale, sia pure nella forma della didattica
integrata, è la grande innovazione che la scuola italiana [3]
attende da sempre, è tuttavia vero anche che essa viene praticata
in modo sostanzialmente improvvisato e inefficace, da docenti legati ancora a
un modo di fare scuola tradizionale.
Proprio in questi giorni, e non a caso, il direttore della Fondazione
Agnelli Andrea Gavosto, su Repubblica, è tornato a ripetere il suo mantra sulla formazione
degli insegnanti, che non deve essere solo e tanto di tipo tecnico, quanto
propriamente metodologico. Se i docenti, insomma, usano determinati
strumenti, dovranno «volenti o nolenti» cambiare la metodologia didattica.
E’ proprio questo un primo nodo del contendere. A quanto pare, cioè – e in
particolare nel segmento delle scuole secondarie – la modifica delle
metodologie didattiche nella direzione indicata dalle politiche riformatrici,
che si definisce “innovativa” oramai da almeno 20 anni, fatica a penetrare
nelle prassi quotidiane dei docenti, anche in periodi di digitalizzazione
forzata. Gli insegnanti, insomma, continuano a rivendicare autonomia didattica:
nella scelta di stili, approcci, comunicazione, modalità di formazione e
aggiornamento. In una parola sola: rivendicano ancora la loro libertà di insegnamento. Aspetto, questo, che deve suonare
quasi prodigioso a tanti dei sostenitori dell’appello, ben coscienti, oltre che
protagonisti, di quell’egemonia culturale che ha permeato questa fase
storica e politica [4].
Ecco quindi che la proposta dell’appello sembra assumere quasi finalità
punitive: visto che gli insegnanti non hanno voluto o saputo aggiornarsi e,
costretti alla didattica a distanza, insegnano male, perché non conoscono i
segreti dell’innovazione didattica, allora “meritano” di veder sconvolto il
loro impegno di lavoro.
Il
dogma della misurabilità dell’apprendimento degli studenti
L’idea che esista un “tempo perso” da recuperare va di pari passo con
quella della misurabilità e della quantificazione dell’apprendimento, nonché
con la convinzione che esista una valutazione “vera” ed una valutazione “falsa”
di tale apprendimento, riferibile a traguardi oggettivi, immediati e
calcolabili.
Scriveva Andrea Gavosto su Donna Moderna (10 Settembre):
“ Purtroppo, il timore che
qualcosa si sia perso per strada è reale: in Italia non possiamo ancora
quantificarlo, perché sono saltati i test Invalsi di maggio [..]
è stata calcolato che ci sarà una perdita
del 10% dei Pil nazionali quando queste generazioni entreranno nel mercato del
lavoro. [..]
si potrebbe concentrare l’insegnamento sulle
materie principali come italiano, matematica, inglese, scienze. E lasciare le
scuole aperte dalle 7 del mattino alle 7 di sera: questo sgraverebbe le
famiglie e aiuterebbe la ripartenza del Paese”
Scrivono Tito Boeri e Roberto Perotti su Repubblica (3 Dicembre):
“Si facciano appena possibile test
volti a valutare i gap formativi accumulati in questi mesi e l’aumento della
dispersione scolastica. Serviranno se non altro a definire meglio le attività
di recupero e a selezionare chi dovrà essere prioritariamente coinvolto in
queste attività.”
L’argomento del recupero degli apprendimenti degli studenti non è dunque
nuovo. Anzi, è stato richiamato in più occasioni e da diverse voci, già nella
prima fase di emergenza.
Oggi non si fa che parlare che di “gap formativi” e della loro misurazione,
invocando l’impiego di test standardizzati come i soli strumenti validi a tale
scopo. Il giudizio che ciascun insegnante sta tentando faticosamente di
costruire per ciascuno studente, valido proprio in quanto condiviso e
ri-negoziato continuamente all’interno della classe, non ha più alcun valore.
A poco servirebbe, in tal senso, che i docenti si ingegnassero a ripensare,
modificare, reinventare prassi o strumenti di valutazione, anche aggiornandosi
su un tema sicuramente tra i più scottanti e complessi in mancanza di relazione
diretta. L’idea che l’insegnante non sia più titolato ad una verifica affidabile del
percorso di apprendimento è ormai più che consolidata (si veda, come esempio
tra i tanti, questo articolo ed in particolare i commenti in calce).
Per la scuola del capitale umano, in un’impressionate riduzione delle
soggettività degli alunni a unità produttive, non esiste valutazione che non
sia misurazione. E la misurazione deve essere standardizzata, perché
comparabile. Non a caso, è d’attualità il nuovo progetto dell’INVALSI, che
prevede la somministrazione volontaria di test standardizzati in ottica
“formativa” proprio per valutare “correttamente” la perdita degli
apprendimenti.
Cosa
si è perso, cosa si perde nella scuola della pandemia?
Ovviamente, la nostra posizione è diversa.
Lo scorso anno scolastico è stato sicuramente improvvisato nella sua
seconda metà; ma i docenti italiani sono stati in grado di risollevarlo,
facendo di necessità virtù, con le dovute possibili eccezioni, come per
qualsiasi categoria di lavoratori.
E se lo scorso anno scolastico non è andato perso proprio grazie ai docenti
è stato anche perché, pur nell’improvvisazione – di volta in volta corretta
attraverso un confronto di esperienze, e non seguendo pedissequamente
contestabili teorie- essi hanno fatto riferimento proprio al loro bagaglio
culturale pregresso. Quello stesso bagaglio su cui decenni di riforme hanno
tentato di intervenire, modificandolo, disciplinandolo e subordinandolo a
precisi desiderata.
Pensare quindi di dover restituire il tempo perduto non è un fatto di
semplice buon senso: interpella la nostra idea di scuola e le sue
finalità. Chiama in causa il tema della qualità della didattica, di come sia
possibile valutarne l’efficacia, rispetto a un’azione formativa e a una
relazione interpersonale – quella con gli studenti – che dura più anni. Solleva
il tema del rapporto tempo-educazione- istruzione, quello tra esiti di
medio-lungo termine o traguardi immediati e calcolabili.
L’ interrogativo che giunge spontaneo a chiunque legga l’appello resta
dunque questo: ma che cosa si è perso? Quali elementi dell’azione
didattico-formativa sono venuti meno? E tali mancanze possono essere calcolate,
come fanno con tranquilla sicurezza gli estensori dell’appello, in multipli di
giornate scolastiche? (75, 84, 75% in presenza, etc…) Possono essere
recuperate con un semplice prolungamento del tempo scuola?
Queste domande ci pongono su un terreno ben più complesso e interrogano
anche l’eccezionalità dei tempi e la straordinarietà di una condizione sulla
quale, forse, più che affannarsi, varrebbe la pena proprio soffermarsi.
L’ impegno di docenti e degli studenti ha a che fare con condizioni del
tutto inedite, con modalità che stravolgono il concetto stesso di storia, con
una precarietà dovuta al fatto che è impossibile stabilire per quanto tempo si
prolungherà tale situazione, e se l’eventuale ritorno a una quasi normalità
sarà o meno definitivo. Sicuramente esiste una sensazione di transitorietà, che
incide sulla tenuta dell’impegno, aumenta lo stress, introduce considerazioni
nuove –anche sul piano della relazione con gli alunni. Che tutto ciò
costituisca un bagaglio d’esperienza non positivo, che andrà ad incidere su una
generazione che per un periodo incredibilmente prolungato non ha potuto godere
della normale vita associativa che la scuola propone, è indubbio. Ma tutto
questo, per chi si sta impegnando per far fronte a questa eccezionalità, non
appare affatto come «tempo perso». In alcuni casi, anzi, la straordinarietà
della situazione aumenta l’intensità della relazione e della comunicazione,
rendendola più feconda e intima, anche in relazione all’approfondimento dei
contenuti disciplinari. Chiedere lo stravolgimento del calendario prima che
i docenti possano trarre un bilancio autentico del proprio lavoro, pur così
anomalo, è un atto di prevaricazione sul loro operato che, come constatiamo da
anni, non costituisce certo una novità. E non è detto che per gli studenti sia
positivo, dopo un anno scolastico così stressante e faticoso, prolungare il
tempo di recupero e studio, anche se in presenza.
La questione è tutta qui. Al di là dei numeri, che cosa è andato perso? Che
cosa deve essere assolutamente recuperato? A chi compete stabilirlo?
Ci aspettiamo davvero che la risposta arrivi dai prossimi test INVALSI?
[1] https://www.dissentmagazine.org/article/review-dana-goldstein-teacher-wars
[2]
https://www.jacobinmag.com/2015/03/education-reform-goldstein-teacher-wars-review
[3] Soggetto a nostro parere arbitrario; più che della scuola, si tratta di
ben determinati gruppi d’interesse.
[4] M. Baldacci definisce questa fase come periodo
di “scuola neoliberista”. Vedi M. Baldacci: “la scuola al bivio: democrazia o
mercato?”, Franco Angeli, 2019.
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